Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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I Racconti di Terramare
7.5/10
Correva il 2006, anno storico in cui il cielo si tingeva di blu sopra Berlino, quando nelle sale giapponesi uscì “I Racconti di Terramare”, prima regia di Goro Miyazaki, figlio del più celebre Hayao Miyazaki, regista di fama internazionale, che con le sue pellicole ha segnato la generazione di adolescenti nati a cavallo tra gli anni ’80 e i primi anni ‘00. In realtà, come forse alcuni di voi sapranno, molto prima della pubblicazione di quest’opera, Goro non era per nulla incline a seguire le orme del padre, fermamente convinto che non sarebbe mai riuscito a raggiungere il suo stesso livello, e come dargli torto. Per questo motivo, raggiunta la maggiore età, si iscrisse alla facoltà di architettura e una volta laureatosi, progettò il famoso Museo Ghibli a Mikata. Ad un certo punto della sua vita, giunse però una svolta inattesa. Toshio Suzuki, manager dello Studio Ghibli e storico collaboratore del padre Hayao, impressionato dalle capacità organizzative e decisionali del giovane, lo convinse ad aiutarlo a creare un film d’animazione. Nonostante il parere contrario del padre Hayao, Suzuki assegnò a Goro la realizzazione degli storyboard dell'adattamento animato del romanzo “Tales of Earthsea” di Ursula Le Guin e, a dispetto di incertezze e paure iniziali, il lavoro di Goro venne parecchio apprezzato da Suzuki che, a quel punto, decise di assegnargli anche la regia del film. Nacque così “I Racconti di Terramare”, prima pellicola diretta da Goro Miyazaki, ancora oggi motivo di violente discussioni, tra i suoi detrattori, che lo ritengono "una cagata pazzesca" e i suoi sostenitori, che lo considerano, invece, un buon film.
Periodo storico imprecisato. Il mondo vive un periodo di pace e tranquillità, dopo l’aspra guerra tra uomini e draghi, che lo hanno sconvolto. La storia è ambientata in un arcipelago medievaleggiante, dove quella pace, conquistata con tanta fatica e sudore, sembra vacillare con la ricomparsa dei draghi. Questi ultimi, infatti, hanno ripreso a popolare i cieli e a combattersi tra di loro. Da questo momento, iniziano a manifestarsi pestilenze e malattie di vario genere, che uccidono bestie e uomini. Protagonista della storia è Arren, figlio del re, di un regno mai nominato. Quando siamo alle prime battute del film, il giovane si macchia di un delitto indicibile e fugge da palazzo. In viaggio senza meta, fa la conoscenza di Ged, detto Sparviere, l’ultimo arci mago rimasto, che lo prende sotto la sua ala protettiva. Da questi assunti di partenza, ha inizio l'avventura dei nostri due protagonisti, che lungo la loro via incontreranno nuovi personaggi e dovranno vedersela con un altro potente e oscuro mago, Aracne.
A dispetto di tutte le pessime recensioni lette e commenti ben lungi dall’essere lusinghieri, che mi avevano leggermente intimorito prima della sua visione, ho trovato questo film stranamente piacevole. Chiamatelo effetto sorpresa, dovuto al fatto che mi aspettavo meno di zero, chiamatelo effetto "non ci capisco una mazza" o "dipendenza da Ghibli", ma, conto ogni mia più rosea aspettativa, ho molto apprezzato “I Racconti di Terramare”, di cui, ci tengo a precisare, non ho letto l’originale a opera di Ursula Le Guin, che tutti reputano superiore e per nulla paragonabile alla mediocre controparte animata. Il film scorre bene, merito di una narrazione fluida, da molti criticata per i suoi, a me poco evidenti, buchi di trama disseminati per tutto il film. Giudizio, probabilmente, dovuto alle notevoli differenze con il romanzo da cui è tratto. Nonostante ciò, riconosco anche io che il film ha vissuto un’esperienza travagliata e che, in due punti cruciali della storia, ovvero l’incipit e il finale, pecchi di chiarezza. L’indicibile delitto di cui si macchia Arren, che rappresenta l’antefatto della storia, giunge ad una spiegazione molto poco soddisfacente, per giunta a film quasi concluso. Il finale, fin troppo frettoloso, vede ricomparire i draghi, queste figure misteriose di cui si racconta solo all’inizio e alla fine e di cui mai più si parla all’interno del film. Il blocco centrale, invece, è più che solido ed è qui che si consumano i discorsi filosofici e più profondi dell’intera opera. Si discorre della vita, della morte e della necessità di vivere, pur sapendo che un giorno, su tutto questo, calerà per sempre il sipario. Un vero e proprio inno alla vita, degna di essere vissuta e tanto preziosa perché finita. A tal proposito, mi sembra doveroso riportare il discorso di Sparviere: “Devi ascoltarmi Arren. A questo mondo, esseri che continuino a vivere per l'eternità non possono esistere. La cognizione dell'uomo che un giorno arriverà la propria morte è il meraviglioso dono che tutti abbiamo ricevuto dal cielo. Ciò che possiamo avere per noi, sono tutte e soltanto cose che un giorno dovremmo perdere. In questo è il seme della sofferenza, ma anche un grande tesoro, e così pure la misericordia del cielo, e anche la nostra vita”.
Si parla dell’uomo e del suo rapporto così controverso con la natura, grande must dei film targati Ghibli. Soprattutto, però, si discute sui concetti di bene e male, due facce della stessa medaglia, che non possono fare a meno l’uno dell’altro e la cui disquisizione mi ha tanto ricordato la frase di Sirius Black: "Tutti abbiamo sia luce che oscurità dentro di noi. Ciò che conta è da che parte scegliamo di agire. È questo quello che siamo." Non sarà certo merito di Goro, ma è lampante che il film attinga da una materia narrativa alquanto intrigante e matura. Al netto, dunque, di alcuni errori grossolani nella sceneggiatura e chiarimenti, o meglio approfondimenti, mancati, che avrebbero arricchito la storia, il prodotto finale resta comunque di buona fattura e molto lo si deve alle animazioni, stupende ed incantevoli come sempre. Leggermente sottotono, a mio parere, invece, il comparto musicale, incapace di regalare allo spettatore una colonna sonora degna di essere ricordata, ma di cui ho apprezzato le musiche molto rievocative della trilogia de “Il Signore degli Anelli”.
Per concludere, oserei dire che siamo dinanzi al classico caso di fama, in questo caso pessima, che precede il film. “I Racconti di Terramare”, a cui ho preferito il successivo “La Collina dei Papaveri”, non sarà di certo un capolavoro, ma occhio a non farvi ingannare, né irretire da ciò che leggete in rete. D’altronde, lo sanno tutti che non bisogna giudicare un libro dalla copertina.
Periodo storico imprecisato. Il mondo vive un periodo di pace e tranquillità, dopo l’aspra guerra tra uomini e draghi, che lo hanno sconvolto. La storia è ambientata in un arcipelago medievaleggiante, dove quella pace, conquistata con tanta fatica e sudore, sembra vacillare con la ricomparsa dei draghi. Questi ultimi, infatti, hanno ripreso a popolare i cieli e a combattersi tra di loro. Da questo momento, iniziano a manifestarsi pestilenze e malattie di vario genere, che uccidono bestie e uomini. Protagonista della storia è Arren, figlio del re, di un regno mai nominato. Quando siamo alle prime battute del film, il giovane si macchia di un delitto indicibile e fugge da palazzo. In viaggio senza meta, fa la conoscenza di Ged, detto Sparviere, l’ultimo arci mago rimasto, che lo prende sotto la sua ala protettiva. Da questi assunti di partenza, ha inizio l'avventura dei nostri due protagonisti, che lungo la loro via incontreranno nuovi personaggi e dovranno vedersela con un altro potente e oscuro mago, Aracne.
A dispetto di tutte le pessime recensioni lette e commenti ben lungi dall’essere lusinghieri, che mi avevano leggermente intimorito prima della sua visione, ho trovato questo film stranamente piacevole. Chiamatelo effetto sorpresa, dovuto al fatto che mi aspettavo meno di zero, chiamatelo effetto "non ci capisco una mazza" o "dipendenza da Ghibli", ma, conto ogni mia più rosea aspettativa, ho molto apprezzato “I Racconti di Terramare”, di cui, ci tengo a precisare, non ho letto l’originale a opera di Ursula Le Guin, che tutti reputano superiore e per nulla paragonabile alla mediocre controparte animata. Il film scorre bene, merito di una narrazione fluida, da molti criticata per i suoi, a me poco evidenti, buchi di trama disseminati per tutto il film. Giudizio, probabilmente, dovuto alle notevoli differenze con il romanzo da cui è tratto. Nonostante ciò, riconosco anche io che il film ha vissuto un’esperienza travagliata e che, in due punti cruciali della storia, ovvero l’incipit e il finale, pecchi di chiarezza. L’indicibile delitto di cui si macchia Arren, che rappresenta l’antefatto della storia, giunge ad una spiegazione molto poco soddisfacente, per giunta a film quasi concluso. Il finale, fin troppo frettoloso, vede ricomparire i draghi, queste figure misteriose di cui si racconta solo all’inizio e alla fine e di cui mai più si parla all’interno del film. Il blocco centrale, invece, è più che solido ed è qui che si consumano i discorsi filosofici e più profondi dell’intera opera. Si discorre della vita, della morte e della necessità di vivere, pur sapendo che un giorno, su tutto questo, calerà per sempre il sipario. Un vero e proprio inno alla vita, degna di essere vissuta e tanto preziosa perché finita. A tal proposito, mi sembra doveroso riportare il discorso di Sparviere: “Devi ascoltarmi Arren. A questo mondo, esseri che continuino a vivere per l'eternità non possono esistere. La cognizione dell'uomo che un giorno arriverà la propria morte è il meraviglioso dono che tutti abbiamo ricevuto dal cielo. Ciò che possiamo avere per noi, sono tutte e soltanto cose che un giorno dovremmo perdere. In questo è il seme della sofferenza, ma anche un grande tesoro, e così pure la misericordia del cielo, e anche la nostra vita”.
Si parla dell’uomo e del suo rapporto così controverso con la natura, grande must dei film targati Ghibli. Soprattutto, però, si discute sui concetti di bene e male, due facce della stessa medaglia, che non possono fare a meno l’uno dell’altro e la cui disquisizione mi ha tanto ricordato la frase di Sirius Black: "Tutti abbiamo sia luce che oscurità dentro di noi. Ciò che conta è da che parte scegliamo di agire. È questo quello che siamo." Non sarà certo merito di Goro, ma è lampante che il film attinga da una materia narrativa alquanto intrigante e matura. Al netto, dunque, di alcuni errori grossolani nella sceneggiatura e chiarimenti, o meglio approfondimenti, mancati, che avrebbero arricchito la storia, il prodotto finale resta comunque di buona fattura e molto lo si deve alle animazioni, stupende ed incantevoli come sempre. Leggermente sottotono, a mio parere, invece, il comparto musicale, incapace di regalare allo spettatore una colonna sonora degna di essere ricordata, ma di cui ho apprezzato le musiche molto rievocative della trilogia de “Il Signore degli Anelli”.
Per concludere, oserei dire che siamo dinanzi al classico caso di fama, in questo caso pessima, che precede il film. “I Racconti di Terramare”, a cui ho preferito il successivo “La Collina dei Papaveri”, non sarà di certo un capolavoro, ma occhio a non farvi ingannare, né irretire da ciò che leggete in rete. D’altronde, lo sanno tutti che non bisogna giudicare un libro dalla copertina.
Vampire in the Garden
4.0/10
Il limite di un ONA è quello della claustrofobia. Immaginate una situazione classica nella quale i nostri eroi cercano di uscire da una stanza, ma ogni espediente è più cruento dell’altro e l’azione è così concitata che i dialoghi sono sconnessi, le pause sono quasi insensate e il capolinea desiderato pare via via più scontato, meno sentito; gli stessi protagonisti dell’escape risulterebbero piatti e, a parte le loro motivazioni iniziali personalizzate, finirebbero con l’essere tutti uguali, alla fine, affamati come sono di libertà.
“Vampire in the Garden” soffre proprio di questo, ma procediamo con metodo.
Siamo in un mondo apocalittico nel quale vivono vampiri e umani, che, naturalmente, è inconcepibile riescano a convivere, anzi, il conflitto è più che aperto. Gli umani sono assediati ma non domi, i vampiri si credono padroni del campo, ma quelle mosche fastidiose degli umani stessi non fanno che creare loro problemi, inventando robetta mecha pronta all’uso.
Abbiamo i classici cacciatori di vampiri e la solita, nota, proibizione, che appare in ogni anime vampiresco di recente: il divieto per gli umani di ballare o produrre musica, vocalmente o tramite strumenti. Il motivo è la grandissima sensibilità ai suoni dei vampiri e anche il fatto che quest’arte è appannaggio del nemico: sono proprio i vampiri a cantare, ballare, dare feste, a vivere da nababbi, diversamente dagli esseri umani la cui vita è grigia, senza gioia, in preda alla paura e ad una gerarchia che dà sì sicurezza, ma pure una greve serenità.
In un tale contesto belligerante emergono le figure di Fine e Momo.
Fine è la regina dei vampiri, che, diversamente dai membri della sua specie, coltiva un sogno: quello di un mondo nel quale umani e vampiri possano convivere pacificamente. La sua volontà è tanta e tale che s’indebolisce sempre di più, ma non vuole assumere sangue umano. Durante la narrazione, in flashback malfatti, emergerà un passato doloroso, nel quale si capirà il motivo di questa sua aspirazione.
Momo è figlia di una comandante umana, che condanna il grigiore e la violenza nella quale vive. La scoperta di un carillon la spingerà a rompere quella gabbia di convenzioni strettissime che le impedivano di esprimere la sua vera natura e di essere libera.
L’azione ha momenti di una lentezza mortale, caratterizzati da musiche di sottofondo nelle quali vediamo le protagoniste interagire e conoscersi, a momenti di lotte furiose nelle quali tutto appare caotico e la regia stessa diventa strabica: a furia di avere come focus o Fine o Momo, finisce col tralasciare pesantemente le situazioni di conflitto, tratteggiando grossolanamente le motivazioni delle parti e non facendo così emergere i personaggi secondari, né dando profondità al worldbuilding. La laconicità dei secondari, aggiunta al loro agire piatto, porta a sorprendersi, quasi quasi, quando si comportano in maniera umana e comprensiva. Risultano così tanto sacrificati, che il messaggio di quest’anime pare portato all’eccesso.
Le due protagoniste cercano una via di fuga da una guerra logorante e la trovano in due elementi: la fuga e la musica.
La musica ha valore salvifico e catartico: salvifico perché spinge le due protagoniste a cercarsi, a trovarsi e a condividere un sogno, un rakuen (tipo “Wolf’s Rain”, c’è pure tanto freddo e tanta neve!) nel quale vampiri e umani convivono, producendo musica assieme. La brutalità grigia in cui vive Momo la spinge ad adottare la musica come ancora di salvezza, e un fatto del tutto fortuito la spingerà a conoscere Fine, la quale coltivava la musica con sfumature di ricordo, rimpianto e rinascita. La stessa musica farà da legame e supporto alle due ragazze, spingendole a conoscersi, a rompere quel muro che la cultura del conflitto ha creato tra di loro.
La fuga porta le protagoniste in situazioni di disagio e ulteriore conflitto. Pare che gli unici momenti sereni siano quelli che vivono assieme, in solitudine. E va benissimo che quest’anime parli di un sentimento più profondo dell’amicizia, lo si può intuire, però ci voleva più coraggio nell’espressione dei sentimenti, nulla di troppo plateale, ma almeno indizi più chiari. Gli stessi flashback di Fine non aiutano a capire se la profondità dei suoi sentimenti, che l’ha spinta a non bere più sangue, fosse legata al fatto che aveva perso un’amica o un amore.
Inoltre, la scelta di sottrarsi al conflitto per cercare un luogo di pace può essere vista come deviante; se da una parte c’è l’eroismo di chi rompe uno schema e la volontà di cercare un luogo di libertà, dall’altra, adottando il punto di vista della madre di Momo o di Allegro, “amico” di Fine e suo “custode”, stanno solo e semplicemente scappando, motivo per cui vanno trovate e rimesse in riga. Allegro deve recuperare una principessa e un utero, mentre la madre di Momo deve portare alla ragione una figlia che ama, ma che le sta facendo perdere la faccia, visto il suo ruolo di spicco molto soggetto a critiche feroci da parte di vari detrattori.
La domanda allora è: “La fuga è un atto eroico od egoista? Inoltre, come fanno due ragazze a diventare così importanti in un conflitto già in essere? Questi benedetti inseguitori avevano così prurito alle mani di avere queste due poveracce tra le grinfie e di trascinarle per i capelli a casa?”
L’eccesso narrativo in questo senso non è credibile, perché la parte bellica pare un lenzuolo colorato pieno di grinze, mal disegnato, che si muove al vento rivelando la sua natura effimera, sfilacciata, provvisoria.
A livello narrativo assistiamo a un alternarsi di scene in cui le protagoniste sono sole, a momenti in cui gli inseguitori si scalmanano a trovarle. Se da una parte il viaggio delle ragazze permette di vedere luoghi tragici di frontiera, dall’altro fa risultare questi contesti caotici, affollati e mal gestiti. In queste situazioni accadono cose incredibili: Momo, in una cittadina di vampiri affamati, ne esce integra; le sparano addosso, ma non la colpiscono; cade da una rupe, ed è bella intera; corre più veloce di un vampiro assai motivato; trova casupole nel nulla; risulta immune, per volontà di copione, mi sa, a fame, freddo, esplosioni e proiettili. E questo non perché sia corazzata (un addestramento non basterebbe mai a dare simili abilità soprannaturali), ma per motivi di regia stretta: se lei non era attiva e Fine stava là accasciata, sfinita dalla mancanza di sangue, chi tirava avanti la carretta? E si susseguono scene insensate in cui la nostra eroina subisce prima un’esplosione, poi una bella fuga adrenalinica, poi si gela per bene le idee senza andare in ipotermia, per riuscire, infine, a far fuori un vampiro più forte, più letale, più cattivo di lei.
E Fine? Sempre in situazioni estreme accadono due cose: o Fine si accascia, costringendo Momo a fare il lavoro sporco, o resuscita dalla sua stanchezza mortale, spuntando tipo da una cassa inchiodata e percependo dov’è la nostra Momo in un battito di ciglia. E pare ridicolo il suo tentativo di salvare Momo, quando l’umana è più che in grado di badare a sé stessa, per quanto paia deboluccia e indifesa.
In questo anime, poi, le coincidenze sono precise, ma telefonate! Ad esempio, quando le nostre trovano un certo qual luogo, indicato da tutti come appartenente al regno delle favole belle, chissà perché gli inseguitori trovano il tizio che rivela loro l’ubicazione della location, rivelando che la sanno tutti.
II finale mette in luce tutte le problematiche dell’ONA. Abbiamo tutti in un luogo, guerriglia di qua e di là (mi suona un pezzo dell’opening italiana de “La stella della Senna” che fa: ‘Colpi di qua, colpi di là, chi vincerà, chi vincerà?’), gli inseguitori con le mani artigliate sulle nostre eroine...
Se l’anime avesse avuto un buono svolgimento, forse, non lo nego, sarebbe stata una chiusa più che buona, ma, con tutti i difetti finora elencati, è risultato noioso, insensato, a tratti ridicolo (tipo l’exploit di Allegro) e, alla fine dei giochi, melenso.
Quella caverna era così voluta che pare apparsa dal nulla, perfetta com’è, luogo di una scena strappalacrime che era pilotatissima. Come Momo abbia poi trasportato quel corpo sanguinolento e gommoso è tutto un mistero.
La resa dei conti con la madre poteva essere gestita meglio, ma la povera donna (è il caso di dirlo) è rimasta nell’ombra, mentre la figlia, volontà di regia, faceva il monumento di sé stessa e delle sue scelte. Mi è venuto quel deja-vu di bambina, in cui guardavo palate di anime e in essi le protagoniste, più piccole degli adulti, avevano sempre ragione e parlavano di più, mentre l’adulto di turno era imperioso, laconico e aveva sempre torto. Un finale infantile, a tratti, caratterizzato da quell’egocentrismo del bambino in cui il mondo deve girare attorno a lui, gli altri non meritano diritto di replica, anzi, come aprono la bocca, sono sempre in torto.
E finito il tempo della storia, si scopre un epilogo da cammeo che non ha molto capo e molta coda, viste le difficoltà oggettive e il tempo che ci sarebbe teoricamente voluto a raggiungere quel risultato.
La grafica non brilla: c’è un 3D esagerato dei mezzi di trasporto, i fondali sono stupendi, ma mal si amalgamano con il chara design davvero piatto, con occhi troppo grandi. O come i vampiri, dal volto piatto e questa massa di capelli indefinita dall’attaccatura a zigzag. La stessa vera natura dei vampiri, tipo grosso coniglione bianco e sanguinario, è originale ma non così convincente. C’è originalità rispetto al nero pipistrello di storica memoria, però.
La soundtrack è stupenda, accompagnata dal dolcissimo carillon (il cui significato simbolico può essere inteso come il fil rouge della vicenda). L’ending è orecchiabile, un eccellente lavoro di un compositore e musicista che ha prodotto soundtrack per altri anime, Yoshihiro Ike. Le voci femminili che cantano sono incantevoli e rendono l’atmosfera della vicenda.
Concludendo, si percepiscono temi importanti dietro questa narrazione fulminea, ma lo svolgimento della vicenda e il trattamento impari dei personaggi, nonché il ritmo narrativo a tratti soporifero (pure nelle azioni belliche) e un finale mal gestito (o forse troppo prevedibile) fanno sì che quest’opera, inevitabilmente, scada. Anzi, aggiungo che, se al posto di vampiri fossero state altre bestie brutte, la storia poteva essere la stessa, uguale uguale.
Il fatto che quest’ONA non abbia avuto tempo narrativo equilibrato e spazio da dare ai suoi protagonisti per non renderli così piatti e che abbia poi avuto la sfortuna di seguire un filone, quello dei vampiri, che è sia arcinoto che pericoloso da innovare troppo, fa sì che non possa avere una valutazione alta, pur avendo io ben compreso la difficoltà di riassumere una vicenda in cinque episodi.
“Vampire in the Garden” soffre proprio di questo, ma procediamo con metodo.
Siamo in un mondo apocalittico nel quale vivono vampiri e umani, che, naturalmente, è inconcepibile riescano a convivere, anzi, il conflitto è più che aperto. Gli umani sono assediati ma non domi, i vampiri si credono padroni del campo, ma quelle mosche fastidiose degli umani stessi non fanno che creare loro problemi, inventando robetta mecha pronta all’uso.
Abbiamo i classici cacciatori di vampiri e la solita, nota, proibizione, che appare in ogni anime vampiresco di recente: il divieto per gli umani di ballare o produrre musica, vocalmente o tramite strumenti. Il motivo è la grandissima sensibilità ai suoni dei vampiri e anche il fatto che quest’arte è appannaggio del nemico: sono proprio i vampiri a cantare, ballare, dare feste, a vivere da nababbi, diversamente dagli esseri umani la cui vita è grigia, senza gioia, in preda alla paura e ad una gerarchia che dà sì sicurezza, ma pure una greve serenità.
In un tale contesto belligerante emergono le figure di Fine e Momo.
Fine è la regina dei vampiri, che, diversamente dai membri della sua specie, coltiva un sogno: quello di un mondo nel quale umani e vampiri possano convivere pacificamente. La sua volontà è tanta e tale che s’indebolisce sempre di più, ma non vuole assumere sangue umano. Durante la narrazione, in flashback malfatti, emergerà un passato doloroso, nel quale si capirà il motivo di questa sua aspirazione.
Momo è figlia di una comandante umana, che condanna il grigiore e la violenza nella quale vive. La scoperta di un carillon la spingerà a rompere quella gabbia di convenzioni strettissime che le impedivano di esprimere la sua vera natura e di essere libera.
L’azione ha momenti di una lentezza mortale, caratterizzati da musiche di sottofondo nelle quali vediamo le protagoniste interagire e conoscersi, a momenti di lotte furiose nelle quali tutto appare caotico e la regia stessa diventa strabica: a furia di avere come focus o Fine o Momo, finisce col tralasciare pesantemente le situazioni di conflitto, tratteggiando grossolanamente le motivazioni delle parti e non facendo così emergere i personaggi secondari, né dando profondità al worldbuilding. La laconicità dei secondari, aggiunta al loro agire piatto, porta a sorprendersi, quasi quasi, quando si comportano in maniera umana e comprensiva. Risultano così tanto sacrificati, che il messaggio di quest’anime pare portato all’eccesso.
Le due protagoniste cercano una via di fuga da una guerra logorante e la trovano in due elementi: la fuga e la musica.
La musica ha valore salvifico e catartico: salvifico perché spinge le due protagoniste a cercarsi, a trovarsi e a condividere un sogno, un rakuen (tipo “Wolf’s Rain”, c’è pure tanto freddo e tanta neve!) nel quale vampiri e umani convivono, producendo musica assieme. La brutalità grigia in cui vive Momo la spinge ad adottare la musica come ancora di salvezza, e un fatto del tutto fortuito la spingerà a conoscere Fine, la quale coltivava la musica con sfumature di ricordo, rimpianto e rinascita. La stessa musica farà da legame e supporto alle due ragazze, spingendole a conoscersi, a rompere quel muro che la cultura del conflitto ha creato tra di loro.
La fuga porta le protagoniste in situazioni di disagio e ulteriore conflitto. Pare che gli unici momenti sereni siano quelli che vivono assieme, in solitudine. E va benissimo che quest’anime parli di un sentimento più profondo dell’amicizia, lo si può intuire, però ci voleva più coraggio nell’espressione dei sentimenti, nulla di troppo plateale, ma almeno indizi più chiari. Gli stessi flashback di Fine non aiutano a capire se la profondità dei suoi sentimenti, che l’ha spinta a non bere più sangue, fosse legata al fatto che aveva perso un’amica o un amore.
Inoltre, la scelta di sottrarsi al conflitto per cercare un luogo di pace può essere vista come deviante; se da una parte c’è l’eroismo di chi rompe uno schema e la volontà di cercare un luogo di libertà, dall’altra, adottando il punto di vista della madre di Momo o di Allegro, “amico” di Fine e suo “custode”, stanno solo e semplicemente scappando, motivo per cui vanno trovate e rimesse in riga. Allegro deve recuperare una principessa e un utero, mentre la madre di Momo deve portare alla ragione una figlia che ama, ma che le sta facendo perdere la faccia, visto il suo ruolo di spicco molto soggetto a critiche feroci da parte di vari detrattori.
La domanda allora è: “La fuga è un atto eroico od egoista? Inoltre, come fanno due ragazze a diventare così importanti in un conflitto già in essere? Questi benedetti inseguitori avevano così prurito alle mani di avere queste due poveracce tra le grinfie e di trascinarle per i capelli a casa?”
L’eccesso narrativo in questo senso non è credibile, perché la parte bellica pare un lenzuolo colorato pieno di grinze, mal disegnato, che si muove al vento rivelando la sua natura effimera, sfilacciata, provvisoria.
A livello narrativo assistiamo a un alternarsi di scene in cui le protagoniste sono sole, a momenti in cui gli inseguitori si scalmanano a trovarle. Se da una parte il viaggio delle ragazze permette di vedere luoghi tragici di frontiera, dall’altro fa risultare questi contesti caotici, affollati e mal gestiti. In queste situazioni accadono cose incredibili: Momo, in una cittadina di vampiri affamati, ne esce integra; le sparano addosso, ma non la colpiscono; cade da una rupe, ed è bella intera; corre più veloce di un vampiro assai motivato; trova casupole nel nulla; risulta immune, per volontà di copione, mi sa, a fame, freddo, esplosioni e proiettili. E questo non perché sia corazzata (un addestramento non basterebbe mai a dare simili abilità soprannaturali), ma per motivi di regia stretta: se lei non era attiva e Fine stava là accasciata, sfinita dalla mancanza di sangue, chi tirava avanti la carretta? E si susseguono scene insensate in cui la nostra eroina subisce prima un’esplosione, poi una bella fuga adrenalinica, poi si gela per bene le idee senza andare in ipotermia, per riuscire, infine, a far fuori un vampiro più forte, più letale, più cattivo di lei.
E Fine? Sempre in situazioni estreme accadono due cose: o Fine si accascia, costringendo Momo a fare il lavoro sporco, o resuscita dalla sua stanchezza mortale, spuntando tipo da una cassa inchiodata e percependo dov’è la nostra Momo in un battito di ciglia. E pare ridicolo il suo tentativo di salvare Momo, quando l’umana è più che in grado di badare a sé stessa, per quanto paia deboluccia e indifesa.
In questo anime, poi, le coincidenze sono precise, ma telefonate! Ad esempio, quando le nostre trovano un certo qual luogo, indicato da tutti come appartenente al regno delle favole belle, chissà perché gli inseguitori trovano il tizio che rivela loro l’ubicazione della location, rivelando che la sanno tutti.
II finale mette in luce tutte le problematiche dell’ONA. Abbiamo tutti in un luogo, guerriglia di qua e di là (mi suona un pezzo dell’opening italiana de “La stella della Senna” che fa: ‘Colpi di qua, colpi di là, chi vincerà, chi vincerà?’), gli inseguitori con le mani artigliate sulle nostre eroine...
Se l’anime avesse avuto un buono svolgimento, forse, non lo nego, sarebbe stata una chiusa più che buona, ma, con tutti i difetti finora elencati, è risultato noioso, insensato, a tratti ridicolo (tipo l’exploit di Allegro) e, alla fine dei giochi, melenso.
Quella caverna era così voluta che pare apparsa dal nulla, perfetta com’è, luogo di una scena strappalacrime che era pilotatissima. Come Momo abbia poi trasportato quel corpo sanguinolento e gommoso è tutto un mistero.
La resa dei conti con la madre poteva essere gestita meglio, ma la povera donna (è il caso di dirlo) è rimasta nell’ombra, mentre la figlia, volontà di regia, faceva il monumento di sé stessa e delle sue scelte. Mi è venuto quel deja-vu di bambina, in cui guardavo palate di anime e in essi le protagoniste, più piccole degli adulti, avevano sempre ragione e parlavano di più, mentre l’adulto di turno era imperioso, laconico e aveva sempre torto. Un finale infantile, a tratti, caratterizzato da quell’egocentrismo del bambino in cui il mondo deve girare attorno a lui, gli altri non meritano diritto di replica, anzi, come aprono la bocca, sono sempre in torto.
E finito il tempo della storia, si scopre un epilogo da cammeo che non ha molto capo e molta coda, viste le difficoltà oggettive e il tempo che ci sarebbe teoricamente voluto a raggiungere quel risultato.
La grafica non brilla: c’è un 3D esagerato dei mezzi di trasporto, i fondali sono stupendi, ma mal si amalgamano con il chara design davvero piatto, con occhi troppo grandi. O come i vampiri, dal volto piatto e questa massa di capelli indefinita dall’attaccatura a zigzag. La stessa vera natura dei vampiri, tipo grosso coniglione bianco e sanguinario, è originale ma non così convincente. C’è originalità rispetto al nero pipistrello di storica memoria, però.
La soundtrack è stupenda, accompagnata dal dolcissimo carillon (il cui significato simbolico può essere inteso come il fil rouge della vicenda). L’ending è orecchiabile, un eccellente lavoro di un compositore e musicista che ha prodotto soundtrack per altri anime, Yoshihiro Ike. Le voci femminili che cantano sono incantevoli e rendono l’atmosfera della vicenda.
Concludendo, si percepiscono temi importanti dietro questa narrazione fulminea, ma lo svolgimento della vicenda e il trattamento impari dei personaggi, nonché il ritmo narrativo a tratti soporifero (pure nelle azioni belliche) e un finale mal gestito (o forse troppo prevedibile) fanno sì che quest’opera, inevitabilmente, scada. Anzi, aggiungo che, se al posto di vampiri fossero state altre bestie brutte, la storia poteva essere la stessa, uguale uguale.
Il fatto che quest’ONA non abbia avuto tempo narrativo equilibrato e spazio da dare ai suoi protagonisti per non renderli così piatti e che abbia poi avuto la sfortuna di seguire un filone, quello dei vampiri, che è sia arcinoto che pericoloso da innovare troppo, fa sì che non possa avere una valutazione alta, pur avendo io ben compreso la difficoltà di riassumere una vicenda in cinque episodi.
Duranki
7.0/10
GianniGreed
-
"Duranki" è un manga ideato e prodotto da Kentaro Miura e disegnato dallo Studio Gaga, ovvero il gruppo di assistenti del maestro Miura. Purtroppo, Miura è venuto a mancare nel 2021, lasciando incompiuta la sua opera omnia, "Berserk", e il neonato "Duranki", di cui sono stati realizzati solo sei capitoli.
La storia di "Duranki" ha per protagonista Usumgal, un bambino figlio di due divinità decadute e in fuga. Per proteggere il bambino, scelgono di farlo crescere in mezzo agli uomini, come un comune mortale. Tuttavia, Usumgal, che ha entrambi i sessi e un'intelligenza fuori dal comune, è destinato a grandi cose.
Il mondo in cui si svolgono le vicende della storia è a metà tra quello reale e quello fantasy: ci sono popoli realmente esistiti nel passato e miti e leggende di varie culture mescolati insieme, come i miti mesopotamici, da cui deriva il protagonista, gli dei dell'Olimpo, e persino la religione cristiana (l'arca di Noè).
Il setting creato funziona ed è accattivante.
Purtroppo, a causa della morte di Miura, il manga finisce proprio quando le vicende iniziano a farsi più interessanti, ma contro la morte non c'è molto da fare.
È stato deciso comunque di raccogliere i capitoli realizzati in un volume e permettere ai lettori di tutto il mondo di poter leggere l'ultima opera realizzata dal maestro Miura.
Per compensare la mancanza di un finale, l'editore giapponese ha deciso di includere nell'edizione in volume, tutto il materiale preparatorio di "Duranki", di quando il progetto è stato inizialmente pensato anni prima, in modo diverso e con un altro nome: "Amazones".
"Amazones" è quello che oggi si definirebbe un "isekai", quelle opere in cui il protagonista finisce per qualche motivo in un altro mondo.
Nella storia, un liceale giapponese bello come una ragazza, finisce per caso ai tempi dei miti greci, e si ritrova a combattere insieme alla tribù delle Amazzoni. Essendo una tribù di sole donne, il protagonista deve fingersi una ragazza, ma usa le sue conoscenze del futuro per aiutare le Amazzoni a creare nuove armi con cui vincere le loro battaglie.
La parte del volume dedicata ad "Amazones" presenta i vari disegni preparatori dei personaggi principali e le sceneggiature dei vari capitoli di cui sarebbe poi stata composta la storia.
La prima parte è molto dettagliata, con dialoghi tra i personaggi e descrizioni del loro aspetto e delle ambientazioni, al punto che sembra quasi di leggere un romanzo illustrato.
Man mano che la storia va avanti però, e il progetto viene abbandonato per diventare poi "Duranki", anche la sceneggiatura diventa meno dettagliata e intere parti di storia sono riassunte in poche righe.
Anche "Amazones" purtroppo è incompleta e senza finale.
Abbiamo dunque due opere incompiute raccolte in un solo volume.
Torniamo a "Duranki". Come detto all'inizio, a occuparsi dei disegni sono stati i membri dello Studio Gaga, il gruppo di disegnatori che lavoravano insieme al maestro Kentaro Miura, aiutandolo sulle tavole di "Berserk".
I disegni sono dunque di alta qualità, molto belli e curati, e sembrano davvero molto simili a quelli del compianto maestro Miura. A un esame attento e minuzioso si notano delle differenze, ma se non ci si mette con una lente d'ingrandimento, è difficile scorgerle. Il che è una buona cosa, dato che l'editore giapponese di "Berserk" ha deciso, dopo aver valutato se sospenderlo o meno, di far continuare "Berserk" affidando i disegni proprio allo Studio Gaga. Almeno dal punto di vista grafico, c'è da essere fiduciosi. Per la storia, vedremo.
In Italia, "Duranki" è stato pubblicato da Planet Manga, in un volume senza orpelli particolari, se si esclude la presenza di un mini poster pieghevole a colori, stampato su entrambi i lati con due illustrazioni diverse. Considerato però che il volume consiste di quasi trecento pagine, centosettanta di fumetto e altre cento circa della sceneggiatura iniziale, il prezzo a cui è venduto, è molto conveniente.
Da segnalare che "Duranki" è uscito anche in bundle con il numero 1 di "Berserk" con una copertina variant.
Per concludere: come ripetuto più volte, il manga in oggetto non ha un finale, al pari della sceneggiatura iniziale da cui ha avuto origine.
Perché dunque acquistare e leggere un'opera incompleta?
Questo sta al lettore deciderlo.
Ci sono persone che, come si dice, ritengono più importante il viaggio della destinazione, altri invece che pensano che leggere qualcosa d'incompleto sia uno spreco di tempo.
Non c'è una risposta esatta in questo caso.
Resta però il fatto che "Duranki" è l'ultima opera lasciataci in eredità da Kentaro Miura, un autore straordinario, che con "Berserk", il suo manga capolavoro, ha lasciato un segno indelebile nel mondo del fumetto e dell'arte. Andrebbe letto anche solo per questo.
La storia di "Duranki" ha per protagonista Usumgal, un bambino figlio di due divinità decadute e in fuga. Per proteggere il bambino, scelgono di farlo crescere in mezzo agli uomini, come un comune mortale. Tuttavia, Usumgal, che ha entrambi i sessi e un'intelligenza fuori dal comune, è destinato a grandi cose.
Il mondo in cui si svolgono le vicende della storia è a metà tra quello reale e quello fantasy: ci sono popoli realmente esistiti nel passato e miti e leggende di varie culture mescolati insieme, come i miti mesopotamici, da cui deriva il protagonista, gli dei dell'Olimpo, e persino la religione cristiana (l'arca di Noè).
Il setting creato funziona ed è accattivante.
Purtroppo, a causa della morte di Miura, il manga finisce proprio quando le vicende iniziano a farsi più interessanti, ma contro la morte non c'è molto da fare.
È stato deciso comunque di raccogliere i capitoli realizzati in un volume e permettere ai lettori di tutto il mondo di poter leggere l'ultima opera realizzata dal maestro Miura.
Per compensare la mancanza di un finale, l'editore giapponese ha deciso di includere nell'edizione in volume, tutto il materiale preparatorio di "Duranki", di quando il progetto è stato inizialmente pensato anni prima, in modo diverso e con un altro nome: "Amazones".
"Amazones" è quello che oggi si definirebbe un "isekai", quelle opere in cui il protagonista finisce per qualche motivo in un altro mondo.
Nella storia, un liceale giapponese bello come una ragazza, finisce per caso ai tempi dei miti greci, e si ritrova a combattere insieme alla tribù delle Amazzoni. Essendo una tribù di sole donne, il protagonista deve fingersi una ragazza, ma usa le sue conoscenze del futuro per aiutare le Amazzoni a creare nuove armi con cui vincere le loro battaglie.
La parte del volume dedicata ad "Amazones" presenta i vari disegni preparatori dei personaggi principali e le sceneggiature dei vari capitoli di cui sarebbe poi stata composta la storia.
La prima parte è molto dettagliata, con dialoghi tra i personaggi e descrizioni del loro aspetto e delle ambientazioni, al punto che sembra quasi di leggere un romanzo illustrato.
Man mano che la storia va avanti però, e il progetto viene abbandonato per diventare poi "Duranki", anche la sceneggiatura diventa meno dettagliata e intere parti di storia sono riassunte in poche righe.
Anche "Amazones" purtroppo è incompleta e senza finale.
Abbiamo dunque due opere incompiute raccolte in un solo volume.
Torniamo a "Duranki". Come detto all'inizio, a occuparsi dei disegni sono stati i membri dello Studio Gaga, il gruppo di disegnatori che lavoravano insieme al maestro Kentaro Miura, aiutandolo sulle tavole di "Berserk".
I disegni sono dunque di alta qualità, molto belli e curati, e sembrano davvero molto simili a quelli del compianto maestro Miura. A un esame attento e minuzioso si notano delle differenze, ma se non ci si mette con una lente d'ingrandimento, è difficile scorgerle. Il che è una buona cosa, dato che l'editore giapponese di "Berserk" ha deciso, dopo aver valutato se sospenderlo o meno, di far continuare "Berserk" affidando i disegni proprio allo Studio Gaga. Almeno dal punto di vista grafico, c'è da essere fiduciosi. Per la storia, vedremo.
In Italia, "Duranki" è stato pubblicato da Planet Manga, in un volume senza orpelli particolari, se si esclude la presenza di un mini poster pieghevole a colori, stampato su entrambi i lati con due illustrazioni diverse. Considerato però che il volume consiste di quasi trecento pagine, centosettanta di fumetto e altre cento circa della sceneggiatura iniziale, il prezzo a cui è venduto, è molto conveniente.
Da segnalare che "Duranki" è uscito anche in bundle con il numero 1 di "Berserk" con una copertina variant.
Per concludere: come ripetuto più volte, il manga in oggetto non ha un finale, al pari della sceneggiatura iniziale da cui ha avuto origine.
Perché dunque acquistare e leggere un'opera incompleta?
Questo sta al lettore deciderlo.
Ci sono persone che, come si dice, ritengono più importante il viaggio della destinazione, altri invece che pensano che leggere qualcosa d'incompleto sia uno spreco di tempo.
Non c'è una risposta esatta in questo caso.
Resta però il fatto che "Duranki" è l'ultima opera lasciataci in eredità da Kentaro Miura, un autore straordinario, che con "Berserk", il suo manga capolavoro, ha lasciato un segno indelebile nel mondo del fumetto e dell'arte. Andrebbe letto anche solo per questo.
Se non altro visivamente è molto bello da guardare, ma la trama mi è sembrata alquanto confusionaria. Tant'è che mi ricordo solo qualche scena qua e là, tra cui quella iniziale.
Vampire in the Garden non è così brutto, ma è comunque la solita netflixata insipida e noiosa, quindi gli ho dato 5. Spero che sia stato l'ultimo anime originale prodotto da Netflix, e a quanto pare sarà così dato che hanno tagliato il budget per gli anime (e inoltre, date le loro "geniali" decisioni, sono in perdita e quindi suppongo abbiano deiso di andare sul sicuro puntando su trasposizioni da manga famosi).
Quanto a Duranki, l'avevo messo da parte dal momento che si trattava di un solo volume in prosecuzione. Poi però purtroppo il maestro Miura ci ha lasciati e quindi sostanzialmente ho lasciato perdere: per ora pare che lo Studio Gaga sia concentrato soltanto su Berserk, e Duranki è in uno standby che, se non definitivo, sarà comunque molto lungo.
Duranki è sospeso definitivamente, è detto a chiare lettere nella postfazione del volume.
Riguardo Terramare, non è brutto ma A) Non si capisce bene cosa centri con l'opera di Ursula le Guin, che attende ancora un'edizione Live, od animata, all'altezza..E la meriterebbe tutta essendo una grande serei di libri di FS ( oddio forse più un fritto misto FS più Fantasy)
B) C'era dietro tutta una campana pubblicitaria basata sul contrasto "Padre-Figlio", che mi ha fortemente indisposto ( Toshio Suzuki è un produttore di genio ma talora esagera)
. Il film sarà firmato da Goro ma lo ha fatto in realtà lo Studio Ghibli in quanto tale.
Qesta partenza ha rischiato di azzoppare la carriera di Goro, che èun buon regista come ha dimostrato la serie in CG della Strega, ma ben diverso dal padre..
Ed oltre che regista Goro è dietro buona parte dell'ideazione di stutture come il Museo od il Parco a tema dello Studio..
Rido perché, incuriosita da Vampire in the Garden, sono andata a guardare la scheda e mi sono resa conto di averlo già visto, ma non ricordo un accidente So solo che mi piaceva l'ambientazione e l'atmosfera che aveva, ma riguardo la storia: il nulla cosmico. Forse non l'ho nemmeno concluso...
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