Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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La miriade di frammenti distintivi che compongono questa lunghissima serie TV hanno ognuno il sapore dei dolcetti rustici preparati dalle zie che divoravi da bambino, uno tira l'altro. E fanno subentrare una forte malinconia per quegli anni beati, segnati da quei brevi ma appassionanti proverbi dalla poetica folk non sempre accompagnati da un lieto fine (come vuole la fattuale, contorta mentalità buonista disneyana e statunitense in generale). Senza indorare la pillola insomma, come sarà per le successive - meno lugubri - antologie made in Japan (dove le sceneggiature verranno alleggerite e dotate, ove possibile, del rassicurante "...e vissero felici e contenti").
Lanciata sulla scia dell'inatteso successo di "Furusato Saisei: Nippon no Mukashi Banashi" dalla Dax-International, una piccola compagnia che si era da poco affacciata sul mondo dell'intrattenimento televisivo, vanta una vasta ed eterogenea rassegna di corti firmati da rinomati registi, tra i quali il celeberrimo Rintaro, Masami Hata, Yoshiaki Kawajiri e Masaki Mori. I più ferrati nel campo vintage avranno già capito che dietro le quinte delle annate '76 e '77 si celava lo staff della multiforme Madhouse: sotto vari pseudonimi vi prende parte anche Osamu Dezaki (e solo per la sua visione gotica de "La bella e la bestia" l'intera opera si meriterebbe un voto ben più alto). Quale occasione migliore per assicurarsi un posto di rilievo nell'affollata selva di produzioni seriali come un carosello di tutte (o quasi) le fiabe più popolari del mondo? Troviamo fin da subito l'elemento chiave meisaku, che farà la fortuna di notorie società concorrenti. Alcuni di questi soggetti verranno (o erano già stati) ripresi e approfonditi all'interno del ciclo denominato World Masterpiece Theater. Non si può certo affermare, invece, che nei miseri dieci minuti si potesse articolare la trama più di tanto. In un paio di occasioni non si dovrebbe nemmeno parlare di animazione, dal momento che sullo schermo scorrono solo immagini statiche descritte da una voce fuori campo, questo è il caso de "Il cane delle fiandre" (disegnato interamente da Akio Sugino) o della versione ultra-condensata de "Il principe felice" di Hideo Takayashiki (da non confondere con il raffinato cortometraggio educativo di Yoshiyuki Tomino). Ma la durata ridotta e lo scarno impatto visivo non li rendono meno commoventi agli occhi di grandi e piccini. Talvolta apparendo pure inquietanti come la tragica epopea de "Il Cavaliere della Fiamma" o ancora il macabro "Le scarpette rosse", entrambi di Dezaki. Favole e novelle provenienti dai quattro angoli del globo, alcune a noi del tutto sconosciute, per le quali i Giapponesi si prodigavano a dissotterrarne sempre di nuove da chissà quali polverosi volumi, preservando e diffondendo un vasto patrimonio di tradizioni popolari che con le nuove generazioni rischiano di scomparire. Passaggi forti, come pugni nello stomaco, preziose dottrine con morale annessa e connessa senza mai scadere però nell'eccesso di banale retorica, che torneranno utili nella vita reale. Taluni grotteschi come il segmento intitolato "L'uomo che imbrogliò la morte", altri drammatici e strappalacrime, mi riferisco in modo particolare a "L'usignolo e la rosa rossa", straziante adattamento di un breve racconto di Oscar Wilde a cura di Yoshio Takeuchi. Certuni avvincenti, cert'altri un po' meno. Qualcuno apparentemente insignificante, ma comunque con un importante messaggio subliminale da estrapolare. Si narrano anche le gesta di importanti navigatori e di esimi scrittori. Di classici della letteratura (perlopiù rimaneggiati o appena appena modificati), di scoperte scientifiche e di nobili e valorosi eroi appartenenti al regno animale. Va detto che i diversi gruppi etnici, come neri africani, indiani d'America o mediorientali dell'Asia centrale, vengono rappresentati in un quadro ormai superato, che non ha correlazione con il mondo di oggi.
Si sperimentarono inoltre diversi tipi di tecniche pittoriche, eccetto la computer graphic naturalmente, a quei tempi c'erano a malapena i prototipi dei primi word processor! Pastelli a cera, carboncino, colori a d'olio, tempere, acquerelli vengono abilmente fusi e sapientemente utilizzati con pennelli e aerografo da Shichiro Kobayashi, per ricreare le ambientazioni di alpi svizzere, fiordi norvegesi, capitali europee o di reami incantati e città immaginarie medievaleggianti. Purtroppo, sotto la giurisdizione di Hideo Nishimaki, la seconda parte assorbe la grafica tipica degli anime canonici, perdendo così l'ecletticità dei singoli e la vena artistica che la contraddistingueva delle altre, di conseguenza cominciano a serpeggiare scalmane di nostalgia per i pomposi fondali naïf di Kazusuke Yoshihara e per i personaggi dai lineamenti strampalati presenti agli esordi (per certi versi vagamente simili a quelli di "Festival of Family Classics", co-produzione USA realizzata in casa Mushi, dove aveva militato gran parte del personale della Madhouse).
Nella versione italiana si alternano diverse voci narranti maschili e femminili dal timbro molto pacato e carismatico, che rendono molto bene i sentimenti dei protagonisti. La scaletta degli episodi non segue lo schema originale e risulta essere giunta in Italia completa ma distribuita, doppiata e trasmessa alla rinfusa in tre periodi differenti. Un consiglio, premunitevi di una bella scorta di biscottini fatti in casa, perché si oltrepassa il fatidico traguardo delle cento puntate (che raddoppiano, visto che ogni episodio ne contiene due diversi). Altrimenti potete sempre optare per una maratona di remake e reboot in CGI ordinando una cena a base di cucina molecolare. A ognuno i suoi gusti...
Lanciata sulla scia dell'inatteso successo di "Furusato Saisei: Nippon no Mukashi Banashi" dalla Dax-International, una piccola compagnia che si era da poco affacciata sul mondo dell'intrattenimento televisivo, vanta una vasta ed eterogenea rassegna di corti firmati da rinomati registi, tra i quali il celeberrimo Rintaro, Masami Hata, Yoshiaki Kawajiri e Masaki Mori. I più ferrati nel campo vintage avranno già capito che dietro le quinte delle annate '76 e '77 si celava lo staff della multiforme Madhouse: sotto vari pseudonimi vi prende parte anche Osamu Dezaki (e solo per la sua visione gotica de "La bella e la bestia" l'intera opera si meriterebbe un voto ben più alto). Quale occasione migliore per assicurarsi un posto di rilievo nell'affollata selva di produzioni seriali come un carosello di tutte (o quasi) le fiabe più popolari del mondo? Troviamo fin da subito l'elemento chiave meisaku, che farà la fortuna di notorie società concorrenti. Alcuni di questi soggetti verranno (o erano già stati) ripresi e approfonditi all'interno del ciclo denominato World Masterpiece Theater. Non si può certo affermare, invece, che nei miseri dieci minuti si potesse articolare la trama più di tanto. In un paio di occasioni non si dovrebbe nemmeno parlare di animazione, dal momento che sullo schermo scorrono solo immagini statiche descritte da una voce fuori campo, questo è il caso de "Il cane delle fiandre" (disegnato interamente da Akio Sugino) o della versione ultra-condensata de "Il principe felice" di Hideo Takayashiki (da non confondere con il raffinato cortometraggio educativo di Yoshiyuki Tomino). Ma la durata ridotta e lo scarno impatto visivo non li rendono meno commoventi agli occhi di grandi e piccini. Talvolta apparendo pure inquietanti come la tragica epopea de "Il Cavaliere della Fiamma" o ancora il macabro "Le scarpette rosse", entrambi di Dezaki. Favole e novelle provenienti dai quattro angoli del globo, alcune a noi del tutto sconosciute, per le quali i Giapponesi si prodigavano a dissotterrarne sempre di nuove da chissà quali polverosi volumi, preservando e diffondendo un vasto patrimonio di tradizioni popolari che con le nuove generazioni rischiano di scomparire. Passaggi forti, come pugni nello stomaco, preziose dottrine con morale annessa e connessa senza mai scadere però nell'eccesso di banale retorica, che torneranno utili nella vita reale. Taluni grotteschi come il segmento intitolato "L'uomo che imbrogliò la morte", altri drammatici e strappalacrime, mi riferisco in modo particolare a "L'usignolo e la rosa rossa", straziante adattamento di un breve racconto di Oscar Wilde a cura di Yoshio Takeuchi. Certuni avvincenti, cert'altri un po' meno. Qualcuno apparentemente insignificante, ma comunque con un importante messaggio subliminale da estrapolare. Si narrano anche le gesta di importanti navigatori e di esimi scrittori. Di classici della letteratura (perlopiù rimaneggiati o appena appena modificati), di scoperte scientifiche e di nobili e valorosi eroi appartenenti al regno animale. Va detto che i diversi gruppi etnici, come neri africani, indiani d'America o mediorientali dell'Asia centrale, vengono rappresentati in un quadro ormai superato, che non ha correlazione con il mondo di oggi.
Si sperimentarono inoltre diversi tipi di tecniche pittoriche, eccetto la computer graphic naturalmente, a quei tempi c'erano a malapena i prototipi dei primi word processor! Pastelli a cera, carboncino, colori a d'olio, tempere, acquerelli vengono abilmente fusi e sapientemente utilizzati con pennelli e aerografo da Shichiro Kobayashi, per ricreare le ambientazioni di alpi svizzere, fiordi norvegesi, capitali europee o di reami incantati e città immaginarie medievaleggianti. Purtroppo, sotto la giurisdizione di Hideo Nishimaki, la seconda parte assorbe la grafica tipica degli anime canonici, perdendo così l'ecletticità dei singoli e la vena artistica che la contraddistingueva delle altre, di conseguenza cominciano a serpeggiare scalmane di nostalgia per i pomposi fondali naïf di Kazusuke Yoshihara e per i personaggi dai lineamenti strampalati presenti agli esordi (per certi versi vagamente simili a quelli di "Festival of Family Classics", co-produzione USA realizzata in casa Mushi, dove aveva militato gran parte del personale della Madhouse).
Nella versione italiana si alternano diverse voci narranti maschili e femminili dal timbro molto pacato e carismatico, che rendono molto bene i sentimenti dei protagonisti. La scaletta degli episodi non segue lo schema originale e risulta essere giunta in Italia completa ma distribuita, doppiata e trasmessa alla rinfusa in tre periodi differenti. Un consiglio, premunitevi di una bella scorta di biscottini fatti in casa, perché si oltrepassa il fatidico traguardo delle cento puntate (che raddoppiano, visto che ogni episodio ne contiene due diversi). Altrimenti potete sempre optare per una maratona di remake e reboot in CGI ordinando una cena a base di cucina molecolare. A ognuno i suoi gusti...
Momotarou no Umiwashi
9.0/10
La Storia la scrivono i vincitori. Se le vicende degli ultimi decenni (o secoli) si fossero svolte in maniera diversa o addirittura opposta, forse la nostra percezione delle cose, i nostri libri di scuola, e perfino la cultura popolare parlerebbero un linguaggio diverso.
Cosa succede allora se si dà un'occhiata alla versione dei vinti? Si riescono a capire le ragioni della sconfitta? O magari si scopre che la semantica, la retorica, i punti di vista sono inquietantemente simili a quelli dei vincitori?
Se si parte da questa premessa, vedere "Momotaro no Umiwashi" diventa qualcosa di più che una semplice operazione cinefila di recupero.
Prodotto nel 1942 e rilasciato il 25 Marzo 1943 (quando la guerra cominciava a prendere una piega sempre meno favorevole per il Giappone), è un lungometraggio di circa trentasette minuti. Un filmato cinematografico di propaganda realizzato in collaborazione con l'allora Ministero della Marina e l'approvazione della Marina Imperiale per la regia di Mitsuyo Seo, uno dei progenitori degli anime, già all'epoca veterano dell'animazione e autore di cortometraggi patriottici e del primo cartone animato giapponese con il sonoro parlato.
Si tratta di un'opera dal valore notevole, sia dal punto di vista storico che tecnico, considerata l'epoca di realizzazione.
La trama riprende il racconto tradizionale giapponese dell'eroe popolare Momotaro, già protagonista di mediometraggi dagli Anni Trenta. Il celebre guerriero assume qui il ruolo di generale in capo in un attacco militare moderno della marina imperiale contro i tradizionali Oni. Al suo fianco le sue celebri spalle: cane, scimmia e fagiano (a loro volta affiancati da plotoni di loro simili e da truppe di conigli), un po' macchiette, un po' eroici scudieri.
L'attacco, portato con "efficienza" e una rapidità da blitzkrieg, è ovviamente un successo su tutta la linea, e i nostri eroi fanno ritorno per godersi gli allori della vittoria.
Evitando giudizi storici e facili categorizzazioni, si superano facilmente tutte le esaltazioni e le allegorie di stampo militarista e imperialista per godere di una traduzione che, pur essendo totalmente parziale, ci consente di aprire una pagina di Storia sulle macchine di propaganda della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso sul loro intervento nel mondo dell'infanzia. Concepito per essere un prodotto per "educare" i bambini sul loro posto nella Storia, il film è un'evidente "versione dei fatti" dell'attacco di Pearl Harbor.
Laddove i Giapponesi sono impersonati dai loro archetipi samurai (presi in prestito dai loro topoi antropologici), gli americani sono trasfigurati negli Oni della tradizione, unendo così l'utile al dilettevole, col risultato di esorcizzare la figura del nemico due volte: secondo la struttura della trama base di Momotaro e, a livello rizomatico, facendo un parallelo con entità soprannaturali che per definizione sono altre, aliene, e quindi "non umane".
Il paragone storico è chiaro e non fraintendibile. Così come già sperimentato in altri cortometraggi di propaganda, come "Omocha-Bako", troppi sono i riferimenti volti a identificare il nemico a stelle e strisce. Se a suo tempo fu niente meno che Mickey Mouse a divenire l'emblema del Male, del "cattivo" spregevole e crudele, qui è facile identificare uno dei marinai nemici con le sembianze di Bluto, la nemesi di Braccio di Ferro (Popeye), volgare e laido esattamente come il suo modello originale.
Tutto ricalca quindi un modello già sperimentato e che non era certo ignoto alla propaganda d'oltreoceano, anch'essa poco lusinghiera nei confronti delle forze dell'Asse e dei Giapponesi in special modo.
La semplificazione tematica e narrativa è compensata da una cura particolare dei dettagli. Tutto è volto alla ricostruzione, per quanto edulcorata, di un vero scenario bellico di quel tempo. Le tattiche, le armi, i veicoli, gli interni, i riti gerarchici, le strutture, le procedure, tutto è realizzato con l'intento di fornire un quadro generale che, seppur semplificato dal medium animato, punta a un realismo nella resa che gioca un ruolo fondamentale nell'economia dell'opera, divenendone il punto cardine su cui si reggono tutte le soluzioni narrative e l'effetto scenico.
Se si va oltre l'iperbole superomistica, la retorica megalomane, il contrasto fra il candore e la semplicità con le risolute istanze belliche, le demonizzazioni e le autoesaltazioni, quello che resta è un prodotto dalle notevoli qualità tecniche per l'epoca. Le soluzioni prospettiche, i primi piani, i campi lunghi, le inquadrature sono a dir poco pionieristici nella resa, assumendo a pieno titolo uno status cinematografico ed entrando di diritto nella storia dell'animazione.
L'intento sembra quello di riprodurre le immagini e le sequenze dei filmati bellici che proprio in quegli anni venivano realizzati direttamente sui campi di battaglia e proiettati nei cinegiornali e nei filmati commissionati dai governi di ambo gli schieramenti. E l'obiettivo è centrato in pieno.
Anzi, forse il risultato, grazie alle possibilità dell'animazione, si avvicina a livello tecnico (con i dovuti distinguo) a quelle sperimentazioni e ai virtuosismi introdotti proprio all'epoca da maestri come Capra o la Riefenstahl, e pertanto può considerarsi un preludio dei kolossal hollywoodiani del Secondo Dopoguerra. La cosa non deve sorprendere, visto che, tra i vari accorgimenti, il regista adotta quello di modellare scene tratte da riprese e inquadrature reali sul modello del rotoscopio, per aumentare il realismo dell'effetto scenico.
Dato il tema trattato e le perizie usate, sembra quindi di trovarsi quasi di fronte a pellicole come "Il giorno più lungo" o "Tora! Tora! Tora!".
La visione semplicistica e volutamente indottrinante proposta dalle immagini e dal tema di base non rovina il gusto della visione. Il carattere infantile e il formato animato rendono meno "incisive" quelle esagerazioni preordinate dalle esigenze mediatiche.
Non sfugge certo che la scelta di riproporre un momento del conflitto in cui il Giappone risultava vittorioso sul campo è viziata dalle mutate condizioni belliche durante le quali il film fu proiettato.
Riproporre Pearl Harbor era un ovvio tentativo di censurare le sempre meno favorevoli condizioni del Paese e la precisa volontà di tenerne all'oscuro l'opinione pubblica, partendo proprio dai bambini, e rassicurare così la popolazione, cullandola in una menzogna che avrebbe presto rivelato le sue crepe e le sue nefaste conseguenze.
La stessa esigenza spingerà due anni dopo la Marina e il regista a produrre un sequel più lungo e se possibile ancor più caricato di istanze nazionaliste e vuote pretese imperialiste, sintomo di un militarismo al collasso e di un mondo intero che si ostina a tenere in piedi un mito di sé stesso quando è ormai al capolinea.
Se si contestualizzano le due opere e le si prende come una preziosa testimonianza delle capacità tecniche dell'animazione così come dei pericoli insiti nelle ideologie e nella volontà di controllo mediatico, il loro valore non è affatto "datato".
Esse assumono anzi un peso iconico insuperabile, essendo allo stesso tempo degli exempla del meglio e del peggio che le potenzialità umane possono raggiungere.
Cosa succede allora se si dà un'occhiata alla versione dei vinti? Si riescono a capire le ragioni della sconfitta? O magari si scopre che la semantica, la retorica, i punti di vista sono inquietantemente simili a quelli dei vincitori?
Se si parte da questa premessa, vedere "Momotaro no Umiwashi" diventa qualcosa di più che una semplice operazione cinefila di recupero.
Prodotto nel 1942 e rilasciato il 25 Marzo 1943 (quando la guerra cominciava a prendere una piega sempre meno favorevole per il Giappone), è un lungometraggio di circa trentasette minuti. Un filmato cinematografico di propaganda realizzato in collaborazione con l'allora Ministero della Marina e l'approvazione della Marina Imperiale per la regia di Mitsuyo Seo, uno dei progenitori degli anime, già all'epoca veterano dell'animazione e autore di cortometraggi patriottici e del primo cartone animato giapponese con il sonoro parlato.
Si tratta di un'opera dal valore notevole, sia dal punto di vista storico che tecnico, considerata l'epoca di realizzazione.
La trama riprende il racconto tradizionale giapponese dell'eroe popolare Momotaro, già protagonista di mediometraggi dagli Anni Trenta. Il celebre guerriero assume qui il ruolo di generale in capo in un attacco militare moderno della marina imperiale contro i tradizionali Oni. Al suo fianco le sue celebri spalle: cane, scimmia e fagiano (a loro volta affiancati da plotoni di loro simili e da truppe di conigli), un po' macchiette, un po' eroici scudieri.
L'attacco, portato con "efficienza" e una rapidità da blitzkrieg, è ovviamente un successo su tutta la linea, e i nostri eroi fanno ritorno per godersi gli allori della vittoria.
Evitando giudizi storici e facili categorizzazioni, si superano facilmente tutte le esaltazioni e le allegorie di stampo militarista e imperialista per godere di una traduzione che, pur essendo totalmente parziale, ci consente di aprire una pagina di Storia sulle macchine di propaganda della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso sul loro intervento nel mondo dell'infanzia. Concepito per essere un prodotto per "educare" i bambini sul loro posto nella Storia, il film è un'evidente "versione dei fatti" dell'attacco di Pearl Harbor.
Laddove i Giapponesi sono impersonati dai loro archetipi samurai (presi in prestito dai loro topoi antropologici), gli americani sono trasfigurati negli Oni della tradizione, unendo così l'utile al dilettevole, col risultato di esorcizzare la figura del nemico due volte: secondo la struttura della trama base di Momotaro e, a livello rizomatico, facendo un parallelo con entità soprannaturali che per definizione sono altre, aliene, e quindi "non umane".
Il paragone storico è chiaro e non fraintendibile. Così come già sperimentato in altri cortometraggi di propaganda, come "Omocha-Bako", troppi sono i riferimenti volti a identificare il nemico a stelle e strisce. Se a suo tempo fu niente meno che Mickey Mouse a divenire l'emblema del Male, del "cattivo" spregevole e crudele, qui è facile identificare uno dei marinai nemici con le sembianze di Bluto, la nemesi di Braccio di Ferro (Popeye), volgare e laido esattamente come il suo modello originale.
Tutto ricalca quindi un modello già sperimentato e che non era certo ignoto alla propaganda d'oltreoceano, anch'essa poco lusinghiera nei confronti delle forze dell'Asse e dei Giapponesi in special modo.
La semplificazione tematica e narrativa è compensata da una cura particolare dei dettagli. Tutto è volto alla ricostruzione, per quanto edulcorata, di un vero scenario bellico di quel tempo. Le tattiche, le armi, i veicoli, gli interni, i riti gerarchici, le strutture, le procedure, tutto è realizzato con l'intento di fornire un quadro generale che, seppur semplificato dal medium animato, punta a un realismo nella resa che gioca un ruolo fondamentale nell'economia dell'opera, divenendone il punto cardine su cui si reggono tutte le soluzioni narrative e l'effetto scenico.
Se si va oltre l'iperbole superomistica, la retorica megalomane, il contrasto fra il candore e la semplicità con le risolute istanze belliche, le demonizzazioni e le autoesaltazioni, quello che resta è un prodotto dalle notevoli qualità tecniche per l'epoca. Le soluzioni prospettiche, i primi piani, i campi lunghi, le inquadrature sono a dir poco pionieristici nella resa, assumendo a pieno titolo uno status cinematografico ed entrando di diritto nella storia dell'animazione.
L'intento sembra quello di riprodurre le immagini e le sequenze dei filmati bellici che proprio in quegli anni venivano realizzati direttamente sui campi di battaglia e proiettati nei cinegiornali e nei filmati commissionati dai governi di ambo gli schieramenti. E l'obiettivo è centrato in pieno.
Anzi, forse il risultato, grazie alle possibilità dell'animazione, si avvicina a livello tecnico (con i dovuti distinguo) a quelle sperimentazioni e ai virtuosismi introdotti proprio all'epoca da maestri come Capra o la Riefenstahl, e pertanto può considerarsi un preludio dei kolossal hollywoodiani del Secondo Dopoguerra. La cosa non deve sorprendere, visto che, tra i vari accorgimenti, il regista adotta quello di modellare scene tratte da riprese e inquadrature reali sul modello del rotoscopio, per aumentare il realismo dell'effetto scenico.
Dato il tema trattato e le perizie usate, sembra quindi di trovarsi quasi di fronte a pellicole come "Il giorno più lungo" o "Tora! Tora! Tora!".
La visione semplicistica e volutamente indottrinante proposta dalle immagini e dal tema di base non rovina il gusto della visione. Il carattere infantile e il formato animato rendono meno "incisive" quelle esagerazioni preordinate dalle esigenze mediatiche.
Non sfugge certo che la scelta di riproporre un momento del conflitto in cui il Giappone risultava vittorioso sul campo è viziata dalle mutate condizioni belliche durante le quali il film fu proiettato.
Riproporre Pearl Harbor era un ovvio tentativo di censurare le sempre meno favorevoli condizioni del Paese e la precisa volontà di tenerne all'oscuro l'opinione pubblica, partendo proprio dai bambini, e rassicurare così la popolazione, cullandola in una menzogna che avrebbe presto rivelato le sue crepe e le sue nefaste conseguenze.
La stessa esigenza spingerà due anni dopo la Marina e il regista a produrre un sequel più lungo e se possibile ancor più caricato di istanze nazionaliste e vuote pretese imperialiste, sintomo di un militarismo al collasso e di un mondo intero che si ostina a tenere in piedi un mito di sé stesso quando è ormai al capolinea.
Se si contestualizzano le due opere e le si prende come una preziosa testimonianza delle capacità tecniche dell'animazione così come dei pericoli insiti nelle ideologie e nella volontà di controllo mediatico, il loro valore non è affatto "datato".
Esse assumono anzi un peso iconico insuperabile, essendo allo stesso tempo degli exempla del meglio e del peggio che le potenzialità umane possono raggiungere.
Recensione di GianniGreed
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“Batmanga” o “Batman Manga” è un manga di Jiro Kuwata, che ha per protagonista il supereroe mascherato dei comics made in U.S.A., in un’inedita versione originale creata apposta per il mercato giapponese.
Il fumetto, lungo cinquantatré capitoli, è stato pubblicato su rivista negli anni 1966 e 1967, ma solo molti anni dopo, è stato raccolto in tre maxi volumi. Il manga è stato pubblicato anche in inglese, prima in un enorme volume da collezione, ma incompleto, e successivamente nella sua interezza in formato digitale e in tre volumi identici a quelli giapponesi, dalla DC Comics, la stessa casa editrice che detiene i diritti del personaggio e che ancora oggi pubblica le sue avventure. Il titolo originale giapponese è solo “Batman”, ma nella versione inglese è stata aggiunta la parola “manga” per dare enfasi alla sua origine e per non fare confusione con la versione americana dal medesimo nome.
La genesi dell’opera, è abbastanza classica. In Giappone era scoppiata la Batmania a causa della trasmissione in tv dello storico telefilm che vedeva protagonista Adam West nei panni dell’eroe. Per questo la Shonen Gahosha, una casa editrice giapponese, voleva pubblicare i fumetti di Batman anche in Giappone. I capoccia riuscirono a comprare i diritti di sfruttamento del personaggio e fu deciso di realizzare un nuovo fumetto da zero. Il compito venne affidato al mangaka Jiro Kuwata, autore noto all’epoca per il fumetto “8 Man”. A Kuwata venne chiesto di realizzare una sorta di remake di alcune storie già pubblicate in America, gli vennero forniti gli albi originali e le traduzioni degli script. Con questo materiale, il disegnatore ha creato la sua versione di Batman, modificando alcune parti, ampliando o eliminandone altre, ma soprattutto, ha reso graficamente Batman e Robin più dinamici, grazie ad una costruzione delle tavole molto diversa da quella fin troppo statica dei fumetti americani degli anni ’60, pieni di pagine con molti balloon e didascalie che spiegavano passo per passo cosa stava succedendo. Nel manga di Kuwata sono le azioni a parlare, il suo Batman si lancia in attacchi volanti, fa capriole, piroette, e lo stesso fanno Robin e i loro nemici.
Penso sia inutile parlare della trama alla base della storia, che dovrebbe essere nota a tutti. Vale la pena soffermarsi però su alcune cose importanti. La prima è sicuramente il fatto che nel manga di Kuwata non viene mai mostrata l’origine di Batman, con l’assassinio dei genitori di Bruce Wayne. La storia inizia da un punto indefinito, con Batman e Robin che entrano subito in azione. La seconda cosa degna di nota, è che nel manga di Kuwata non è presente nessuno dei nemici storici e importanti di Batman. Non c’è il Joker, non c’è il Pinguino, non c’è l’Enigmista, non c’è Catwoman. Nessuno dei cattivi che la maggior parte della gente associa a Batman. Alcuni probabilmente non esistevano ancora nel 1966, ma di sicuro il Joker era già in giro da parecchio e perciò è davvero strano leggere un fumetto di Batman senza di lui. Tutti si aspettano che prima o poi compaia, e invece non succede. Al contrario, i nemici affrontati da Batman e Robin sono molto più semplici, sia nel design, che nei poteri e nelle motivazioni. Molto spesso sono ladri, galeotti evasi di prigione, scienziati che per un motivo o per un altro si sono votati al male, qualche alieno…
Tutti i nemici però si basano su quelli già visti nei comics americani, così come le storie che li vedono per protagonisti.
Il Batman di questo manga è figlio del suo tempo. Così come nella versione originale americana dell’epoca, anche queste storie sono molto più semplici, sia nelle trame, che nel loro svolgimento. I colpi di scena ad esempio, come la vera identità di un cattivo, sono molto elementari, facilmente intuibili per chiunque abbia letto fumetti da un po’ di tempo a questa parte. Altre volte alcuni nemici sono talmente bizzarri da essere ridicoli, ma anche questo, è dovuto al materiale originale, perché il Batman a fumetti degli anni ’60 sembrava scritto sotto acidi, per non parlare della versione quasi comica del telefilm prodotto in quegli anni. Chiaramente, questo Batman non è quello incattivito degli ultimi tempi, che i fan del Cavaliere Oscuro amano e apprezzano, così come non è tecnologico quanto quello visto nei videogame della serie “Arkham Asylum”. Batman e Robin in questa versione, si limitano a qualche pugno e calcio ben assestato e all’ausilio di pochi ma efficaci gadget, come il sempre utile batarang o bombe soporifere. Non mancano invece la Batmobile, il maggiordomo Alfred e il commissario Gordon, anche se hanno pochissima importanza nella storia.
Lo stile di disegno di Kuwata è molto azzeccato per il tipo di storia raccontato. Come ha rivelato lui stesso nelle interviste pubblicate nei volumi, ci ha messo un po’ per trovare il giusto equilibrio, ma il risultato finale è soddisfacente. Il suo Batman, muscoloso e dinamico, con tante scene d’azione ben coreografate, la costruzione delle tavole, semplice ma pulita e ordinata, non sfigura affatto se paragonato all’originale.
Questa chiaramente è stata la prima incursione di Batman nel mondo dei manga, (ma non l’ultima), e anche se qualcosa al giorno di oggi può sembrare un po’ ingenua, tipo le trame di alcuni capitoli o i poteri di qualche cattivo, è ancora adesso una lettura validissima, appassionante e divertente. Se siete fan del Cavaliere Oscuro è davvero imperdibile, ma è anche un valido manga preso come opera a sé.
Il fumetto, lungo cinquantatré capitoli, è stato pubblicato su rivista negli anni 1966 e 1967, ma solo molti anni dopo, è stato raccolto in tre maxi volumi. Il manga è stato pubblicato anche in inglese, prima in un enorme volume da collezione, ma incompleto, e successivamente nella sua interezza in formato digitale e in tre volumi identici a quelli giapponesi, dalla DC Comics, la stessa casa editrice che detiene i diritti del personaggio e che ancora oggi pubblica le sue avventure. Il titolo originale giapponese è solo “Batman”, ma nella versione inglese è stata aggiunta la parola “manga” per dare enfasi alla sua origine e per non fare confusione con la versione americana dal medesimo nome.
La genesi dell’opera, è abbastanza classica. In Giappone era scoppiata la Batmania a causa della trasmissione in tv dello storico telefilm che vedeva protagonista Adam West nei panni dell’eroe. Per questo la Shonen Gahosha, una casa editrice giapponese, voleva pubblicare i fumetti di Batman anche in Giappone. I capoccia riuscirono a comprare i diritti di sfruttamento del personaggio e fu deciso di realizzare un nuovo fumetto da zero. Il compito venne affidato al mangaka Jiro Kuwata, autore noto all’epoca per il fumetto “8 Man”. A Kuwata venne chiesto di realizzare una sorta di remake di alcune storie già pubblicate in America, gli vennero forniti gli albi originali e le traduzioni degli script. Con questo materiale, il disegnatore ha creato la sua versione di Batman, modificando alcune parti, ampliando o eliminandone altre, ma soprattutto, ha reso graficamente Batman e Robin più dinamici, grazie ad una costruzione delle tavole molto diversa da quella fin troppo statica dei fumetti americani degli anni ’60, pieni di pagine con molti balloon e didascalie che spiegavano passo per passo cosa stava succedendo. Nel manga di Kuwata sono le azioni a parlare, il suo Batman si lancia in attacchi volanti, fa capriole, piroette, e lo stesso fanno Robin e i loro nemici.
Penso sia inutile parlare della trama alla base della storia, che dovrebbe essere nota a tutti. Vale la pena soffermarsi però su alcune cose importanti. La prima è sicuramente il fatto che nel manga di Kuwata non viene mai mostrata l’origine di Batman, con l’assassinio dei genitori di Bruce Wayne. La storia inizia da un punto indefinito, con Batman e Robin che entrano subito in azione. La seconda cosa degna di nota, è che nel manga di Kuwata non è presente nessuno dei nemici storici e importanti di Batman. Non c’è il Joker, non c’è il Pinguino, non c’è l’Enigmista, non c’è Catwoman. Nessuno dei cattivi che la maggior parte della gente associa a Batman. Alcuni probabilmente non esistevano ancora nel 1966, ma di sicuro il Joker era già in giro da parecchio e perciò è davvero strano leggere un fumetto di Batman senza di lui. Tutti si aspettano che prima o poi compaia, e invece non succede. Al contrario, i nemici affrontati da Batman e Robin sono molto più semplici, sia nel design, che nei poteri e nelle motivazioni. Molto spesso sono ladri, galeotti evasi di prigione, scienziati che per un motivo o per un altro si sono votati al male, qualche alieno…
Tutti i nemici però si basano su quelli già visti nei comics americani, così come le storie che li vedono per protagonisti.
Il Batman di questo manga è figlio del suo tempo. Così come nella versione originale americana dell’epoca, anche queste storie sono molto più semplici, sia nelle trame, che nel loro svolgimento. I colpi di scena ad esempio, come la vera identità di un cattivo, sono molto elementari, facilmente intuibili per chiunque abbia letto fumetti da un po’ di tempo a questa parte. Altre volte alcuni nemici sono talmente bizzarri da essere ridicoli, ma anche questo, è dovuto al materiale originale, perché il Batman a fumetti degli anni ’60 sembrava scritto sotto acidi, per non parlare della versione quasi comica del telefilm prodotto in quegli anni. Chiaramente, questo Batman non è quello incattivito degli ultimi tempi, che i fan del Cavaliere Oscuro amano e apprezzano, così come non è tecnologico quanto quello visto nei videogame della serie “Arkham Asylum”. Batman e Robin in questa versione, si limitano a qualche pugno e calcio ben assestato e all’ausilio di pochi ma efficaci gadget, come il sempre utile batarang o bombe soporifere. Non mancano invece la Batmobile, il maggiordomo Alfred e il commissario Gordon, anche se hanno pochissima importanza nella storia.
Lo stile di disegno di Kuwata è molto azzeccato per il tipo di storia raccontato. Come ha rivelato lui stesso nelle interviste pubblicate nei volumi, ci ha messo un po’ per trovare il giusto equilibrio, ma il risultato finale è soddisfacente. Il suo Batman, muscoloso e dinamico, con tante scene d’azione ben coreografate, la costruzione delle tavole, semplice ma pulita e ordinata, non sfigura affatto se paragonato all’originale.
Questa chiaramente è stata la prima incursione di Batman nel mondo dei manga, (ma non l’ultima), e anche se qualcosa al giorno di oggi può sembrare un po’ ingenua, tipo le trame di alcuni capitoli o i poteri di qualche cattivo, è ancora adesso una lettura validissima, appassionante e divertente. Se siete fan del Cavaliere Oscuro è davvero imperdibile, ma è anche un valido manga preso come opera a sé.
Chissà che roba è venuta fuori...
Anche riguardandolo adesso, si può cogliere l'importanza che ebbe al tempo ed è un vero e proprio reperto storico da studiare insieme a tutti gli altri cartoni animati di quel periodo.
Il Batmanga è un cimelio camp come la serie anni '60.
Per i fan del pipistrello è comunque un pezzo di Storia, e si perdonano i deliri tipo il batspray per squali (!)
@daddide Grazie dell'apprezzamento.
Sì, l'altra volta era "Umi no Shinpei". Che memoria!
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