Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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In un mercato dominato da giganti, Studio Colorido non solo non si fa pestare i piedi da nessuno, ma dimostra di aver premuto l'acceleratore fino in fondo per raggiungere, in solo sette anni, i livelli di colossi come Ghibli e Madhouse. Tra un ampio ventaglio di colori saturi, brillanti, vivi, e una tecnica di animazione avanzatissima per uno studio così giovane, "Penguin Highway" è a mio parere un campanello d'allarme di uno studio da tenere d'occhio e che in futuro potrebbe rivelare sorprese. Hiroyasu Ishida dimostra di aver assimilato pienamente la sapienza dei grandi maestri dell'animazione giapponese e di averla fatta sua, confezionando un prodotto fortemente moderno che tuttavia non dimentica la minuziosità di Miyazaki e l'emozione di Shinkai.

"Penguin Highway" è un film avvincente, giovane, un bacio alla razionalità scientifica e un tributo all'amore che non conosce età né appartenenza. È un film che unisce delicatamente l'acutezza e il bisogno di crescere di un bambino quasi adolescente, Aoyama, con la dolcezza e la malinconia di una giovane donna che in qualche modo non trova il suo ruolo nel Mondo, tanto da non avere nemmeno un nome all'interno della storia - la conosciamo unicamente come "sorellona" - e da chiedere ad Aoyama di "risolvere il suo caso" su più livelli di significato. In mezzo a tutto ciò trova uno spazio sublime la componente soprannaturale che tipicamente caratterizza le opere di finzione giapponesi e che potrebbe ricordare a tratti i capolavori di Murakami e Banana Yoshimoto. E in effetti è proprio dall'omonimo romanzo di Tomihiko Morimi che il film è ispirato.
Particolarmente indagati, inoltre, sono i temi della crescita e dell'innamoramento, veicolati attraverso gli sguardi di personaggi con personalità profondamente diverse: quello di Aoyama, bambino sensibilmente maturo e razionale per la sua età che si affaccia per la prima volta all'amore e si interroga sull'effetto che gli fanno un paio di tette - nel senso più ingenuo del termine - e quello di Suzuki e Hamamoto, che per la prima volta sperimentano la gelosia e il senso di colpa.

Tra vicende avventurose, comiche e a tratti dense di suspense, le due ore di film non si sentono nemmeno, lasciando allo spettatore moltissimi spunti su cui riflettere, oltre che un ricordo piacevolmente nostalgico dal gusto tutto giapponese. Tutto ciò crea un contrasto apprezzabile con la moodboard visiva del film, fatta di atmosfere vivaci e sempre allegre, di cieli blu e bizzarre creature, di appunti ordinati e, soprattutto, di genuina dolcezza. Insomma, si tratta di un'opera che trasporta con sé una brezza nuova e fresca nel mondo dell'animazione del Sol Levante, pur tuttavia adattando con metodo il passato alla modernità piuttosto che stravolgere tutto. Una scelta che personalmente condivido appieno e, se questo è solo l'inizio, l'eccellenza per Ishida e per Studio Colorido non tarderà ad arrivare.

9.0/10
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Makoto: "Dove stai andando, Yuki?"
Yuki: "Vorrei saperlo anch'io"


Ci sono bambini che vengono considerati fuori dall'ordinario, che per un motivo o per un altro sono ritenuti "speciali"; Yuki Tachibana a causa della sua fervida immaginazione viene riconosciuto come tale. A riprova di ciò gli altri coetanei lo scherniscono e lo isolano, Yuki dal canto suo inizia a rifugiarsi ulteriormente nel proprio mondo fantastico, popolato da amici immaginari, ovvero la proiezione del desiderio di creare legami interpersonali, e da mostri meno amichevoli che paiono rappresentare tutti i suoi sentimenti più negativi, venendo spesso usati come capro espiatorio a cui imputare le problematiche che sorgono attorno a lui.

Attraverso la quotidianità della vita scolastica, ci ritroviamo paradossalmente in bilico tra realtà e fantasia, arrivando a chiederci dove inizi una e finisca l'altra. Il confine che divide le due estremità si fa di giorno in giorno sempre più sottile, quasi impercettibile a causa del passaggio dalla fanciullezza all'adolescenza. Il fragile equilibrio interiore inizia a vacillare all'arrivo di un nuovo compagno di classe, Makoto, il quale in breve tempo farà scoprire a Yuki il significato del termine "amicizia", parola che il giovane finora aveva associato solo a figure immaginarie che oramai stanno scomparendo a poco a poco dai suoi occhi. Questo comporta l'insorgere di nuove paure, le quali si accumulano alla confusione personale, in un periodo di veloce transizione, dove iniziano ad arrivare le prime responsabilità e si comincia a sviluppare la propria consapevolezza di sé, ponendosi domande che spesso non trovano risposta.
Yuki si rende conto che il tempo per scorgere "l'altra parte" sta per terminare, deve decidere se rimanere perpetuamente schiavo delle sue fantasie e continuare a fuggire da una realtà che lo angoscia o altrimenti affrontare ciò che lo tormenta, accettando l'inevitabile crescita con conseguenti gioie e dolori. L'ignoto tende a incutere timore, ogni scelta implica il rinunciare a qualcosa. Interiorizzare e normalizzare la propria condizione di solitudine crogiolandosi in essa oppure aprirsi, con i relativi rischi, al prossimo? Tutte scelte che il giovane ragazzo si troverà costretto a prendere per via dell'inesorabile scorrere del tempo.
Matsumoto è un maestro nel tratteggiare con delicatezza, quasi in punta di piedi, il magico periodo dell'infanzia: idilliaco per alcuni, opprimente per altri. Con un tratto tendente al realistico ma al contempo semplice, in certi frangenti persino stilizzato, veniamo immersi in un intimo tepore emotivo. Inquadrature grandangolari, intensi primi piani, il netto contrasto tra bianco e nero danno forma a un racconto di formazione infarcito di simbolismi (l'aereo, il girasole, la fisarmonica, il bianconiglio, etc.).

E, alla fine, in un continuo ripetersi di situazioni e schemi, vediamo i piccoli cambiamenti, quelli più significativi, frutto dell'inesorabile intreccio formato dalle nostre decisioni e dalla casualità della vita.
Chapeau a Matsumoto perché anche stavolta riesce a rendere tangibili sentimenti e pensieri attraverso una toccante semplicità, tenendosi alla larga da freddi virtuosismi di ogni genere. Complimenti e grazie a J-POP per aver portato in Italia un volume a dir poco prezioso per qualunque lettore di manga e non.

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Dopo aver riguardato in tempi recenti un paio di puntate iniziali, il mio umore non era certo quello dei tempi migliori. La serie TV all'apparenza sembrava essere davvero destinata a un pubblico composto per la maggiore da piccolissimi telespettatori, così come ricordavo da quella fugace comparsa sulle reti italiane, talmente fugace che l'ha resa ormai quasi svanita dalla memoria collettiva.
Alcuni personaggi apparivano già in partenza abbastanza odiosi (come il saccentello Azteco) e altri decisamente piagnucolosi, con voci stridenti e di età molto bassa (il circense Chu Chu è poco più che un poppante). Ma con il proseguire delle avventure dell'indomito Pepero e dei suoi amici, quando essi si imbattono in remoti santuari eretti tra rupi invalicabili e in leggendarie creature dorate di cui si tramandano le gesta di generazione in generazione, le cose diventano sorprendentemente interessanti. Mentre la compagine s'inerpica - non con pochi sforzi - tra l'imponente Cordigliera delle Ande, percorrendo tortuosi sentieri a strapiombo e lasciandosi alle spalle picchi innevati che emergono dalle nubi, sopraggiungono una successione di arcani e riti millenari legati a popolazioni autoctone, a contorno di situazioni oltremodo drammatiche come slavine, bestie feroci, e venali individui interessati solo ai mirabolanti tesori che, si narra, abbondino nella Città d'oro fondata dagli Inca. Non mancano i riferimenti alle civiltà perdute delle Americhe, grande pallino dei Giapponesi durante gli Anni Settanta (assieme ai misteri ufologici). La trama migliora col passare delle settimane, e le situazioni si fanno così incalzanti tanto da non sembrare nemmeno più la puerile serie per bambini degli esordi. Man mano che la cordata cercherà di raggiungere la meta prefissatasi, i pericoli conosciuti e quelli incogniti aumenteranno.

Parliamoci chiaro e tocchiamo il tasto dolente: l'animazione. Non siamo ai livelli di colossi come Toei o TMS. Wako era considerato uno studio minore con un ristretto numero di dipendenti, ma che era riuscito a reclutare all'ultimo il versatile Toyoo Ashida ai disegni chiave e l'apprezzato direttore artistico Torao Arai (celebre per i suoi splendidi fondali a tempera), i quali, nonostante il misero budget, riescono comunque a mantenere la qualità su livelli accettabili. Non mancano tuttavia grossolane imperfezioni a opera degli intercalatori e dei rifinitori (novellini, per la stragrande maggioranza), ma all'epoca non si badava molto a smussare le pecche o a evitare di riciclare gli sfondi. L'importante era far breccia nell'immaginario dei piccoli nipponici con sceneggiature appassionanti portate all'esplorazione, buoni sentimenti, spirito d'iniziativa, nonché tramite l'inserimento di comprimari e avversari ben caratterizzati che terranno banco e ostacoleranno la spedizione alla scoperta della mitica e misteriosa città aurifera di El Dorado (realtà o fantasticheria?).
La cosa più sorprendente è senz'ombra di dubbio che è stata un'idea originale scaturita da un'illuminazione di Sumio Takahashi, fondatore della (talvolta ingiustamente) bistrattata casa di produzione, che si era fatto le ossa nel settore degli spot pubblicitari (o CM, come vengono chiamati in gergo tra gli addetti ai lavori). Tra gli ultimi vibranti episodi, tre vengono affidati a un ex-regista (girovago) della collassata Mushi-pro. che si firmava Yoshiyuki Tomino...