Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
Con la sceneggiatura di Mari Okada, e la regia di Tatsuyuki Nagai, “A te che conosci l’azzurro del cielo” è un film che, in qualche modo, costituisce l’epilogo di una trilogia. Per quanto, infatti, la pellicola possa essere vista a sé stante, risulta molto più piacevole vederla dopo “Ano Hana” e “Kokoro ga Sakebitagatterun da”, a cui la Okada e Nagai han lavorato insieme, e che possono costituire delle opere semi-autobiografiche dell’autrice.
La Okada infatti, per chi non lo sapesse, non ha avuto vita facile. Da giovane, crebbe a Chichibu, città in cui sono ambientati i suddetti tre titoli, e subì bullismo dai compagni di classe, tanto da trasformarsi in hikikomori ed evitare la scuola, fino al momento in cui riuscì ugualmente a diplomarsi, grazie alle sue capacità, e a trasferirsi a Tokyo. In qualche modo, i tre titoli citati costituiscono un po’ la sua storia, il mostrare Chichibu come la città che l’ha “oppressa”, ma in cui sarebbe stata curiosa di vedere come la sua vita sarebbe potuta essere, se fosse riuscita ad integrarsi.
“A te che conosci l’azzurro del cielo” ha per protagonista Aoi, dapprima una bambina, e poi liceale, che vive con la sorella Akane, che si occupa di lei, poiché entrambe sono rimaste orfane. Aoi vorrebbe trasferirsi a Tokyo per diventare musicista, e vive insoddisfatta con la sorella, che lei vede come una donna che ha rinunciato a sogni, obiettivi e felicità per restare a Chichibu con lei. Le cose cambiano quando l’ex grande amore di Akane, Shinnosuke Konomura, chitarrista della band locale, torna nella cittadina, dopo tredici anni dal suo trasferimento...
“Her Blue Sky” si basa interamente sulle tematiche di rimpianto, nostalgia e insofferenza per il presente. Nonostante siano tematiche super-abusate dall’animazione nipponica, e soprattutto dalla Okada, il film non risulta particolarmente tragico o forzato, ma affronta i temi in maniera dolce. Anche l’elemento fantastico è un veicolo per esprimere i sentimenti delle due sorelle protagoniste, per svelare i loro rimpianti, per mostrare le loro scelte passate e le conseguenze che queste ultime hanno avuto nel loro presente.
E anzi, come in “Ano Hana”, l’elemento soprannaturale è un veicolo per permettere a tutti i personaggi presentati di confrontarsi e sfogarsi, esternando i loro sentimenti e permettendosi l’un l’altro di affrontare un nuovo percorso di vita.
Sicuramente riuscita, quindi, la messa a nudo delle emozioni generate, così come il film è promosso per le animazioni e per le performance musicali, quasi tutte eseguite dai personaggi stessi.
Indubbiamente, comunque, non ci si deve aspettare un film straordinario, soprattutto per via della banalità di base (che di suo non è un difetto, ovviamente) e per un inizio abbastanza lento.
Tuttavia, mi viene ugualmente da consigliarlo caldamente, e soprattutto dopo aver visto “Ano Hana” e “Kokoro ga Sakebitagatterun da”, per capire meglio il punto di vista della sceneggiatrice.
La Okada infatti, per chi non lo sapesse, non ha avuto vita facile. Da giovane, crebbe a Chichibu, città in cui sono ambientati i suddetti tre titoli, e subì bullismo dai compagni di classe, tanto da trasformarsi in hikikomori ed evitare la scuola, fino al momento in cui riuscì ugualmente a diplomarsi, grazie alle sue capacità, e a trasferirsi a Tokyo. In qualche modo, i tre titoli citati costituiscono un po’ la sua storia, il mostrare Chichibu come la città che l’ha “oppressa”, ma in cui sarebbe stata curiosa di vedere come la sua vita sarebbe potuta essere, se fosse riuscita ad integrarsi.
“A te che conosci l’azzurro del cielo” ha per protagonista Aoi, dapprima una bambina, e poi liceale, che vive con la sorella Akane, che si occupa di lei, poiché entrambe sono rimaste orfane. Aoi vorrebbe trasferirsi a Tokyo per diventare musicista, e vive insoddisfatta con la sorella, che lei vede come una donna che ha rinunciato a sogni, obiettivi e felicità per restare a Chichibu con lei. Le cose cambiano quando l’ex grande amore di Akane, Shinnosuke Konomura, chitarrista della band locale, torna nella cittadina, dopo tredici anni dal suo trasferimento...
“Her Blue Sky” si basa interamente sulle tematiche di rimpianto, nostalgia e insofferenza per il presente. Nonostante siano tematiche super-abusate dall’animazione nipponica, e soprattutto dalla Okada, il film non risulta particolarmente tragico o forzato, ma affronta i temi in maniera dolce. Anche l’elemento fantastico è un veicolo per esprimere i sentimenti delle due sorelle protagoniste, per svelare i loro rimpianti, per mostrare le loro scelte passate e le conseguenze che queste ultime hanno avuto nel loro presente.
E anzi, come in “Ano Hana”, l’elemento soprannaturale è un veicolo per permettere a tutti i personaggi presentati di confrontarsi e sfogarsi, esternando i loro sentimenti e permettendosi l’un l’altro di affrontare un nuovo percorso di vita.
Sicuramente riuscita, quindi, la messa a nudo delle emozioni generate, così come il film è promosso per le animazioni e per le performance musicali, quasi tutte eseguite dai personaggi stessi.
Indubbiamente, comunque, non ci si deve aspettare un film straordinario, soprattutto per via della banalità di base (che di suo non è un difetto, ovviamente) e per un inizio abbastanza lento.
Tuttavia, mi viene ugualmente da consigliarlo caldamente, e soprattutto dopo aver visto “Ano Hana” e “Kokoro ga Sakebitagatterun da”, per capire meglio il punto di vista della sceneggiatrice.
Lost Song
8.0/10
Recensione di Mirokusama
-
L’appassionato di animazione giapponese moderno ha i suoi ‘riti’ consolidati al giorno d’oggi, ed è raro che deroghi da questi: ogni stagione controlla le serie in onda, sceglie quelle più vicine ai suoi gusti, qualcuna la prova senza impegno, sperando in una bella sorpresa, e bene o male regola i suoi tempi e i suoi impegni nei tre-quattro mesi successivi nel modo a lui più congeniale per vivere al meglio la sua passione; da un annetto a questa parte però c’è un fattore che rompe questa routine, e corrisponde al nome di Netflix. La piattaforma di distribuzione via streaming di film e serie TV infatti ha l’abitudine di proporre agli utenti suoi abbonati la disponibilità immediata di tutti gli episodi delle serie che produce e/o distribuisce, con effetti benefici che possiamo ben immaginare, ma anche con alcuni aspetti negativi che magari non tutti sono riusciti a inquadrare in un primo momento: non tutte le serie che propone, infatti, ricevono la stessa attenzione e, non avendo queste un periodo di trasmissione lungo che possa richiamare un certo pubblico, rischiano di passare quindi in secondo piano, non meritandolo. E, se questo non è il caso di titoli che godono di una nomea e un fandom numeroso come “Devilman Crybaby” o di titoli attesi per la grande pubblicità fatta o per lo studio che ci ha lavorato, tipo “Violet Evergarden”, lo stesso non si può dire per “Lost Song”, anime della stagione primaverile che in Giappone ha avuto una trasmissione ordinaria settimanale sia su Netflix che su altri canali televisivi, ma che nel resto del mondo è stato disponibile solo successivamente, finendo per passare così sottotraccia rispetto alle tante altre serie stagionali, pur tuttavia non meritandolo a parer mio, per i motivi che mi accingo a riportare in questa recensione.
“Lost Song”, come detto, è un progetto anime originale in dodici episodi co-prodotto dagli studi Liden Films e Dwango, e distribuito universalmente da Netflix. Ambientato in un classico universo fantasy/medievale, narra la storia parallela di due ragazze dotate di un dono particolare, il potere delle canzoni, che permette loro di esercitare capacità varie che vanno dalla creazione di elementi naturali alla guarigione dalle ferite, ma anche alla totale distruzione, semplicemente cantando la canzone adatta al caso. Rin, la più giovane delle due, è un’allegra ragazza che vive in un piccolo villaggio di frontiera col nonno, il fratello e la sorella acquisiti, e che adora cantare, tanto da coltivare il sogno di esibirsi un giorno nella capitale, accompagnata dall’Orchestra Reale, mentre Finis, la protagonista adulta della storia, è una donna che vive nella capitale sotto la protezione, ma è più una costrizione in realtà, del Re, dove è costretta a prestare servizio grazie ai suoi poteri, che vengono sfruttati nei modi più disparati, fino anche a trattarla come arma umana dall’esercito. Le due non hanno nulla in comune tranne il potere delle canzoni e vivono ignare dell’esistenza dell’altra, ma una guerra in avvicinamento, unita a una caccia ai possibili portatori del potere delle canzoni operata dall’esercito reale, metterà in moto una serie di eventi che finiranno per far incrociare le strade delle due ragazze e coinvolgeranno tanti altri personaggi in una storia pregna di amicizia, amore e fiducia, ma anche di dolorosi sacrifici e scelte da compiere lungo un percorso più impervio di quanto si sarebbe mai potuto immaginare rispetto all’inizio.
Già, perché uno dei punti forti di “Lost Song”, se non il principale proprio, è presentare una storia che comincia in un modo abbastanza classico, qualcuno direbbe anche banale, considerando personaggi e ambientazione che sanno molto di già visto, salvo poi evolvere e cambiare strada durante il suo svolgimento in modi che appaiono assolutamente inimmaginabili allo spettatore che assiste al primo episodio della serie. Questi espedienti, che non posso rivelare nella loro interezza per ovvi motivi, sono sia l’aspetto che più mi ha affascinato dell’anime sia quello che mi ha suscitato più perplessità, perché da un lato regalano un’originalità alla serie che difficilmente avrebbe avuto, ma dall’altro rischiano di creare una confusione nella gestione dei tempi e dell’andamento della stessa che può disorientare lo spettatore, anche quello più attento. Nel mio giudizio sull’anime ho voluto premiare il coraggio degli sceneggiatori nel provare a creare una variazione sul tema in questa serie, pur avendo ancora oggi dei dubbi su alcune scelte che probabilmente non vedrò mai districati, ma in virtù di questi problemi non posso non giustificare eventuali critiche mosse a questa scelta da parte di chi non l’ha apprezzata allo stesso modo. Buona a mio parere è anche l’evoluzione che affrontano le due protagoniste nel percorso della storia: Rin lo fa in maniera quasi ‘naturale’, in quanto col tempo riesce a comprendere meglio la sua natura e il suo ruolo, ma è Finis quella che lascia davvero un’impressione notevole in chi guarda, per tutte le trasformazioni che affronta. Se all’inizio infatti si presenta come una donna abbastanza frivola, dall’atteggiamento sbadato e quasi inconsapevole delle sue reali capacità, nel momento clou della storia rivela una natura arcigna e decisa, segnata da tante prove e innumerevoli sofferenze che è stata costretta ad affrontare, tanto da farla sembrare quasi un’altra persona. Non di altrettanta fortuna hanno goduto invece i personaggi secondari della serie, che, svantaggiati anche dalla durata relativamente breve dell’anime, non hanno una caratterizzazione così particolareggiata da restare impressa a lungo andare, anche se tutti più o meno riescono a ritagliarsi un ruolo importante al momento giusto nella risoluzione della vicenda che affrontano; tra i vari che compariranno nella serie vale la pena ricordare: Henry Leobolt, cavaliere imperiale di nobile retaggio innamoratosi di Finis e della sua natura, rivelatasi più umana di quanto pensasse; Pony Goodlight, una menestrello di corte furba e intraprendente che aiuterà Rin e Al a raggiungere la capitale; e, appunto, Al, fratello di Rin, nonché piccolo genio amante della scienza e capace di costruire oggetti tecnologicamente avanzati in contrasto con l’ambientazione medievale in cui è ambientata la serie.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico dell’anime, invece, le impressioni sono perlopiù positive, salvo alcuni piccoli dettagli; graficamente infatti la serie è ben realizzata, e per questo molto bella da vedere, il character design dei personaggi ad opera di Tomonori Fukuda e Shizue Kaneko ci regala un cast variegato dal design accattivante con un bel mix tra classico e moderno, capace di andare incontro a tutti i palati (se escludiamo la scelta fatta probabilmente per “valorizzare” le doti estetiche di Pony e Allu, costrette a indossare vestiti di tre taglie più piccole, visto quanto stringono il seno delle due ragazze, ma che a conti fatti regala a entrambe un aspetto più grottesco che attraente...); anche le ambientazioni fiabesche della serie riescono a risultare accattivanti, nonostante all’apparenza possano risultare abbastanza convenzionali. Colori appropriati a tutte le situazioni ed espedienti grafici utilizzati per impreziosire i momenti più significativi della storia completano un quadro in cui l’unico elemento che stona un po’ con l’armonia del resto è un uso a volte massiccio di CG che può risultare spesso fastidioso, non tanto quando è usata per animare macchine e veicoli futuristici che, in quanto estranei all’epoca della serie, riescono forse a risaltare pure meglio così, bensì quando è utilizzata piuttosto per animare gruppi numerosi di persone, come l’Orchestra Reale ad esempio, che non reggono il confronto con i personaggi principali in primo piano.
Pregevole è poi, data la grande importanza che riveste nelle dinamiche della serie, il lavoro svolto nel comparto sonoro; le musiche di Yusuke Shirato infatti rivestono un ruolo fondamentale nello svolgimento degli eventi, data la natura di musical dell’anime, e ogni melodia creata ad hoc riesce a coinvolgere lo spettatore nella giusta atmosfera del momento; in particolare cito “La Canzone della Morte” su tutte, che fa la sua comparsa nel punto apparentemente più tormentato della storia col suo ritmo incalzante e avvolgente che trasmette allo stesso tempo disperazione e voglia di un nuovo inizio, questo grazie anche ai testi delle canzoni di Aki Hata, che sopperiscono ai dialoghi nelle parti cantate, senza che si noti assolutamente la differenza. Impeccabile è anche l’impegno messo in campo in fase di doppiaggio, almeno quello originale, con due ottime Konomi Suzuki (Rin) e Yukari Tamura (Finis), chiamate non solo a dare vita a due personaggi dall’animo inquieto abbastanza complicati, ma anche a interpretare tutte le (tante) canzoni che queste intonano nella serie, con un risultato assolutamente degno di un buon professionista in campo musicale; non altrettanto entusiasta posso dirmi invece del doppiaggio italiano, che appare sufficiente in chiave recitativa, ma che ha scelto di non adattare in italiano i testi delle canzoni, sullo stile dei film Disney, depotenziando molto quelli che a conti fatti sono i momenti più importanti e significativi della serie. Sicuramente non sarebbe stato un lavoro semplice, non lo metto in dubbio, ma è chiaro che il salto improvviso e continuo dall’italiano al giapponese risulta straniante e non permette di godere appieno delle emozioni che l’anime prova a regalare.
In definitiva, posso dire che il giudizio che riservo a “Lost Song” è soprattutto positivo, nonostante il principale difetto che posso contestargli è una mancanza di chiarezza nello svolgimento degli eventi della trama, a causa del repentino colpo di scena a cui assistiamo a metà serie e che sarebbe stato possibile eliminare, probabilmente, se la stessa avesse avuto un numero maggiore di episodi per dipanare ogni dubbio; mi rendo conto che, detto così, non sembra un difetto da poco, ma, ripeto, ho apprezzato davvero tanto questa capacità che ha avuto la serie di sorprendermi e appassionarmi dopo un inizio che sembrava decisamente scontato, tanto che alla lunga sono riuscito a non fare caso a incertezze e incongruenze varie che mi erano sorte, finendo per apprezzare un finale che mi è parso comunque logico e rispettoso delle premesse che la storia aveva costruito fino a quel momento, pur con un po’ di confusione. Grazie ai tanti elementi diversi che la compongono, questa serie ha le capacità di farsi apprezzare da una larga fetta di pubblico, visto che strizza l’occhio agli amanti del fantasy classico, spesso anche crudo, così come ai musical stile Disney, ma anche a chi apprezza storie di crescita con tocchi romantici e introspettivi o avventure dal sapore fantascientifico. Non un capolavoro, insomma, ma un’opera meritevole di maggiore attenzione rispetto a quanta ne ha ricevuta, questo sì, e chissà che non ci sia ancora tempo perché in qualche modo possa riceverla.
“Lost Song”, come detto, è un progetto anime originale in dodici episodi co-prodotto dagli studi Liden Films e Dwango, e distribuito universalmente da Netflix. Ambientato in un classico universo fantasy/medievale, narra la storia parallela di due ragazze dotate di un dono particolare, il potere delle canzoni, che permette loro di esercitare capacità varie che vanno dalla creazione di elementi naturali alla guarigione dalle ferite, ma anche alla totale distruzione, semplicemente cantando la canzone adatta al caso. Rin, la più giovane delle due, è un’allegra ragazza che vive in un piccolo villaggio di frontiera col nonno, il fratello e la sorella acquisiti, e che adora cantare, tanto da coltivare il sogno di esibirsi un giorno nella capitale, accompagnata dall’Orchestra Reale, mentre Finis, la protagonista adulta della storia, è una donna che vive nella capitale sotto la protezione, ma è più una costrizione in realtà, del Re, dove è costretta a prestare servizio grazie ai suoi poteri, che vengono sfruttati nei modi più disparati, fino anche a trattarla come arma umana dall’esercito. Le due non hanno nulla in comune tranne il potere delle canzoni e vivono ignare dell’esistenza dell’altra, ma una guerra in avvicinamento, unita a una caccia ai possibili portatori del potere delle canzoni operata dall’esercito reale, metterà in moto una serie di eventi che finiranno per far incrociare le strade delle due ragazze e coinvolgeranno tanti altri personaggi in una storia pregna di amicizia, amore e fiducia, ma anche di dolorosi sacrifici e scelte da compiere lungo un percorso più impervio di quanto si sarebbe mai potuto immaginare rispetto all’inizio.
Già, perché uno dei punti forti di “Lost Song”, se non il principale proprio, è presentare una storia che comincia in un modo abbastanza classico, qualcuno direbbe anche banale, considerando personaggi e ambientazione che sanno molto di già visto, salvo poi evolvere e cambiare strada durante il suo svolgimento in modi che appaiono assolutamente inimmaginabili allo spettatore che assiste al primo episodio della serie. Questi espedienti, che non posso rivelare nella loro interezza per ovvi motivi, sono sia l’aspetto che più mi ha affascinato dell’anime sia quello che mi ha suscitato più perplessità, perché da un lato regalano un’originalità alla serie che difficilmente avrebbe avuto, ma dall’altro rischiano di creare una confusione nella gestione dei tempi e dell’andamento della stessa che può disorientare lo spettatore, anche quello più attento. Nel mio giudizio sull’anime ho voluto premiare il coraggio degli sceneggiatori nel provare a creare una variazione sul tema in questa serie, pur avendo ancora oggi dei dubbi su alcune scelte che probabilmente non vedrò mai districati, ma in virtù di questi problemi non posso non giustificare eventuali critiche mosse a questa scelta da parte di chi non l’ha apprezzata allo stesso modo. Buona a mio parere è anche l’evoluzione che affrontano le due protagoniste nel percorso della storia: Rin lo fa in maniera quasi ‘naturale’, in quanto col tempo riesce a comprendere meglio la sua natura e il suo ruolo, ma è Finis quella che lascia davvero un’impressione notevole in chi guarda, per tutte le trasformazioni che affronta. Se all’inizio infatti si presenta come una donna abbastanza frivola, dall’atteggiamento sbadato e quasi inconsapevole delle sue reali capacità, nel momento clou della storia rivela una natura arcigna e decisa, segnata da tante prove e innumerevoli sofferenze che è stata costretta ad affrontare, tanto da farla sembrare quasi un’altra persona. Non di altrettanta fortuna hanno goduto invece i personaggi secondari della serie, che, svantaggiati anche dalla durata relativamente breve dell’anime, non hanno una caratterizzazione così particolareggiata da restare impressa a lungo andare, anche se tutti più o meno riescono a ritagliarsi un ruolo importante al momento giusto nella risoluzione della vicenda che affrontano; tra i vari che compariranno nella serie vale la pena ricordare: Henry Leobolt, cavaliere imperiale di nobile retaggio innamoratosi di Finis e della sua natura, rivelatasi più umana di quanto pensasse; Pony Goodlight, una menestrello di corte furba e intraprendente che aiuterà Rin e Al a raggiungere la capitale; e, appunto, Al, fratello di Rin, nonché piccolo genio amante della scienza e capace di costruire oggetti tecnologicamente avanzati in contrasto con l’ambientazione medievale in cui è ambientata la serie.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico dell’anime, invece, le impressioni sono perlopiù positive, salvo alcuni piccoli dettagli; graficamente infatti la serie è ben realizzata, e per questo molto bella da vedere, il character design dei personaggi ad opera di Tomonori Fukuda e Shizue Kaneko ci regala un cast variegato dal design accattivante con un bel mix tra classico e moderno, capace di andare incontro a tutti i palati (se escludiamo la scelta fatta probabilmente per “valorizzare” le doti estetiche di Pony e Allu, costrette a indossare vestiti di tre taglie più piccole, visto quanto stringono il seno delle due ragazze, ma che a conti fatti regala a entrambe un aspetto più grottesco che attraente...); anche le ambientazioni fiabesche della serie riescono a risultare accattivanti, nonostante all’apparenza possano risultare abbastanza convenzionali. Colori appropriati a tutte le situazioni ed espedienti grafici utilizzati per impreziosire i momenti più significativi della storia completano un quadro in cui l’unico elemento che stona un po’ con l’armonia del resto è un uso a volte massiccio di CG che può risultare spesso fastidioso, non tanto quando è usata per animare macchine e veicoli futuristici che, in quanto estranei all’epoca della serie, riescono forse a risaltare pure meglio così, bensì quando è utilizzata piuttosto per animare gruppi numerosi di persone, come l’Orchestra Reale ad esempio, che non reggono il confronto con i personaggi principali in primo piano.
Pregevole è poi, data la grande importanza che riveste nelle dinamiche della serie, il lavoro svolto nel comparto sonoro; le musiche di Yusuke Shirato infatti rivestono un ruolo fondamentale nello svolgimento degli eventi, data la natura di musical dell’anime, e ogni melodia creata ad hoc riesce a coinvolgere lo spettatore nella giusta atmosfera del momento; in particolare cito “La Canzone della Morte” su tutte, che fa la sua comparsa nel punto apparentemente più tormentato della storia col suo ritmo incalzante e avvolgente che trasmette allo stesso tempo disperazione e voglia di un nuovo inizio, questo grazie anche ai testi delle canzoni di Aki Hata, che sopperiscono ai dialoghi nelle parti cantate, senza che si noti assolutamente la differenza. Impeccabile è anche l’impegno messo in campo in fase di doppiaggio, almeno quello originale, con due ottime Konomi Suzuki (Rin) e Yukari Tamura (Finis), chiamate non solo a dare vita a due personaggi dall’animo inquieto abbastanza complicati, ma anche a interpretare tutte le (tante) canzoni che queste intonano nella serie, con un risultato assolutamente degno di un buon professionista in campo musicale; non altrettanto entusiasta posso dirmi invece del doppiaggio italiano, che appare sufficiente in chiave recitativa, ma che ha scelto di non adattare in italiano i testi delle canzoni, sullo stile dei film Disney, depotenziando molto quelli che a conti fatti sono i momenti più importanti e significativi della serie. Sicuramente non sarebbe stato un lavoro semplice, non lo metto in dubbio, ma è chiaro che il salto improvviso e continuo dall’italiano al giapponese risulta straniante e non permette di godere appieno delle emozioni che l’anime prova a regalare.
In definitiva, posso dire che il giudizio che riservo a “Lost Song” è soprattutto positivo, nonostante il principale difetto che posso contestargli è una mancanza di chiarezza nello svolgimento degli eventi della trama, a causa del repentino colpo di scena a cui assistiamo a metà serie e che sarebbe stato possibile eliminare, probabilmente, se la stessa avesse avuto un numero maggiore di episodi per dipanare ogni dubbio; mi rendo conto che, detto così, non sembra un difetto da poco, ma, ripeto, ho apprezzato davvero tanto questa capacità che ha avuto la serie di sorprendermi e appassionarmi dopo un inizio che sembrava decisamente scontato, tanto che alla lunga sono riuscito a non fare caso a incertezze e incongruenze varie che mi erano sorte, finendo per apprezzare un finale che mi è parso comunque logico e rispettoso delle premesse che la storia aveva costruito fino a quel momento, pur con un po’ di confusione. Grazie ai tanti elementi diversi che la compongono, questa serie ha le capacità di farsi apprezzare da una larga fetta di pubblico, visto che strizza l’occhio agli amanti del fantasy classico, spesso anche crudo, così come ai musical stile Disney, ma anche a chi apprezza storie di crescita con tocchi romantici e introspettivi o avventure dal sapore fantascientifico. Non un capolavoro, insomma, ma un’opera meritevole di maggiore attenzione rispetto a quanta ne ha ricevuta, questo sì, e chissà che non ci sia ancora tempo perché in qualche modo possa riceverla.
Carole & Tuesday
8.0/10
“See you, space cowboys”,
così ci aveva salutato Watanabe nel celeberrimo 'Cowboy bebop'. Atmosfere surreali sci-fi, uniche nel loro genere, che non sono mai state dimenticate e hanno ispirato centinaia di altri autori.
Anni e anni dopo, ancora Watanabe, in collaborazione con Netflix, torna a proporre sfumature futuristiche con un altro lavoro, sicuramente meno memorabile - ma infinitamente più importante a livello umano, ben diverso come genere ma sempre ambientato in un lontano futuro, esattamente su Marte, dove la razza umana è riuscita ad insediarsi e a trascorrere quasi cinquant'anni di vita.
La vita va avanti.
Sempre.
Se ci guardiamo indietro, possiamo permetterci di sorridere e ammirare la dedizione degli uomini che ci hanno portato dove siamo oggi, sia scientificamente, che filosoficamente e razionalmente.
Non è una novità, lo stiamo percependo sulla nostra “pelle” proprio in questi difficili mesi: il progresso si è sempre scontrato con la refrattarietà e l’ignoranza delle superstizioni, dalla paura dell’ignoto alle restrizioni mentali delle religioni; ha dovuto fare i conti con tanti tipi di conservatorismo, ma nonostante tutto, niente può fermare l’essere umano.
Il tempo scorre, ogni cosa cambia, inevitabilmente, ineluttabilmente, inesorabilmente.
Il progresso scientifico è inarrestabile e fisiologico, e presto ci porterà ad esplorare davvero lo spazio, meta chimerica e utopistica, come già stiamo ammirando tentativo dopo tentativo, fallimento dopo fallimento, perché è dai più grandi fallimenti che sono nati i più grandi successi suggeriva proprio Michael “Air” Jordan, e nella vita, come nello sport, mai legge è stata più vera.
Ma è anche vero che assieme al proprio carico di sogni, l’umanità si trascina da sempre un mostruoso fardello di colpe e vergogne, scheletri nell’armadio e oscenità causate dall’egoismo e dalla brama di potere. Ogni conquista e cambiamento ha sempre posseduto un lato della medaglia che non avremmo mai voluto conoscere: scontri politici, ideologici e religiosi, immigrazioni ed esodi in cerca di fortuna e salvezza, delinquenza, guerre, povertà, ingiustizie sociali e altri disagi che fanno parte della realtà di quel mammifero, di quella bestia superiore ed ultra intelligente - e nonostante tutto, scioccamente istintiva - che nel giro di diecimila anni è passata dal realizzare una ruota perfettamente circolare a combattere virus letali ed esplorare lo spazio siderale tramite tecnologie inimmaginabili.
L’unico vero nemico dell’essere umano è sé stesso, ammoniva cent’anni fa il grande Einstein.
Spaventoso e glorioso.
Sciocco ed inarrestabile.
Bene, partiamo da qui.
Carole è figlia di immigrati, di colore, abitante del ghetto che si guadagna da vivere come può, suonando per strada, raccattando qualche spicciolo qua e là. Tuesday è la classica bianca, ricca, bionda, di stampo ariano, dagli occhi azzurri e dai tratti delicatissimi, a cui gli autori hanno deciso di attribuire i classici abiti da bambolina simil-lolita: se Mercoledì era corvina e squilibrata, Martedì è candida e dolcissima. Antipodi perfetti.
Ad ogni modo, cosa potranno avere mai in comune queste due ragazze completamente differenti? Inizialmente niente, o forse sì; una cosa particolare, qualcosa che le unirà per sempre così come ha unito milioni di persone nella storia:
la Musica.
È così, lo sappiamo tutti: la musica, fra le arti, è il linguaggio universale. Non importa da dove tu provenga, che lingua parli, quanti anni hai o cosa fai nella vita: quando si parla con l’illimitato linguaggio del pentagramma, chi si trova sulla stessa lunghezza d’onda si capisce a prescindere.
Ed è così che su uno dei ponti della città marziana che fa da sfondo alla vicenda, le due ragazze fanno amicizia. Carole è intenta ad esibirsi con la sua pianola e Tuesday si ferma, incantata, scoprendo così di sognare le medesime cose: “fare” musica per guardare avanti, per esprimersi, perché amano farlo, perché sentono una particolare sintonia, perché la musica è la musica.
Ma non è forse così che nascono le leggende? In un luogo qualsiasi, in un momento di ispirazione qualsiasi? A volte in un pub di Liverpool, a volte suonando in sobborghi malfamati, o gridando versi pieni di rabbia nel peggior vicolo del Bronx, o seguendo rigide direttive per apparire sempre gradevole agli occhi del pubblico, finendo vittime di genitori-manager, avvocati-arpie e giornalisti spietati.
Mille storie diverse, mille storie che conosciamo molto bene, mille modi di diffondere il proprio messaggio al mondo.
Già, il mondo.
Marte si sta trasformando nell’ennesimo territorio di conquista umano, dove i coloni cominciano a desiderare indipendenza ed inghippi burocratici rischiano di trasformarsi in gravi problemi diplomatici, perché la storia si ripete sempre, ed in C&T il modus operandi narrativo risulta uno dei punti di forza, nonostante siano presenti alcuni buchi di trama e determinati plot siano lasciati scivolare nel nulla con troppa fretta, senza chiudere o dare spiegazioni, elementi mancanti che a fine visione avranno il sapore di un grande rammarico.
Ebbene sì, dopo 'Violet Evergarden', Netflix fa ancora centro (innegabile, ma non all’altezza della bellissima Memory Doll), e produce un altro ottimo anime che tuttavia avrebbe potuto risultare memorabile: un manifesto contro la discriminazione e l’odio razziale, forse troppo timido e poco incisivo in alcuni punti, ma di grande impatto emotivo.
Colpiscono fin da subito i disegni leggeri, ricercati, dinamici, un immaginario design neo-marziano che ricorda un retro d’inizio novecento, complici fantasie futuristiche di una civilizzazione extraterrestre dal sapore nostrano, non così psichedelica o esagerata, ma più realistica e borghese, lontana anni luce dal soffocante tenebrore alieno di 'Giger' o dai neon grondanti di pioggia del monumentale 'Blade Runner'.
Come preannunciato il plot è semplice, quasi scontato, le due protagoniste sicuramente graziose e per nulla originali, ma queste banalità non devono ingannare: il punto forte del prodotto è proprio la semplicità con cui vengono proposti un tema dopo l’altro.
Senza nemmeno che se ne rendano conto, Carole e Tue finiscono per intraprendere una carriera musicale improvvisata, andando a vivere insieme, seguiti da un manager di nome Gus che farà di tutto per farle uscire dall’anonimato. Presto faranno la conoscenza di Angela, giovane coetanea, rigida, preparata per apparire perfetta e melodicamente accattivante come le più famose popstar, ragazza dal carattere arcigno e inizialmente spigoloso che si rivelerà, almeno sulle prime battute, una sorta di antieroina con cui le due protagoniste dovranno confrontarsi per farsi un nome nel mondo dello spettacolo.
Ma 'Carole & Tuesday' va oltre il semplice concetto di competizione, anzi: è un vero e proprio inno all’amore per la diversità, poiché se l’umanità è arrivata a colonizzare Marte, ci è riuscita impegnandosi tutta insieme. Tutte le etnie che convivono sul pianeta Rosso sono la dimostrazione che non solo l’unione fa la forza, ma che siamo tutti uguali, sempre, comunque e ovunque, e nonostante nel corso dei secoli fazioni politiche, sette religiose e spietati dittatori hanno tentato di tracciare confini, dividerci in caste e cercato di epurare determinate etnie, nessun fucile o genocida potrà mai vincere contro la potenza dell’amore ed il rispetto reciproco.
Infantile? Utopistico? Sì. E va bene così. Se non siamo i primi a crederci, chi ci crederà al posto nostro?
Una volta Bob Marley disse che fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come quello degli occhi, l’umanità non sarà mai in pace.
Amarissimo, ma inappuntabile.
L’amore non è mai abbastanza, l’unione fra popoli è purtroppo una chimera, ma la musica, oh, la musica, cosa diamine può fare la musica! Lo cantava Max Gazzè, ma è dannatamente vero.
Ed è questo il punto forte, fortissimo, anzi, micidiale, di quest’opera.
La colonna sonora ideata e scritta per 'Carole & Tuesday' è pazzesca, mostruosamente bella, una cosa mai sentita prima, capace di vincere premi e riconoscimenti a man bassa. Coinvolgente, eccezionale oltre ogni dire, intrisa di riferimenti del leggendario ed iconico “passato” terrestre: si vuol dimostrare che la musica è eterna, oltre lo spazio ed il tempo, e che i brani di fama mondiale che si ascoltavano cinquant’anni fa, si ascoltano oggi come si ascolteranno fra cento o duecento anni, e se mai davvero metteremo piede su Marte quelle note risuoneranno anche lassù, poco ma sicuro.
Ogni episodio ha il titolo di un brano famoso, accompagnato dall'immagine del vinile ispirato, titolo per altro suggerente i contenuti dell’episodio stesso. La struttura dell’anime segue la linea spensierata e semi scollegata che si utilizzava spesso a cavallo degli anni ottanta e novanta, ed il lavoro svolto per rappresentare ambienti urbani e domestici in stile futuristico non troppo algido e distante si dimostra davvero squisito.
La visione scivola via velocemente, leggera, trascinandoci dentro le vicende delle due protagoniste in un ambiente musicale molto simile a quello terrestre, ed il risultato è un mix di emozioni contrastanti, ma tutte toccanti: anche se alcuni episodi risultano senza dubbio sottotono - alcuni frivoli e poco incisivi – posseggono mediamente una componente capace di tenere sulla corda e aggiungere tessere al puzzle psicologico che pian piano viene a crearsi; risate, frangenti emotivamente intensi e commoventi, a volte allucinanti e grotteschi, con gag umoristiche davvero divertenti (i Galactic Mermaid non potrete mai più dimenticarli!), elementi che si dimostrano un degno contorno ad una storia leggera, che purtroppo tralascia alcuni rapporti personali fra personaggi principali e secondari creando falle piuttosto fastidiose.
Ci viene principalmente ricordato quanto il mondo della musica sia caleidoscopico, stordente e spesso doloroso; stalker fissati per la propria star, difficoltà economiche con location e spettacoli, costrizioni, droga, alcol, fisco, perdita di identità, paure, tradimenti e rivelazioni scioccanti. I personaggi secondari e l’antagonista si rivelano con tutta probabilità ancor più intensi delle protagoniste: ispirati alle nostre leggende immortali, faremo la conoscenza di vari artisti considerate star decadute, grandi personalità in declino o artisti d’attuale successo, si prenda per esempio l’androgino e sovrannaturale Desmond, palese controparte marziana di David Bowie, (un alieno, no?), o Crystal, così simile a Beyoncè, o la meravigliosa, indimenticabile Flora, con un background talmente simile a Withney Houston che sarà davvero difficile non commuoversi nell’episodio dedicato alla sua storia. DJ folli ed entusiasmanti (Ertegun, un mix fra David Guetta e Bob Sinclair, che spettacolo!), produttori scorbutici, talent show ispirati a 'X-Factor', politici corrotti, bancarotte, scommesse, ansie da palcoscenico: questo è il pazzo mondo dello spettacolo, da sempre e per sempre.
Una continua citazione, anzi, di più: 'Carole &Tuesday' è un vero e proprio omaggio alla Musica, un atto d’amore per il linguaggio universale ed eterno che ha unito le persone da sempre, e sempre le unirà.
Ogni pezzo scritto e cantato per quest’anime è completamente originale e spesso sorprende per bellezza e profondità. La scalata al successo del giovane duo è accompagnata da melodie sempre differenti, intensità che rispecchia la struttura della trama (ottima prima parte, flessione verso metà, per poi giungere ad un finale estremamente toccante): l’epilogo è qualcosa di indescrivibile, assolutamente memorabile. Anzi, potremmo dire che il finale stesso vale l’intero anime, lo valorizza tramite un pezzo di sette minuti, 'Mother', ispirato al mitico 'We are the world' scritto dal Re del pop, MJ, e cantato da tutte le star del momento.
Una menzione particolare va alla costruzione del personaggio di Angela, antagonista sofferta e sofferente della vicenda, condannata ad essere perfetta per soddisfare una madre arrivista che però non sembra essere la fredda calcolatrice che si potrebbe pensare. La condanna alla commercializzazione e alla creazione di musica in studio atta solo alla vendita è fin troppo chiara; contrasta nettamente col modo di fare delle due protagoniste, più istintive, accorate, ispirate e libere da canoni di mercato, nonostante a conti fatti il background di Angela risulti più solido ed intrigante, altro path che ci emozionerà passo dopo passo.
Se Watanabe e la sua crew erano intenzionati ad animare la scena nipponica con un’opera che denunciasse la discriminazione e il razzismo usando l’eternità della musica come veicolo, allora avrebbero dovuto prendere più coraggio ed andare fino in fondo, calcare la mano, spingendo in profondità su queste tematiche, poiché al termine della visione ci si sente come sospesi a metà fra l’indimenticabile e l’incompiuto, sebbene sia veramente difficile non versare qualche lacrima durante il climax che ci porta ad ascoltare la bellissima 'Mother'.
'Carole &Tuesday' è tanto bello quanto un rimpianto, un’occasione sprecata per erigere un pilastro, una pietra miliare contro la discriminazione, intento riuscito solo in parte.
Una serie carica di positività che non ha necessitato di realismo ma di idealismo, ed in fondo, ci possiamo comunque accontentare: noi, il messaggio, l’abbiamo capito.
Come disse Michael Jackson, certi testi dovrebbero ascoltarli presidenti e dittatori, non soltanto il pubblico.
“Tante voci sono forti,
ma tutte unite,
siamo una sola.”
Il voto che avrei dovuto attribuire a quest'opera sarebbe stato 7, ma il punto in più è obbligatorio per il messaggio: metteteci amore, sempre. Veniamo dallo spazio, siamo fatti della stessa materia e alla fine, torneremo ad essa.
We can be heroes, just for one day.
così ci aveva salutato Watanabe nel celeberrimo 'Cowboy bebop'. Atmosfere surreali sci-fi, uniche nel loro genere, che non sono mai state dimenticate e hanno ispirato centinaia di altri autori.
Anni e anni dopo, ancora Watanabe, in collaborazione con Netflix, torna a proporre sfumature futuristiche con un altro lavoro, sicuramente meno memorabile - ma infinitamente più importante a livello umano, ben diverso come genere ma sempre ambientato in un lontano futuro, esattamente su Marte, dove la razza umana è riuscita ad insediarsi e a trascorrere quasi cinquant'anni di vita.
La vita va avanti.
Sempre.
Se ci guardiamo indietro, possiamo permetterci di sorridere e ammirare la dedizione degli uomini che ci hanno portato dove siamo oggi, sia scientificamente, che filosoficamente e razionalmente.
Non è una novità, lo stiamo percependo sulla nostra “pelle” proprio in questi difficili mesi: il progresso si è sempre scontrato con la refrattarietà e l’ignoranza delle superstizioni, dalla paura dell’ignoto alle restrizioni mentali delle religioni; ha dovuto fare i conti con tanti tipi di conservatorismo, ma nonostante tutto, niente può fermare l’essere umano.
Il tempo scorre, ogni cosa cambia, inevitabilmente, ineluttabilmente, inesorabilmente.
Il progresso scientifico è inarrestabile e fisiologico, e presto ci porterà ad esplorare davvero lo spazio, meta chimerica e utopistica, come già stiamo ammirando tentativo dopo tentativo, fallimento dopo fallimento, perché è dai più grandi fallimenti che sono nati i più grandi successi suggeriva proprio Michael “Air” Jordan, e nella vita, come nello sport, mai legge è stata più vera.
Ma è anche vero che assieme al proprio carico di sogni, l’umanità si trascina da sempre un mostruoso fardello di colpe e vergogne, scheletri nell’armadio e oscenità causate dall’egoismo e dalla brama di potere. Ogni conquista e cambiamento ha sempre posseduto un lato della medaglia che non avremmo mai voluto conoscere: scontri politici, ideologici e religiosi, immigrazioni ed esodi in cerca di fortuna e salvezza, delinquenza, guerre, povertà, ingiustizie sociali e altri disagi che fanno parte della realtà di quel mammifero, di quella bestia superiore ed ultra intelligente - e nonostante tutto, scioccamente istintiva - che nel giro di diecimila anni è passata dal realizzare una ruota perfettamente circolare a combattere virus letali ed esplorare lo spazio siderale tramite tecnologie inimmaginabili.
L’unico vero nemico dell’essere umano è sé stesso, ammoniva cent’anni fa il grande Einstein.
Spaventoso e glorioso.
Sciocco ed inarrestabile.
Bene, partiamo da qui.
Carole è figlia di immigrati, di colore, abitante del ghetto che si guadagna da vivere come può, suonando per strada, raccattando qualche spicciolo qua e là. Tuesday è la classica bianca, ricca, bionda, di stampo ariano, dagli occhi azzurri e dai tratti delicatissimi, a cui gli autori hanno deciso di attribuire i classici abiti da bambolina simil-lolita: se Mercoledì era corvina e squilibrata, Martedì è candida e dolcissima. Antipodi perfetti.
Ad ogni modo, cosa potranno avere mai in comune queste due ragazze completamente differenti? Inizialmente niente, o forse sì; una cosa particolare, qualcosa che le unirà per sempre così come ha unito milioni di persone nella storia:
la Musica.
È così, lo sappiamo tutti: la musica, fra le arti, è il linguaggio universale. Non importa da dove tu provenga, che lingua parli, quanti anni hai o cosa fai nella vita: quando si parla con l’illimitato linguaggio del pentagramma, chi si trova sulla stessa lunghezza d’onda si capisce a prescindere.
Ed è così che su uno dei ponti della città marziana che fa da sfondo alla vicenda, le due ragazze fanno amicizia. Carole è intenta ad esibirsi con la sua pianola e Tuesday si ferma, incantata, scoprendo così di sognare le medesime cose: “fare” musica per guardare avanti, per esprimersi, perché amano farlo, perché sentono una particolare sintonia, perché la musica è la musica.
Ma non è forse così che nascono le leggende? In un luogo qualsiasi, in un momento di ispirazione qualsiasi? A volte in un pub di Liverpool, a volte suonando in sobborghi malfamati, o gridando versi pieni di rabbia nel peggior vicolo del Bronx, o seguendo rigide direttive per apparire sempre gradevole agli occhi del pubblico, finendo vittime di genitori-manager, avvocati-arpie e giornalisti spietati.
Mille storie diverse, mille storie che conosciamo molto bene, mille modi di diffondere il proprio messaggio al mondo.
Già, il mondo.
Marte si sta trasformando nell’ennesimo territorio di conquista umano, dove i coloni cominciano a desiderare indipendenza ed inghippi burocratici rischiano di trasformarsi in gravi problemi diplomatici, perché la storia si ripete sempre, ed in C&T il modus operandi narrativo risulta uno dei punti di forza, nonostante siano presenti alcuni buchi di trama e determinati plot siano lasciati scivolare nel nulla con troppa fretta, senza chiudere o dare spiegazioni, elementi mancanti che a fine visione avranno il sapore di un grande rammarico.
Ebbene sì, dopo 'Violet Evergarden', Netflix fa ancora centro (innegabile, ma non all’altezza della bellissima Memory Doll), e produce un altro ottimo anime che tuttavia avrebbe potuto risultare memorabile: un manifesto contro la discriminazione e l’odio razziale, forse troppo timido e poco incisivo in alcuni punti, ma di grande impatto emotivo.
Colpiscono fin da subito i disegni leggeri, ricercati, dinamici, un immaginario design neo-marziano che ricorda un retro d’inizio novecento, complici fantasie futuristiche di una civilizzazione extraterrestre dal sapore nostrano, non così psichedelica o esagerata, ma più realistica e borghese, lontana anni luce dal soffocante tenebrore alieno di 'Giger' o dai neon grondanti di pioggia del monumentale 'Blade Runner'.
Come preannunciato il plot è semplice, quasi scontato, le due protagoniste sicuramente graziose e per nulla originali, ma queste banalità non devono ingannare: il punto forte del prodotto è proprio la semplicità con cui vengono proposti un tema dopo l’altro.
Senza nemmeno che se ne rendano conto, Carole e Tue finiscono per intraprendere una carriera musicale improvvisata, andando a vivere insieme, seguiti da un manager di nome Gus che farà di tutto per farle uscire dall’anonimato. Presto faranno la conoscenza di Angela, giovane coetanea, rigida, preparata per apparire perfetta e melodicamente accattivante come le più famose popstar, ragazza dal carattere arcigno e inizialmente spigoloso che si rivelerà, almeno sulle prime battute, una sorta di antieroina con cui le due protagoniste dovranno confrontarsi per farsi un nome nel mondo dello spettacolo.
Ma 'Carole & Tuesday' va oltre il semplice concetto di competizione, anzi: è un vero e proprio inno all’amore per la diversità, poiché se l’umanità è arrivata a colonizzare Marte, ci è riuscita impegnandosi tutta insieme. Tutte le etnie che convivono sul pianeta Rosso sono la dimostrazione che non solo l’unione fa la forza, ma che siamo tutti uguali, sempre, comunque e ovunque, e nonostante nel corso dei secoli fazioni politiche, sette religiose e spietati dittatori hanno tentato di tracciare confini, dividerci in caste e cercato di epurare determinate etnie, nessun fucile o genocida potrà mai vincere contro la potenza dell’amore ed il rispetto reciproco.
Infantile? Utopistico? Sì. E va bene così. Se non siamo i primi a crederci, chi ci crederà al posto nostro?
Una volta Bob Marley disse che fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come quello degli occhi, l’umanità non sarà mai in pace.
Amarissimo, ma inappuntabile.
L’amore non è mai abbastanza, l’unione fra popoli è purtroppo una chimera, ma la musica, oh, la musica, cosa diamine può fare la musica! Lo cantava Max Gazzè, ma è dannatamente vero.
Ed è questo il punto forte, fortissimo, anzi, micidiale, di quest’opera.
La colonna sonora ideata e scritta per 'Carole & Tuesday' è pazzesca, mostruosamente bella, una cosa mai sentita prima, capace di vincere premi e riconoscimenti a man bassa. Coinvolgente, eccezionale oltre ogni dire, intrisa di riferimenti del leggendario ed iconico “passato” terrestre: si vuol dimostrare che la musica è eterna, oltre lo spazio ed il tempo, e che i brani di fama mondiale che si ascoltavano cinquant’anni fa, si ascoltano oggi come si ascolteranno fra cento o duecento anni, e se mai davvero metteremo piede su Marte quelle note risuoneranno anche lassù, poco ma sicuro.
Ogni episodio ha il titolo di un brano famoso, accompagnato dall'immagine del vinile ispirato, titolo per altro suggerente i contenuti dell’episodio stesso. La struttura dell’anime segue la linea spensierata e semi scollegata che si utilizzava spesso a cavallo degli anni ottanta e novanta, ed il lavoro svolto per rappresentare ambienti urbani e domestici in stile futuristico non troppo algido e distante si dimostra davvero squisito.
La visione scivola via velocemente, leggera, trascinandoci dentro le vicende delle due protagoniste in un ambiente musicale molto simile a quello terrestre, ed il risultato è un mix di emozioni contrastanti, ma tutte toccanti: anche se alcuni episodi risultano senza dubbio sottotono - alcuni frivoli e poco incisivi – posseggono mediamente una componente capace di tenere sulla corda e aggiungere tessere al puzzle psicologico che pian piano viene a crearsi; risate, frangenti emotivamente intensi e commoventi, a volte allucinanti e grotteschi, con gag umoristiche davvero divertenti (i Galactic Mermaid non potrete mai più dimenticarli!), elementi che si dimostrano un degno contorno ad una storia leggera, che purtroppo tralascia alcuni rapporti personali fra personaggi principali e secondari creando falle piuttosto fastidiose.
Ci viene principalmente ricordato quanto il mondo della musica sia caleidoscopico, stordente e spesso doloroso; stalker fissati per la propria star, difficoltà economiche con location e spettacoli, costrizioni, droga, alcol, fisco, perdita di identità, paure, tradimenti e rivelazioni scioccanti. I personaggi secondari e l’antagonista si rivelano con tutta probabilità ancor più intensi delle protagoniste: ispirati alle nostre leggende immortali, faremo la conoscenza di vari artisti considerate star decadute, grandi personalità in declino o artisti d’attuale successo, si prenda per esempio l’androgino e sovrannaturale Desmond, palese controparte marziana di David Bowie, (un alieno, no?), o Crystal, così simile a Beyoncè, o la meravigliosa, indimenticabile Flora, con un background talmente simile a Withney Houston che sarà davvero difficile non commuoversi nell’episodio dedicato alla sua storia. DJ folli ed entusiasmanti (Ertegun, un mix fra David Guetta e Bob Sinclair, che spettacolo!), produttori scorbutici, talent show ispirati a 'X-Factor', politici corrotti, bancarotte, scommesse, ansie da palcoscenico: questo è il pazzo mondo dello spettacolo, da sempre e per sempre.
Una continua citazione, anzi, di più: 'Carole &Tuesday' è un vero e proprio omaggio alla Musica, un atto d’amore per il linguaggio universale ed eterno che ha unito le persone da sempre, e sempre le unirà.
Ogni pezzo scritto e cantato per quest’anime è completamente originale e spesso sorprende per bellezza e profondità. La scalata al successo del giovane duo è accompagnata da melodie sempre differenti, intensità che rispecchia la struttura della trama (ottima prima parte, flessione verso metà, per poi giungere ad un finale estremamente toccante): l’epilogo è qualcosa di indescrivibile, assolutamente memorabile. Anzi, potremmo dire che il finale stesso vale l’intero anime, lo valorizza tramite un pezzo di sette minuti, 'Mother', ispirato al mitico 'We are the world' scritto dal Re del pop, MJ, e cantato da tutte le star del momento.
Una menzione particolare va alla costruzione del personaggio di Angela, antagonista sofferta e sofferente della vicenda, condannata ad essere perfetta per soddisfare una madre arrivista che però non sembra essere la fredda calcolatrice che si potrebbe pensare. La condanna alla commercializzazione e alla creazione di musica in studio atta solo alla vendita è fin troppo chiara; contrasta nettamente col modo di fare delle due protagoniste, più istintive, accorate, ispirate e libere da canoni di mercato, nonostante a conti fatti il background di Angela risulti più solido ed intrigante, altro path che ci emozionerà passo dopo passo.
Se Watanabe e la sua crew erano intenzionati ad animare la scena nipponica con un’opera che denunciasse la discriminazione e il razzismo usando l’eternità della musica come veicolo, allora avrebbero dovuto prendere più coraggio ed andare fino in fondo, calcare la mano, spingendo in profondità su queste tematiche, poiché al termine della visione ci si sente come sospesi a metà fra l’indimenticabile e l’incompiuto, sebbene sia veramente difficile non versare qualche lacrima durante il climax che ci porta ad ascoltare la bellissima 'Mother'.
'Carole &Tuesday' è tanto bello quanto un rimpianto, un’occasione sprecata per erigere un pilastro, una pietra miliare contro la discriminazione, intento riuscito solo in parte.
Una serie carica di positività che non ha necessitato di realismo ma di idealismo, ed in fondo, ci possiamo comunque accontentare: noi, il messaggio, l’abbiamo capito.
Come disse Michael Jackson, certi testi dovrebbero ascoltarli presidenti e dittatori, non soltanto il pubblico.
“Tante voci sono forti,
ma tutte unite,
siamo una sola.”
Il voto che avrei dovuto attribuire a quest'opera sarebbe stato 7, ma il punto in più è obbligatorio per il messaggio: metteteci amore, sempre. Veniamo dallo spazio, siamo fatti della stessa materia e alla fine, torneremo ad essa.
We can be heroes, just for one day.
Carole & Tuesday è una buona idea non sfruttata al meglio, aveva tutti i numeri per essere un capolavoro ma la storia è troppo fiacca. Inoltre c'è parecchia ingenuità di fondo, ma credo che la cosa sia voluta, per far ricordare i tempi dei vari Live Aid, Band Aid e We are the World, quando c'era l'idea che con la musica si potesse cambiare il mondo. La colonna sonora non è male, ma non è abbastanza incisiva. L'assenza di Yoko Kanno si fa sentire tantissimo, come pure quella di Keiko Nobumoto alla sceneggiatura. Ma rimane comunque una serie che andrebbe vista, perchè nel suo piccolo merita. Doppiaggio italiano buono.
grazie a te per averle lette
@miriam22 non dici niente
🤣🤣🤣🤣🤣🤣🤣🤣🤣
Devi eseguire l'accesso per lasciare un commento.