Rendendo meritatamente onore al suo nome, Le bizzarre avventure di JoJo è sempre stata una serie assai strana. Se ancora le sue prime tre parti si mantenevano fedeli ai dettami dello shounen manga del periodo in cui sono uscite, presentando avventure epiche, viaggi in paesi lontani ed eroi nerboruti in stile Kenshiro, la folle genialità dell’autore Hirohiko Araki comincia a spiccare il volo con la quarta parte, Diamond is unbreakable, recentemente trasposta da David Production in una serie animata di 39 episodi andata in onda da aprile a dicembre 2016.
In vari modi legata alle precedenti, ma da esse molto diversa, l’avventura dello studente teppistello Josuke Higashikata ha luogo in una piccola e apparentemente normalissima città del Giappone che nasconde molti misteri, tutti riconducibili in un modo o nell’altro ai poteri Stand e alle secolari battaglie a cui la famiglia Joestar è destinata.
Con Diamond is unbreakable l’autore comincia ad abbandonare quasi del tutto la linearità della narrazione, stupendo di continuo con trovate fuori di testa e battaglie sempre più intellettuali e meno prettamente fisiche. Questa quarta avventura di JoJo non prevede viaggi e peregrinazioni, ma ci catapulta nella vita quotidiana dei suoi protagonisti, costretti a confrontarsi con una moltitudine di individui dotati di poteri Stand che in un modo o nell’altro portano scompiglio in città e nelle loro vite e con un mistero che si dipana assai lentamente. Manca quasi del tutto l’epicità tipica delle serie precedenti, i viaggi avventurosi in paesi lontani, la sensazione di una lotta voluta dal destino, perché Diamond is unbreakable, se spogliata di tutte le stramberie caratteristiche di JoJo, potrebbe benissimo essere una storia vera. Morioh, la cittadina che fa da setting alla serie, è basata su Sendai, la città natale dell’autore, e, nonostante il futuristico (per i tempi in cui il fumetto è uscito per la prima volta sulle pagine di Shounen Jump) 1999 in cui sono ambientate le vicende e il perenne cielo giallo acido che la sovrasta, la si riesce facilmente a percepire come un luogo reale: il porto, la caffetteria, la banca, la scuola, il ristorante, il vialetto con la cassetta delle lettere, l’iconico e riconoscibilissimo minimarket (L)Owson sono tutti posti che potremmo benissimo vedere davvero, passeggiando per le strade di una città del Giappone.
Questa apparente “normalità” è una delle caratteristiche più particolari ma anche uno dei talloni d’Achille di Diamond is unbreakable, che si rivela essere una serie più lenta e dispersiva delle precedenti, in cui la trama principale, inframezzata da mille e più scontri autoconclusivi contro il potere Stand di turno, comincia a dipanarsi solo nella seconda metà della serie, presentando ufficialmente il vero cattivo e dandogli spazio in maniera anche maggiore rispetto ai protagonisti. Il gruppo dei “buoni”, infatti, fatta esclusione per il timido ma coraggioso Koichi Hirose e lo schizzato mangaka Rohan Kishibe, non si fa ricordare più di tanto, dato che Okuyasu Nijimura non si discosta quasi mai dal suo ruolo di “scemo del villaggio” piuttosto inutile e lo stesso protagonista Josuke infastidisce con certi suoi comportamenti da bulletto e si fa rubare la scena dagli altri personaggi, spesso e volentieri senza neppure avere un ruolo di primo piano in molti episodi. Sono personaggi molto particolari, molto lontani dall’archetipo dell’eroe visto anche nelle serie precedenti, che non fanno più di tanto gruppo tra loro se non per fare i bulletti con qualche comprimario e perciò risulta paradossalmente più facile, piuttosto che da loro, sentirsi coinvolti dal malato eppure splendidamente raccontato stile di vita del cattivo.
Quest’ultimo è un personaggio che si fa odiare in maniera facile eppure piacevolissima, complice anche il fatto che l’autore le pensa proprio tutte per tirarlo sempre fuori dai guai donandogli potenziamenti o scappatoie e che a livello di design sia lui che il suo Stand sono azzeccatissimi e temibili.
Nonostante un cast non sempre simpaticissimo, anche questa quarta avventura di JoJo non manca di tenerci incollati allo schermo in preda a suspense, curiosità ed ansia, riuscendo a risultare per certi versi anche superiore all’originale versione manga, di cui riesce, per non si sa quale miracolo, a comprimere i moltissimi volumi in soli 39 episodi senza tralasciare quasi nulla. A parte qualche cambiamento nell’ordine dei combattimenti, un paio di scontri un po’ abbreviati e l’unione degli ultimissimi scontri in un solo gruppo di episodi invece che in gruppi di episodi separati, è praticamente uguale al fumetto e c’è proprio tutto, anche quegli episodi che magari potevano essere tolti perché davvero ininfluenti per la trama (e in Diamond is unbreakable ce ne sono tanti). Il ridotto numero di puntate aiuta a diminuire un po’ la dispersività della narrazione e il formato dell’animazione, con colori, musiche e cliffhanger strategici, giova tantissimo ad una storia come quella di Diamond is unbreakable, che punta tantissimo sull’ansia, la suspense e le sensazioni del fruitore.
Ad aiutare il coinvolgimento c’è anche quello che, da sempre, è uno dei più grandi punti di forza della saga di JoJo, ossia la grande fantasia dell’autore nel creare poteri e scontri ricchissimi di astuzie, imprevisti, variabili e stramberie, che appassionano tantissimo anche quando i personaggi coinvolti non sono di per sé interessanti. Anche se, nella prima parte, la narrazione è lenta e ci vuole un po’ prima di capire dove la storia vuole andare a parare, con questa serie non ci si annoia mai, sempre in preda a combattimenti ansiogeni di cui finiamo per aspettare la risoluzione con immensa curiosità, mentre i personaggi sono sempre sul filo del rasoio, e noi con loro. Fra capelli semoventi, gente che vive sui tralicci, sedicenti alieni mutaforma, sfide mortali a morra cinese, bombe che modificano il tempo, gente capace di sfruttare le onomatopee dei rumori o di leggere le persone come fossero libri, anche stavolta Araki si inventa mille e più stramberie, e perdersi per la quarta volta nella sua mente folle e geniale risulta ancora una volta bellissimo, anche se le sensazioni che proviamo stavolta sono un po’ diverse rispetto alle precedenti.
Come già per le tre serie precedenti, anche Diamond is unbreakable è impreziosito da una resa animata fedelissima allo stile dell’autore originale, ricchissima di colori acidi, onomatopee svolazzanti e altre bizzarrie grafiche di ogni tipo (cito ad esempio il mangaka Rohan Kishibe, i cui capelli senza senso sono tinti di una rosa di colori che va dal rosa all’azzurro, passando per il verde, e non sono mai dello stesso colore per due apparizioni di fila). Ormai abbiamo imparato ad aspettarcele e anzi le desideriamo quasi, ma JoJo fortunatamente non ci delude mai, risultando sempre più folle e psichedelico, ma fighissimo proprio per questo, ogni volta che un nuovo discendente dei Joestar inizia la sua avventura.
Sempre spassosissimo il doppiaggio, che schiera nomi del calibro di Wataru Takagi, Shigeru Chiba e Yuki Kaji (che non si discosta granché dal suo personaggio “tipo” del ragazzino lagnoso ma che si impegna, tuttavia il ruolo di Koichi gli calza a pennello), mentre tornano a riprendere i loro ruoli della serie precedente un granitico Daisuke Ono e un rimbambito e sempre divertentissimo Unshou Ishizuka.
Oltre che con la tavolozza dei colori, JoJo ha sempre giocato tantissimo anche con la musica e anche stavolta la serie animata non ci ha deluso da questo punto di vista, regalandoci delle chicche davvero straordinarie. Se, tutto sommato, la parte orchestrata in sottofondo agli episodi non è granché incisiva e spesso riprende (decontestualizzandoli e spogliandoli di tutto il loro fascino) brani della precedente terza serie, sono le sigle a darci le maggiori soddisfazioni. Nonostante il ridotto numero di puntate, Diamond is unbreakable ha ben tre sigle d’apertura, una più bella dell’altra.
La prima, “Crazy Noisy Bizarre Town”, dei The DU, si adatta perfettamente all’atmosfera più “easygoing” della prima parte della storia e si concede il lusso di un ritmo allegro e di un video dove i personaggi si esibiscono addirittura in coreografie e pose plastiche uscite da La febbre del Sabato sera, tra colori psichedelici, riferimenti velati ad eventi futuri della storia e citazioni a scene iconiche del manga. Il video della sigla cambia più volte, rispecchiando gli eventi degli episodi, ma ad un certo punto cambia persino l’arrangiamento della canzone, sostituita con una sua versione ancor più smaccatamente ballabile.
La seconda sigla, “Chase”, dei Batta, è la più debole delle tre: brevissima anche nella sua versione completa (soltanto poco più di due minuti), non colpisce più di tanto dal lato musicale, ma il suo essere una canzone più rock ed aggressiva ben si confà all’atmosfera della parte di storia che accompagna e al video che la correda, ricchissimo di tocchi di classe e riferimenti all’universo di Diamond is unbreakable ma non solo.
È con la terza, “Great days”, di Karen Aoki e Daisuke Hasegawa, che JoJo esplode in tutta la sua fighissima bizzarria. Una canzone che, a sentirne solo l’incipit, potrebbe benissimo (e non è un caso) essere di un gruppo rock occidentale degli anni novanta, ma poi continua con un testo giapponese e un ritmo totalmente diverso ma non meno coinvolgente. Il video che l’accompagna rappresenta l’essenza più intrinseca e affascinante dell’epopea di JoJo, tra colori acidi, personaggi che ballano e fanno capolino nelle pose più assurde, loghi che svolazzano qua e là e riferimenti a varie parti di questa avventura ormai trentennale che tanto continua a piacerci.
Il modo, totalmente inaspettato ma assolutamente geniale, in cui questa sigla viene ribaltata a sorpresa negli ultimi episodi, è da applausi a scena aperta.Ciliegina su una torta già di per sé gustosissima è la sigla di chiusura, che, come da graditissima tradizione della saga, è ancora una volta una canzone occidentale. Stavolta tocca a “I want you”, brano del 1996 degli australiani Savage Garden. Il legame con la trama della storia stavolta è piuttosto labile (non è la genialata di “Walk like an Egyptian” della terza serie) ma decisamente funzionale, perché a livello di ritmo riesce perfettamente a riportarci con la mente a quella fine degli anni ’90 in cui questo tipo di band e di canzoni la facevano da padrone e in cui, sia pure anche solo in maniera futuristica, l’avventura di Josuke e compagni è ambientata.
Avere “Bohemian Rhapsody” come sigla finale sarebbe stato davvero troppo, per quanto ce lo aspettavamo tutti, da una serie che nei nomi dei suoi personaggi e dei loro poteri continua imperterrita a giocare con artisti, gruppi, canzoni, album (Queen, ma anche David Bowie, Pink Floyd, Enigma, Pearl Jam, U2, Earth Wind and Fire, Red Hot Chili Peppers, fra gli altri). Le nostre previsioni non si sono avverate, ma del risultato siamo più che soddisfatti lo stesso, e lo sono anche i Giapponesi, che, come per il Pat Metheny Group dello scorso anno, si sono potuti beccare con la scusa diverse ridistribuzioni a tema JoJo degli album dei Savage Garden.
In vari modi legata alle precedenti, ma da esse molto diversa, l’avventura dello studente teppistello Josuke Higashikata ha luogo in una piccola e apparentemente normalissima città del Giappone che nasconde molti misteri, tutti riconducibili in un modo o nell’altro ai poteri Stand e alle secolari battaglie a cui la famiglia Joestar è destinata.
Con Diamond is unbreakable l’autore comincia ad abbandonare quasi del tutto la linearità della narrazione, stupendo di continuo con trovate fuori di testa e battaglie sempre più intellettuali e meno prettamente fisiche. Questa quarta avventura di JoJo non prevede viaggi e peregrinazioni, ma ci catapulta nella vita quotidiana dei suoi protagonisti, costretti a confrontarsi con una moltitudine di individui dotati di poteri Stand che in un modo o nell’altro portano scompiglio in città e nelle loro vite e con un mistero che si dipana assai lentamente. Manca quasi del tutto l’epicità tipica delle serie precedenti, i viaggi avventurosi in paesi lontani, la sensazione di una lotta voluta dal destino, perché Diamond is unbreakable, se spogliata di tutte le stramberie caratteristiche di JoJo, potrebbe benissimo essere una storia vera. Morioh, la cittadina che fa da setting alla serie, è basata su Sendai, la città natale dell’autore, e, nonostante il futuristico (per i tempi in cui il fumetto è uscito per la prima volta sulle pagine di Shounen Jump) 1999 in cui sono ambientate le vicende e il perenne cielo giallo acido che la sovrasta, la si riesce facilmente a percepire come un luogo reale: il porto, la caffetteria, la banca, la scuola, il ristorante, il vialetto con la cassetta delle lettere, l’iconico e riconoscibilissimo minimarket (L)Owson sono tutti posti che potremmo benissimo vedere davvero, passeggiando per le strade di una città del Giappone.
Questa apparente “normalità” è una delle caratteristiche più particolari ma anche uno dei talloni d’Achille di Diamond is unbreakable, che si rivela essere una serie più lenta e dispersiva delle precedenti, in cui la trama principale, inframezzata da mille e più scontri autoconclusivi contro il potere Stand di turno, comincia a dipanarsi solo nella seconda metà della serie, presentando ufficialmente il vero cattivo e dandogli spazio in maniera anche maggiore rispetto ai protagonisti. Il gruppo dei “buoni”, infatti, fatta esclusione per il timido ma coraggioso Koichi Hirose e lo schizzato mangaka Rohan Kishibe, non si fa ricordare più di tanto, dato che Okuyasu Nijimura non si discosta quasi mai dal suo ruolo di “scemo del villaggio” piuttosto inutile e lo stesso protagonista Josuke infastidisce con certi suoi comportamenti da bulletto e si fa rubare la scena dagli altri personaggi, spesso e volentieri senza neppure avere un ruolo di primo piano in molti episodi. Sono personaggi molto particolari, molto lontani dall’archetipo dell’eroe visto anche nelle serie precedenti, che non fanno più di tanto gruppo tra loro se non per fare i bulletti con qualche comprimario e perciò risulta paradossalmente più facile, piuttosto che da loro, sentirsi coinvolti dal malato eppure splendidamente raccontato stile di vita del cattivo.
Quest’ultimo è un personaggio che si fa odiare in maniera facile eppure piacevolissima, complice anche il fatto che l’autore le pensa proprio tutte per tirarlo sempre fuori dai guai donandogli potenziamenti o scappatoie e che a livello di design sia lui che il suo Stand sono azzeccatissimi e temibili.
Nonostante un cast non sempre simpaticissimo, anche questa quarta avventura di JoJo non manca di tenerci incollati allo schermo in preda a suspense, curiosità ed ansia, riuscendo a risultare per certi versi anche superiore all’originale versione manga, di cui riesce, per non si sa quale miracolo, a comprimere i moltissimi volumi in soli 39 episodi senza tralasciare quasi nulla. A parte qualche cambiamento nell’ordine dei combattimenti, un paio di scontri un po’ abbreviati e l’unione degli ultimissimi scontri in un solo gruppo di episodi invece che in gruppi di episodi separati, è praticamente uguale al fumetto e c’è proprio tutto, anche quegli episodi che magari potevano essere tolti perché davvero ininfluenti per la trama (e in Diamond is unbreakable ce ne sono tanti). Il ridotto numero di puntate aiuta a diminuire un po’ la dispersività della narrazione e il formato dell’animazione, con colori, musiche e cliffhanger strategici, giova tantissimo ad una storia come quella di Diamond is unbreakable, che punta tantissimo sull’ansia, la suspense e le sensazioni del fruitore.
Ad aiutare il coinvolgimento c’è anche quello che, da sempre, è uno dei più grandi punti di forza della saga di JoJo, ossia la grande fantasia dell’autore nel creare poteri e scontri ricchissimi di astuzie, imprevisti, variabili e stramberie, che appassionano tantissimo anche quando i personaggi coinvolti non sono di per sé interessanti. Anche se, nella prima parte, la narrazione è lenta e ci vuole un po’ prima di capire dove la storia vuole andare a parare, con questa serie non ci si annoia mai, sempre in preda a combattimenti ansiogeni di cui finiamo per aspettare la risoluzione con immensa curiosità, mentre i personaggi sono sempre sul filo del rasoio, e noi con loro. Fra capelli semoventi, gente che vive sui tralicci, sedicenti alieni mutaforma, sfide mortali a morra cinese, bombe che modificano il tempo, gente capace di sfruttare le onomatopee dei rumori o di leggere le persone come fossero libri, anche stavolta Araki si inventa mille e più stramberie, e perdersi per la quarta volta nella sua mente folle e geniale risulta ancora una volta bellissimo, anche se le sensazioni che proviamo stavolta sono un po’ diverse rispetto alle precedenti.
Come già per le tre serie precedenti, anche Diamond is unbreakable è impreziosito da una resa animata fedelissima allo stile dell’autore originale, ricchissima di colori acidi, onomatopee svolazzanti e altre bizzarrie grafiche di ogni tipo (cito ad esempio il mangaka Rohan Kishibe, i cui capelli senza senso sono tinti di una rosa di colori che va dal rosa all’azzurro, passando per il verde, e non sono mai dello stesso colore per due apparizioni di fila). Ormai abbiamo imparato ad aspettarcele e anzi le desideriamo quasi, ma JoJo fortunatamente non ci delude mai, risultando sempre più folle e psichedelico, ma fighissimo proprio per questo, ogni volta che un nuovo discendente dei Joestar inizia la sua avventura.
Sempre spassosissimo il doppiaggio, che schiera nomi del calibro di Wataru Takagi, Shigeru Chiba e Yuki Kaji (che non si discosta granché dal suo personaggio “tipo” del ragazzino lagnoso ma che si impegna, tuttavia il ruolo di Koichi gli calza a pennello), mentre tornano a riprendere i loro ruoli della serie precedente un granitico Daisuke Ono e un rimbambito e sempre divertentissimo Unshou Ishizuka.
Oltre che con la tavolozza dei colori, JoJo ha sempre giocato tantissimo anche con la musica e anche stavolta la serie animata non ci ha deluso da questo punto di vista, regalandoci delle chicche davvero straordinarie. Se, tutto sommato, la parte orchestrata in sottofondo agli episodi non è granché incisiva e spesso riprende (decontestualizzandoli e spogliandoli di tutto il loro fascino) brani della precedente terza serie, sono le sigle a darci le maggiori soddisfazioni. Nonostante il ridotto numero di puntate, Diamond is unbreakable ha ben tre sigle d’apertura, una più bella dell’altra.
La prima, “Crazy Noisy Bizarre Town”, dei The DU, si adatta perfettamente all’atmosfera più “easygoing” della prima parte della storia e si concede il lusso di un ritmo allegro e di un video dove i personaggi si esibiscono addirittura in coreografie e pose plastiche uscite da La febbre del Sabato sera, tra colori psichedelici, riferimenti velati ad eventi futuri della storia e citazioni a scene iconiche del manga. Il video della sigla cambia più volte, rispecchiando gli eventi degli episodi, ma ad un certo punto cambia persino l’arrangiamento della canzone, sostituita con una sua versione ancor più smaccatamente ballabile.
La seconda sigla, “Chase”, dei Batta, è la più debole delle tre: brevissima anche nella sua versione completa (soltanto poco più di due minuti), non colpisce più di tanto dal lato musicale, ma il suo essere una canzone più rock ed aggressiva ben si confà all’atmosfera della parte di storia che accompagna e al video che la correda, ricchissimo di tocchi di classe e riferimenti all’universo di Diamond is unbreakable ma non solo.
È con la terza, “Great days”, di Karen Aoki e Daisuke Hasegawa, che JoJo esplode in tutta la sua fighissima bizzarria. Una canzone che, a sentirne solo l’incipit, potrebbe benissimo (e non è un caso) essere di un gruppo rock occidentale degli anni novanta, ma poi continua con un testo giapponese e un ritmo totalmente diverso ma non meno coinvolgente. Il video che l’accompagna rappresenta l’essenza più intrinseca e affascinante dell’epopea di JoJo, tra colori acidi, personaggi che ballano e fanno capolino nelle pose più assurde, loghi che svolazzano qua e là e riferimenti a varie parti di questa avventura ormai trentennale che tanto continua a piacerci.
Il modo, totalmente inaspettato ma assolutamente geniale, in cui questa sigla viene ribaltata a sorpresa negli ultimi episodi, è da applausi a scena aperta.Ciliegina su una torta già di per sé gustosissima è la sigla di chiusura, che, come da graditissima tradizione della saga, è ancora una volta una canzone occidentale. Stavolta tocca a “I want you”, brano del 1996 degli australiani Savage Garden. Il legame con la trama della storia stavolta è piuttosto labile (non è la genialata di “Walk like an Egyptian” della terza serie) ma decisamente funzionale, perché a livello di ritmo riesce perfettamente a riportarci con la mente a quella fine degli anni ’90 in cui questo tipo di band e di canzoni la facevano da padrone e in cui, sia pure anche solo in maniera futuristica, l’avventura di Josuke e compagni è ambientata.
Avere “Bohemian Rhapsody” come sigla finale sarebbe stato davvero troppo, per quanto ce lo aspettavamo tutti, da una serie che nei nomi dei suoi personaggi e dei loro poteri continua imperterrita a giocare con artisti, gruppi, canzoni, album (Queen, ma anche David Bowie, Pink Floyd, Enigma, Pearl Jam, U2, Earth Wind and Fire, Red Hot Chili Peppers, fra gli altri). Le nostre previsioni non si sono avverate, ma del risultato siamo più che soddisfatti lo stesso, e lo sono anche i Giapponesi, che, come per il Pat Metheny Group dello scorso anno, si sono potuti beccare con la scusa diverse ridistribuzioni a tema JoJo degli album dei Savage Garden.
Diamond is unbreakable si distacca un po’ dalle serie precedenti, presentando una storia più lenta e meno epica e dei personaggi meno eroici, ma ci si mette decisamente poco a cadere ancora una volta nel folle e appassionante gioco orchestrato dal geniale Hirohiko Araki, che appassiona sino alla fine portandoci in un trip acido, coloratissimo, ansiogeno e intrigante. Al momento non si hanno ancora notizie dell’adattamento della quinta serie, ma ormai noi a JoJo siamo assuefatti e continuiamo intensamente a sperarci, perché la nostra sete di psichedelia, combattimenti sul filo del rasoio, personaggi che si vestono al buio e canzoni da (ri)scoprire non si è ancora spenta e ben sappiamo che aldilà della ora tranquilla Morioh c’è il resto di un folle mondo ancora tutto da scoprire.
Pro
- Un'avventura appassionante e ricca di suspense e di atmosfera
- Combattimenti sempre molto coinvolgenti
- Il sempre apprezzatissimo modo con cui JoJo gioca con grafica e musiche
Contro
- Personaggi non proprio simpaticissimi
- Atmosfera un po' diversa dall'epicità delle serie precedenti
- La narrazione è spesso lenta e dispersiva, ricca di divagazioni non sempre interessanti
Ho trovato l'anime molto coinvolgente e ben realizzato. Purtroppo va detto che mantiene gli stessi difetti dell'opera originale, quali i troppi personaggi e combattimenti di secondo piano, e un finale quasi anti climax, dato il modo in cui si chiude la battaglia finale.
Anche per me però è da 8 pieno, e aspetto con ansia l'annuncio dell'inizio della quinta serie, con il Jojo, anzi il GioGio italiano.
Che?
Concordo, in confronto a quelli delle terza questi sono molto meglio
Non concordo assolutamente sui personaggi non proprio simpaticissimi, escludendo forse un po' Okuyasu gli altri li ho adorati oltre ogni mia più rosea aspettativa, soprattutto Rohan e Koichi.
Che poi Josuke e Okuyasu sono tutto fuorchè i classici bulletti che descrivi tu, anzi credo proprio che Josuke, dato anche il suo potere, sia proprio il contrario di "finto amico sfruttatore", anzi tra i protagonisti è colui che tiene di più agli amici. Non sono affatto d'accordo, quindi, sulle critiche ai personaggi di questa serie, nonostante io preferisca nettamente Kakyoin e Polnareff della terza serie.
This
I combattimenti autoconclusivi sembrano un po' filler visto che non avanzano la trama e sono la causa principale della lentezza, anche se per me sono sempre godibilissimi, ma mi rendo conto di essere fin troppo di parte quando si tratta di Jojo.
Poi sarà che ormai sono abituata a serie da 12 episodi, ma a me è sembrata lunghissima - non c'è stata nemmeno la pausa a metà come invece era successo per Stardust Crusaders - per questo quando è finita ci sono rimasta ancora più male, ormai mi ero abituata alla mia puntata settimanale.
Per i personaggi antipatici non saprei, a me sono piaciuti molto, a tratti anche più di quelli della serie precedente. Jotaro è un gran figo, ma a volte era fin troppo indecifrabile, ho preferito la natura scherzosa e un po' immatura di Josuke. Poi che lui non sia un esempio di correttezza assoluta non mi dispiace, per me Koichi era uno dei personaggi più noiosi, ma forse mi è stato antipatico per via di tutti i complimenti che riceveva sempre. Okuyasu avrà una parte un po' infelice, ma penso avesse del potenziale che non è stato usato appieno - e non parlo solo dello Stand figo.
Rohan è il tipo di personaggio che è divertentissimo da vedere ma sarebbe insopportabile nella vita reale.
Trovo affascinante come Araki riesca a presentare personaggi nuovi nel modo peggiore possibile - alla faccia della prima impressione! - per poi renderli parte dello gruppo principale.
Ma sicuramente il maggior punto di forza sta in uno dei villain migliori di sempre - non solo per quanto riguarda Jojo o i manga, ma in generale - Kira da solo vale la serie.
ATTENZIONE POSSIBILI SPOILER PER LA 6 PARTE
In generale Jojo mi ha viziato per quanto riguarda i cattivi, giusto quello della quinta parte non è il massimo. Poi uno dei miei preferiti è Pucci, adoro i cattivi che sono convinti di essere nel giusto. Dio Brando ormai è iconico, non c'è niente da dire XD.
Sui personaggi concordo in parte con Kotaro, non ho particolarmente apprezzato Josuke né la spalla Okuyasu, al contrario mi è piaciuto moltissimo Koichi e inaspettatamente Rohan, di carattere me lo immaginavo del tutto diverso.
Il villain è perfetto, l'ho odiato da morire quindi vuol dire che andava benissimo! XD
Insomma, è stata una serie piacevolissima da seguire, distante dalle atmosfere delle precedenti e più fresca ma a modo suo interessante proprio per questo.
Con il senno di poi ci si rende anche conto di quanto Persona 4 sia debitrice di questa serie, nel mood e nelle intenzioni.
Loro sono, anzi erano, normali studenti di una tranquilla cittadina. Certo, poi si ritrovano invischiati con serial killer e poteri sovrannaturali, ma è una cosa più grande di loro. Ci sta che Josuke e Okuyasu, che hanno 16 o 17 anni, si comportino da scemi, che abbiano problemi riguardanti la loro età. Per me sono più credibili loro dei classici protagonisti di shonen che a 14 anni hanno l'età mentale di un 40enne, e che pensano di dover salvare il mondo.
La battaglia di Josuke e compagni è più piccola, loro combattono per rendere la loro amata città di nuovo un posto sicuro e tranquillo e far sì che un pericoloso assassino venga consegnato alla giustizia. Per me questo è uno degli aspetti più riusciti di JoJo DIU.
Finalmente qualcuno che l'ha scritto.
Infatti Jotaro in Stardust Crusader sembra che ha 50 anni invece di 17 anni.
Jotaro addirittura aveva quella mentalità già da piccolo.
@Kary89:
@GianniGreed:
@Vincent Vega:
@T - Poison:
Idem con patate
È stata una di quelle poche volte che, appena uscito l'ultimo episodio, già avevo voglia di fare un rewatch di tutto. Mi mancano. Josuke è stato il mio Jojo preferito, anche più di Joseph che arriva subito secondo. E Kira è il mio cattivo preferito dopo Dio.
E dire che ho cominciato l'anime seguendo passo passo la programmazione giapponese, quasi annoiandomi con la prima stagione e ora... non vedo l'ora di vedere cosa combinerà Araki più avanti! Esito a recuperare il manga perché voglio godermi appieno il meraviglioso lavoro che stanno facendo con l'anime - ma rimedierò al più presto sulle parti già viste!
La serie ha alcuni momenti in cui si "divaga" un pò troppo con situazioni non proprio interessanti, ma nel complesso è molto godibile sopratutto nel finale e quando il villain farà la sua comparsa. I poteri sono sempre interessanti, sopratutto quello di Rohan Kishibe che mi era piaciuto molto, ma anche quelli del villain ed il modo in cui sono usati mi aveva molto soddisfatto.
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