Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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Tokyo Revengers
5.0/10
Takemichi è un NEET dal cuore codardo. Viene a sapere dalla televisione che la sua prima e unica fidanzata, avuta nel periodo delle scuole medie, viene coinvolta e uccisa in un conflitto di bande "studentesche". Lo stesso giorno, Takemichi viene quasi travolto da un treno e finisce per rivivere il proprio passato da aspirante teppista, dodici anni prima. Il suo scopo diviene quello di salvare l'unica ragazza che lo ha amato, cambiando il passato, e per fare questo entra nel giro delle bande di Yanki (studenti punk attaccabrighe).
Sembrerebbe (vero: sembrerebbe!) una storia di studenti combattenti, nella quale il protagonista si fortifica per duellare contro gli altri personaggi. Invece no. È infine la storia di un codardo che resta codardo, di un debole che resta debole e avrà un ruolo assolutamente marginale, mentre a decidere il futuro saranno personaggi per lui inarrivabili e intoccabili. Certo piacevoli, ma essendo "lontani" dal raggio di intervento del protagonista, anche la nostra osservazione si fa passiva.
Spiego subito le ragioni di un voto tanto basso per un'opera che ha buon riscontro in patria.
Il character design è pessimo. Anche gli adulti sembrano bambini. Non era così nel manga, che aveva un tratto più sottile e freddo. Vedremo il protagonista in due periodi della sua vita, e per la mano sgraziata del designer la fase adulta sembra più giovane di quella adolescente.
La trama è completamente character driven, vale a dire che più di presentare personaggi in fila che interagiscono non c'è, anche se le premesse erano eccellenti per complesse variazioni sulle "linee del tempo". Ve ne sono soltanto brevi accenni e male sviluppati.
Il plot dovrebbe riguardare la possibilità di intervenire sul passato per migliorare il futuro. Di fatto, non sembra funzionare.
"È lento da morire", e alcuni episodi si risolvono nel mostrare ancora e ancora il background di personaggi che già ci piacciono, quindi perché insistere?
La trama è buona nel primo ciclo di sei episodi, poi mi sono accorto che si ripeteva. Ho dato una sbirciata alla Wiki, e non mi sbaglio: trovato un arco, verrà ripetuto ancora e ancora e ancora, fino alle bolle di schiuma che escono dalla bocca. Takemitchy ha un problema in ogni episodio, in ogni episodio piange dandosi dello 'sfigato', ricorda che deve salvare qualcuno, quindi... non fa nulla (vedi sotto).
Il protagonista è detestabile, totalmente passivo rispetto agli eventi. La caratterizzazione del "cry baby" non è stata colta in pieno dall'autore. Ne consegue che non si è nemmeno esattamente sicuri se il personaggio abbia o meno cambiato la trama col suo intervento... dato che praticamente non interviene mai e si limita a piangere e urlare, per poi buscarne sode. Non sarebbe un problema, se solo la premessa non fosse proprio che il personaggio "deve" agire per cambiare la storia. Stranamente, non fa un tubo di tutto questo.
Gran parte dei fatti si sarebbero potuti svolgere meglio, se il protagonista avesse anche semplicemente "detto" che sapeva qualcosa. C'è un amico in pericolo di vita? Non glielo dice. Tentenna, piange, esita, sbraita, ma non fa quello che chiunque, perfino io che sono stupido, farebbe: avvertirlo.
Ne consegue che assistiamo a botte fra liceali per il puro gusto di, senza che ci sia una vera interazione nel cast. Nel pieno spirito dei drammi storici giapponesi, tutto è fato, tutto è destino, le death flag sbandierano forte, e solo aggiungendo capitoli di backstory (quindi sempre passivi) forse si capisce perché X ha rotto il naso a Y. In ogni caso non poteva farne proprio a meno, il naso doveva essere rotto. Che noia!
Paradossi in continuazione. Polizia che giunge talvolta dopo due secondi, talvolta mai. Gente che, invece di lavorare, di mestiere fa il picchiatore di bambini. Tredicenni con le moto. Assenza totale di genitori o qualsivoglia adulto con potere decisionale. Questa non è una storia fantasy, ha un contesto reale, quindi mi aspetterei coerenza. Talvolta questa va a farsi benedire.
Che possiamo dire? È "di nuovo" una storia troppo giapponese per essere davvero apprezzata da un pubblico occidentale, che di sicuro non capirà che si tratta di un dramma storico (a volte palese!) del periodo Taisho in un contesto moderno. Solo che io non sono giapponese, del Taisho non mi frega niente e lo capisco solo in parte, quindi mi dispiace, ma "Tokyo Revengers" per me finisce qui.
Sembrerebbe (vero: sembrerebbe!) una storia di studenti combattenti, nella quale il protagonista si fortifica per duellare contro gli altri personaggi. Invece no. È infine la storia di un codardo che resta codardo, di un debole che resta debole e avrà un ruolo assolutamente marginale, mentre a decidere il futuro saranno personaggi per lui inarrivabili e intoccabili. Certo piacevoli, ma essendo "lontani" dal raggio di intervento del protagonista, anche la nostra osservazione si fa passiva.
Spiego subito le ragioni di un voto tanto basso per un'opera che ha buon riscontro in patria.
Il character design è pessimo. Anche gli adulti sembrano bambini. Non era così nel manga, che aveva un tratto più sottile e freddo. Vedremo il protagonista in due periodi della sua vita, e per la mano sgraziata del designer la fase adulta sembra più giovane di quella adolescente.
La trama è completamente character driven, vale a dire che più di presentare personaggi in fila che interagiscono non c'è, anche se le premesse erano eccellenti per complesse variazioni sulle "linee del tempo". Ve ne sono soltanto brevi accenni e male sviluppati.
Il plot dovrebbe riguardare la possibilità di intervenire sul passato per migliorare il futuro. Di fatto, non sembra funzionare.
"È lento da morire", e alcuni episodi si risolvono nel mostrare ancora e ancora il background di personaggi che già ci piacciono, quindi perché insistere?
La trama è buona nel primo ciclo di sei episodi, poi mi sono accorto che si ripeteva. Ho dato una sbirciata alla Wiki, e non mi sbaglio: trovato un arco, verrà ripetuto ancora e ancora e ancora, fino alle bolle di schiuma che escono dalla bocca. Takemitchy ha un problema in ogni episodio, in ogni episodio piange dandosi dello 'sfigato', ricorda che deve salvare qualcuno, quindi... non fa nulla (vedi sotto).
Il protagonista è detestabile, totalmente passivo rispetto agli eventi. La caratterizzazione del "cry baby" non è stata colta in pieno dall'autore. Ne consegue che non si è nemmeno esattamente sicuri se il personaggio abbia o meno cambiato la trama col suo intervento... dato che praticamente non interviene mai e si limita a piangere e urlare, per poi buscarne sode. Non sarebbe un problema, se solo la premessa non fosse proprio che il personaggio "deve" agire per cambiare la storia. Stranamente, non fa un tubo di tutto questo.
Gran parte dei fatti si sarebbero potuti svolgere meglio, se il protagonista avesse anche semplicemente "detto" che sapeva qualcosa. C'è un amico in pericolo di vita? Non glielo dice. Tentenna, piange, esita, sbraita, ma non fa quello che chiunque, perfino io che sono stupido, farebbe: avvertirlo.
Ne consegue che assistiamo a botte fra liceali per il puro gusto di, senza che ci sia una vera interazione nel cast. Nel pieno spirito dei drammi storici giapponesi, tutto è fato, tutto è destino, le death flag sbandierano forte, e solo aggiungendo capitoli di backstory (quindi sempre passivi) forse si capisce perché X ha rotto il naso a Y. In ogni caso non poteva farne proprio a meno, il naso doveva essere rotto. Che noia!
Paradossi in continuazione. Polizia che giunge talvolta dopo due secondi, talvolta mai. Gente che, invece di lavorare, di mestiere fa il picchiatore di bambini. Tredicenni con le moto. Assenza totale di genitori o qualsivoglia adulto con potere decisionale. Questa non è una storia fantasy, ha un contesto reale, quindi mi aspetterei coerenza. Talvolta questa va a farsi benedire.
Che possiamo dire? È "di nuovo" una storia troppo giapponese per essere davvero apprezzata da un pubblico occidentale, che di sicuro non capirà che si tratta di un dramma storico (a volte palese!) del periodo Taisho in un contesto moderno. Solo che io non sono giapponese, del Taisho non mi frega niente e lo capisco solo in parte, quindi mi dispiace, ma "Tokyo Revengers" per me finisce qui.
Sonny Boy
9.5/10
"Sonny Boy" è quel tipo di anime che, una volta finito, ti lascia quella sensazione di vuoto che è difficile definire piacevole, ma di cui comunque non vorresti liberarti.
Tecnicamente, potrebbe essere classificabile come isekai, in quanto i protagonisti si ritrovano in quello che sembra essere un altro mondo, ma condivide ben poco con la maggioranza degli altri appartenenti al genere. Descrivere la situazione dei protagonisti come "andati alla deriva", seppur vago, è quanto di più calzante si possa dire, nel senso che evoca la giusta immagine mentale. Andare alla deriva: "essere trascinati dalla corrente, subire passivamente gli eventi, lasciarsi andare, abbandonarsi". Pur evocando l'immagine giusta, non posso non puntualizzare che sono molteplici le occasioni in cui i protagonisti si "oppongono alla corrente".
Che piaccia o meno, non c'è dubbio che si tratti di qualcosa di molto originale. Parliamo di un'originalità tanto coraggiosa quanto rischiosa, perché inevitabilmente, quando ti allontani dalla strada battuta, non sai quanti potranno o vorranno seguirti, e credo che chi ci ha lavorato ne fosse consapevole e gli andasse bene così. Lo show non ti tiene per mano. Ti dà gli elementi per capire, ma è veramente facile sul momento non farci caso, il che rende molto soddisfacenti le volte in cui non te li perdi. Non tutto però è fatto per essere capito, risolto.
Più si avanza, più si va alla deriva, più le regole e la logica perdono di importanza, lasciando sul palcoscenico gli esseri umani. Paradossale come, pur essendo in un mondo caratterizzato da elementi degni dei peggiori "trip da acidi", l'aspetto umano sia ben più forte e "vero" che in molte altre opere ambientate in contesti "normali". L'assurdo non lo falsa, lo enfatizza.
A livello di tematiche, oh (sonny) boy!, qualcuna è abbastanza chiara ma altre... Non ho dubbi che quest’anime finirà tra le "gemme nascoste" e ogni tanto verrà pubblicata una nuova analisi per tentare di spiegarne il "vero significato". Non preoccupatevi però, come ogni opera d’arte che si rispetti, non è strettamente necessario sviscerarne ogni mistero per poterla apprezzare.
I personaggi sono vari e interessanti, così come le ambientazioni. Graficamente, lo stile strizza un po' l'occhio al passato e il risultato è veramente godibile, nonché perfettamente adatto al tipo di storia. Anche il comparto sonoro è lodevole, sia di per sé sia per come è stato usato (o non usato!).
In definitiva, non è un anime per tutti, ma, se è per te, ti piacerà molto, e alla fine farai fatica a dirgli addio. A questo riguardo, le ultime parole della OST durante i titoli di coda non saranno di aiuto: "...don't say goodbye".
Tecnicamente, potrebbe essere classificabile come isekai, in quanto i protagonisti si ritrovano in quello che sembra essere un altro mondo, ma condivide ben poco con la maggioranza degli altri appartenenti al genere. Descrivere la situazione dei protagonisti come "andati alla deriva", seppur vago, è quanto di più calzante si possa dire, nel senso che evoca la giusta immagine mentale. Andare alla deriva: "essere trascinati dalla corrente, subire passivamente gli eventi, lasciarsi andare, abbandonarsi". Pur evocando l'immagine giusta, non posso non puntualizzare che sono molteplici le occasioni in cui i protagonisti si "oppongono alla corrente".
Che piaccia o meno, non c'è dubbio che si tratti di qualcosa di molto originale. Parliamo di un'originalità tanto coraggiosa quanto rischiosa, perché inevitabilmente, quando ti allontani dalla strada battuta, non sai quanti potranno o vorranno seguirti, e credo che chi ci ha lavorato ne fosse consapevole e gli andasse bene così. Lo show non ti tiene per mano. Ti dà gli elementi per capire, ma è veramente facile sul momento non farci caso, il che rende molto soddisfacenti le volte in cui non te li perdi. Non tutto però è fatto per essere capito, risolto.
Più si avanza, più si va alla deriva, più le regole e la logica perdono di importanza, lasciando sul palcoscenico gli esseri umani. Paradossale come, pur essendo in un mondo caratterizzato da elementi degni dei peggiori "trip da acidi", l'aspetto umano sia ben più forte e "vero" che in molte altre opere ambientate in contesti "normali". L'assurdo non lo falsa, lo enfatizza.
A livello di tematiche, oh (sonny) boy!, qualcuna è abbastanza chiara ma altre... Non ho dubbi che quest’anime finirà tra le "gemme nascoste" e ogni tanto verrà pubblicata una nuova analisi per tentare di spiegarne il "vero significato". Non preoccupatevi però, come ogni opera d’arte che si rispetti, non è strettamente necessario sviscerarne ogni mistero per poterla apprezzare.
I personaggi sono vari e interessanti, così come le ambientazioni. Graficamente, lo stile strizza un po' l'occhio al passato e il risultato è veramente godibile, nonché perfettamente adatto al tipo di storia. Anche il comparto sonoro è lodevole, sia di per sé sia per come è stato usato (o non usato!).
In definitiva, non è un anime per tutti, ma, se è per te, ti piacerà molto, e alla fine farai fatica a dirgli addio. A questo riguardo, le ultime parole della OST durante i titoli di coda non saranno di aiuto: "...don't say goodbye".
Serial Experiments Lain
10.0/10
Alla fine del ventesimo secolo il produttore Yasuyuki Ueda, il character designer Yoshitoshi ABe, lo sceneggiatore Chiaki J. Konaka e il regista Ryutaro Nakamura uniscono le forze per dare origine a una delle opere più significative del genere cyberpunk e dell’animazione giapponese in generale: nel 1998 va così in onda “Serial Experiments Lain”, anime di tredici episodi realizzato dallo studio Triangle Staff.
La trama vede come protagonista Lain Iwakura, una studentessa timida e riservata senza molti amici. Un giorno la ragazza (e come lei altri compagni di classe) riceve una mail da Chisa Yomoda, una sua coetanea suicidatasi tempo prima che afferma di essere viva all’interno del mondo virtuale chiamato “Wired”. Lain decide allora di riesumare il suo vecchio Navi e incomincia ad addentrarsi sempre più nell’oscuro mondo del web.
Di sicuro non è facile approcciarsi a un’opera come “Serial Experiments Lain” che, con la sua narrazione abbastanza ostica, non si presenta come un prodotto atto a soddisfare le masse in cerca di puro intrattenimento. Ma, se non disdegnate gli anime di nicchia ad alto livello contenutistico, allora la serie è un must da guardare almeno una volta nella vita. In soli tredici episodi, infatti, l’opera riesce ad affrontare un numero impressionante di tematiche, usando come punto di riferimento e termine di paragone il mondo virtuale e le problematiche ad esso legate. Oltre a soffermarsi su questioni come la dipendenza dal web, il rifugio in un universo diverso da quello reale, la nociva sovrapposizione di due realtà che dovrebbero rimanere separate o la diffusione di rumor che rovinano per sempre la vita di qualcuno, “Serial Experiments Lain” usa le nuove tecnologie per ricollegarsi a concetti etici, filosofici e teologici: ecco quindi che la creazione di un network accessibile senza l’ausilio di apparecchi elettronici trova il suo corrispettivo nella plasmazione di una coscienza collettiva libera da supporti fisici quali i corpi; ecco che l’essenza di un individuo e i ricordi ad esso collegati vengono accostati a una mera registrazione che può essere cancellata e ricreata senza difficoltà alcuna; ecco che l’adorazione da parte di un gruppo di fedeli arriva a confermare l’esistenza di una divinità nello stesso modo in cui una voce messa in giro da qualcuno viene propugnata da un certo numero di fervidi sostenitori.
A quest’ottimo scenario si aggiunge inoltre la profonda introspezione psicologica di cui sarà oggetto la protagonista: tramite la scoperta di verità scioccanti, Lain dovrà infatti far fronte a lati di sé stessa che nemmeno conosceva e si interrogherà più volte su quale sia il suo vero Io, se quello che lei effettivamente conosce o quello con il quale è conosciuta da tutti sul Wired. Anche gli altri personaggi, tra i quali i familiari della ragazza o la sua amica Arisu/Alice, vengono caratterizzati a sufficienza, ma di sicuro è Lain l’unica a beneficiare di un approfondimento tanto complesso e ricco di sfaccettature.
A raccontarci nella maniera più adeguata una storia tanto angosciante e surreale, ci pensa un comparto tecnico curato nei minimi dettagli. La regia di Ryutaro Nakamura predilige una narrazione lenta e silenziosa, in cui le scene prive di dialoghi, oltre ad essere incredibilmente esplicative, contribuiscono alla creazione di un’atmosfera opprimente e disturbante. La soundtrack è formata da tracce ora martellanti ora ricche di assoli di chitarra distorti, e si alterna spesso all’utilizzo di effetti sonori prolungati come il ronzio prodotto dalle apparecchiature elettriche. Il comparto visivo, sicuramente non da meno, propone sfondi luminosi e desolati, in cui un accecante bianco contrasta con ombre nere in cui è possibile intravedere delle macchie somiglianti a pozze di sangue (che stanno forse a rappresentare il Wired); in eguale quantità sono presenti ambientazioni cupe e claustrofobiche in cui spicca la luce accecante prodotta dal monitor, scenari notturni disseminati di lampioni e luci al neon, nightclub in cui effetti stroboscopici ricreano perfettamente il clima tipico delle discoteche. Da ricordare inoltre l’uso di immagini astratte e psichedeliche che accentuano le atmosfere alienanti prodotte dal web. Menzione d’onore, infine, per la malinconica ma affascinante opening “Duvet” eseguita dai Bôa.
In conclusione, “Serial Experiments Lain” è un’opera singolare e di difficile comprensione, ma che guardata con la dovuta attenzione è in grado di fornire spunti di riflessione non di poco conto. Le varie tematiche affrontate, tra l’altro, risultano ancora più significative nel panorama odierno, dove le problematiche legate al mondo virtuale sono certamente più consistenti rispetto all’anno di produzione della serie. Voto: 10.
La trama vede come protagonista Lain Iwakura, una studentessa timida e riservata senza molti amici. Un giorno la ragazza (e come lei altri compagni di classe) riceve una mail da Chisa Yomoda, una sua coetanea suicidatasi tempo prima che afferma di essere viva all’interno del mondo virtuale chiamato “Wired”. Lain decide allora di riesumare il suo vecchio Navi e incomincia ad addentrarsi sempre più nell’oscuro mondo del web.
Di sicuro non è facile approcciarsi a un’opera come “Serial Experiments Lain” che, con la sua narrazione abbastanza ostica, non si presenta come un prodotto atto a soddisfare le masse in cerca di puro intrattenimento. Ma, se non disdegnate gli anime di nicchia ad alto livello contenutistico, allora la serie è un must da guardare almeno una volta nella vita. In soli tredici episodi, infatti, l’opera riesce ad affrontare un numero impressionante di tematiche, usando come punto di riferimento e termine di paragone il mondo virtuale e le problematiche ad esso legate. Oltre a soffermarsi su questioni come la dipendenza dal web, il rifugio in un universo diverso da quello reale, la nociva sovrapposizione di due realtà che dovrebbero rimanere separate o la diffusione di rumor che rovinano per sempre la vita di qualcuno, “Serial Experiments Lain” usa le nuove tecnologie per ricollegarsi a concetti etici, filosofici e teologici: ecco quindi che la creazione di un network accessibile senza l’ausilio di apparecchi elettronici trova il suo corrispettivo nella plasmazione di una coscienza collettiva libera da supporti fisici quali i corpi; ecco che l’essenza di un individuo e i ricordi ad esso collegati vengono accostati a una mera registrazione che può essere cancellata e ricreata senza difficoltà alcuna; ecco che l’adorazione da parte di un gruppo di fedeli arriva a confermare l’esistenza di una divinità nello stesso modo in cui una voce messa in giro da qualcuno viene propugnata da un certo numero di fervidi sostenitori.
A quest’ottimo scenario si aggiunge inoltre la profonda introspezione psicologica di cui sarà oggetto la protagonista: tramite la scoperta di verità scioccanti, Lain dovrà infatti far fronte a lati di sé stessa che nemmeno conosceva e si interrogherà più volte su quale sia il suo vero Io, se quello che lei effettivamente conosce o quello con il quale è conosciuta da tutti sul Wired. Anche gli altri personaggi, tra i quali i familiari della ragazza o la sua amica Arisu/Alice, vengono caratterizzati a sufficienza, ma di sicuro è Lain l’unica a beneficiare di un approfondimento tanto complesso e ricco di sfaccettature.
A raccontarci nella maniera più adeguata una storia tanto angosciante e surreale, ci pensa un comparto tecnico curato nei minimi dettagli. La regia di Ryutaro Nakamura predilige una narrazione lenta e silenziosa, in cui le scene prive di dialoghi, oltre ad essere incredibilmente esplicative, contribuiscono alla creazione di un’atmosfera opprimente e disturbante. La soundtrack è formata da tracce ora martellanti ora ricche di assoli di chitarra distorti, e si alterna spesso all’utilizzo di effetti sonori prolungati come il ronzio prodotto dalle apparecchiature elettriche. Il comparto visivo, sicuramente non da meno, propone sfondi luminosi e desolati, in cui un accecante bianco contrasta con ombre nere in cui è possibile intravedere delle macchie somiglianti a pozze di sangue (che stanno forse a rappresentare il Wired); in eguale quantità sono presenti ambientazioni cupe e claustrofobiche in cui spicca la luce accecante prodotta dal monitor, scenari notturni disseminati di lampioni e luci al neon, nightclub in cui effetti stroboscopici ricreano perfettamente il clima tipico delle discoteche. Da ricordare inoltre l’uso di immagini astratte e psichedeliche che accentuano le atmosfere alienanti prodotte dal web. Menzione d’onore, infine, per la malinconica ma affascinante opening “Duvet” eseguita dai Bôa.
In conclusione, “Serial Experiments Lain” è un’opera singolare e di difficile comprensione, ma che guardata con la dovuta attenzione è in grado di fornire spunti di riflessione non di poco conto. Le varie tematiche affrontate, tra l’altro, risultano ancora più significative nel panorama odierno, dove le problematiche legate al mondo virtuale sono certamente più consistenti rispetto all’anno di produzione della serie. Voto: 10.
Sonny Boy mi è piaciuto molto l'inizio per poi perdersi successivamente.
Di Tokyo Revengers... Si potrebbe dire tanto. Concordo sul protagonista odioso a cui vorrei dare un senso...
Di Sonny Boy, per quanto possa apprezzarne le peculiarità, non lo reputo il 'capolavoro' espresso in fase di recensione, come altri opere prima di lui ha il difetto di perdersi su se stesso, si passa dall'autoconclusivo delle tematiche trattate dai singoli episodi ad una trama orizzontale che non risulta mai comprensibile, con paradossi che vengono fuori insieme a delle incongruenze, che forzano ahimè il plot verso la fine.
Prodotto originale, ma che non mi ha convinto in pieno.
Odio il protagonista, odio il fatto che ci siano dei tredicenni che si atteggiano a boss malavitosi, odio il fatto che ci sia lo stesso plot per ogni nuovo evento, di una monotonia unica. Ma allo stesso tempo non riesco a non leggerlo, forse è proprio tutto questo odio che mi attira nella lettura o la speranza che accada qualcosa di diverso.
Semmai riprende la tematica dei bosozoku le bande di motociclisti e gli anni della contestazione.
Come a molte persone non piace worst è normale che non piaccia tokyo revengers. Fa parte di un genere che interessa ad solo ad una fetta di lettori. Io adoro l'ignoranza di crows, le gare di shonan, la comicitá in due come noi.
Lain è particolare, sicuramente innovativo ai tempi, fa un bell'effetto fattanza in alcune scene, secondo me ci sta. Mi mancano gli ultimi episodi, prima o poi lo finirò
Sonny Boy nel complesso mi è piaciuto, interessante, strano, originale, ma forse un po' troppo pretenzioso. Non lo considero un capolavoro, ma non mi è dispiaciuto seguirlo in una stagione estiva molto povera.
Tokyo revengers invece non fa proprio per me...
Su Tokyo Revengers il mio parere l'ho già detto. E' una di quelle serie che sono molto amate più per i personaggi che per altro, non c'è niente di male e tutto questo disprezzo mi sembra eccessivo. Fa quello che deve, ovvero intrattenere. Nonostante l'adattamento animato non può competere con il manga, spero lo stesso che continui.
Lain è opera che ho amato tantissimo, la opening mi capita di riascoltarla spesso e... quel riferimento alla desolazione di quella luce bianca nella recensione mi ha fatto venire voglia di rivedere la serie
Sonny boy mi incuriosisce, non l'avevo iniziata subito: ho preferito attendere la fine, graficamente mi era sembrata interessante dal trailer, la recensione mi sembra invitante e soprattutto il riferimento a un mondo caratterizzato da elementi degni dei peggiori "trip da acidi" alimenta la mia curiosità.
E...Tokyo Revengers in realtà non mi ispira, però ho letto con gran divertimento la recensione!
I tre citati per ultimo sono una dozzina di spanne sopra Tokyo Revengers, sia per realtà che per caratterizzazione dei personaggi. Non li metterei sullo stesso piano. Di Eichici Onizuka ce ne sarà sempre uno. Cmq una cosa che va detta su Tokyo è che lo styling(modi di vestire e acconciature varie) dei personaggi è veramente fatto bene.
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