Recensione
Asura
5.0/10
Recensione di grandebonzo
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Non solo periodo di battaglie leggendarie ed eroici condottieri, i torbidi dell'Epoca Sengoku nascondono, nei loro più oscuri meandri, una disturbante realtà: in un Paese martoriato da guerre intestine e catastrofi naturali, a fare da fosco retroscena alle gloriose gesta dei samurai sono infatti carestie, devastazioni e miseria. Un quadro dalla tinte fosche, che incornicia una greve disperazione, fatta di uomini senza prospettive, straziati e resi spietati da fame e privazioni, insensibili a qualsiasi solidarietà e dimentichi di ogni freno inibitore. Tra le lande desolate della Kyoto di fine '500, in un sordido tugurio, viene alla luce Asura, bambino-bestia che porta sul corpo le cicatrici di un'umanità ormai alla deriva: sopravvissuto a un prematuro destino di morte, ignaro di qualsiasi convenzione sociale, dovrà farsi strada attraverso gli orrori di un mondo sull'orlo dell'abisso, un mondo in cui una madre può pensare addirittura di cibarsi del proprio figlio.
Per un demone che parla solo il linguaggio della violenza - traslato fin troppo esplicito della natura umana - esiste possibilità di redenzione?
Ciò che a prima vista colpisce della pellicola diretta da Keichi Sato, già salito agli onori delle cronache per la regia di "Tiger & Bunny", è la scelta alquanto discutibile di animarla interamente in computer grafica. Se da un lato il non volersi affidare ai disegni tradizionali permette la realizzazione di notevoli effetti speciali e di fondali caratterizzati da un'estrema cura per il dettaglio, dall'altro presenta, soprattutto in relazione alle figure umane, animazioni legnose e innaturali, nonché una totale inespressività dei volti. Un autentico delitto, perché il sapiente utilizzo di una paletta di colori lividi e sanguigni ben si fonde con la follia delle vicende raccontate: tra lune immense, foreste spettrali, campi riarsi e tramonti fiammeggianti, le sensazioni trasmesse, soffocanti come la crudeltà dei temi trattati, si amplificano in iperboliche rappresentazioni. Pure gli accompagnamenti musicali, caratterizzati da una vena orchestrale assai ispirata, sanno esaltare l'atmosfera opprimente del film, ma, così come il setting, non trovano adeguata intensità nei personaggi, burattini senz'anima privi di forza comunicativa.
Nonostante le perplessità sulle scelte stilistiche, tuttavia, i maggiori difetti dell'opera si riscontrano nella sceneggiatura, incapace, a causa di una narrazione a tratti ridicola, di coniugare ambizioni speculative a una trama solida e verosimile. Se negli intenti programmatici c'era - e mi sembra piuttosto evidente - il desiderio di comporre un affresco storico refrattario a idealizzazioni, mi domando come sia stato possibile caratterizzare il protagonista in maniera così palesemente grottesca e 'fantasiosa': corpo ignifugo, resistente a rovinose cadute tra precipizi di roccia, capace di compiere balzi scimmieschi e dotato di una forza erculea, nonostante dimensioni fisiche lillipuziane. Tutte qualità incongrue con un realismo spesso cercato con morbosa insistenza, e inutili sul piano narrativo.
Ancora più incomprensibili appaiono però le forzature operate sulla crescita interiore del ferino Asura: da bestia assetata di sangue incapace persino di proferir parola, si scopre improvvisamente, ma senza giustificazione, fine disquisitore di concetti filosofici vertenti sulla natura umana e sul senso della vita. Riflessioni focalizzate sulla dualità dell'anima che si rivelano però piuttosto superficiali, e che raggiungono l'apice della banalità nella metaforica dicotomia tra paesaggi bucolici e scene colme di orrore.
Non danno un contributo apprezzabile nemmeno gli altri personaggi 'positivi', i quali, lungi dall'essere il sospirato appiglio di questo mondo disumanizzato, sembrano piuttosto mossi o da una patinata moralità (Wakasa) o da un desiderio di stupire totalmente fuori contesto (il monaco).
Potenzialmente interessante, "Asura" si rivela a mio avviso un'operazione mal riuscita, un'opera pretenziosa minata da un ingiustificato sensazionalismo e da trovate degne dello shōnen più ingenuo, difetti evidenti che ne offuscano la 'credibilità' storica ed etica. Si salvano alcuni arditi espedienti visivi, nulla più che un apprezzabile, ma impersonale esercizio di stile.
Per un demone che parla solo il linguaggio della violenza - traslato fin troppo esplicito della natura umana - esiste possibilità di redenzione?
Ciò che a prima vista colpisce della pellicola diretta da Keichi Sato, già salito agli onori delle cronache per la regia di "Tiger & Bunny", è la scelta alquanto discutibile di animarla interamente in computer grafica. Se da un lato il non volersi affidare ai disegni tradizionali permette la realizzazione di notevoli effetti speciali e di fondali caratterizzati da un'estrema cura per il dettaglio, dall'altro presenta, soprattutto in relazione alle figure umane, animazioni legnose e innaturali, nonché una totale inespressività dei volti. Un autentico delitto, perché il sapiente utilizzo di una paletta di colori lividi e sanguigni ben si fonde con la follia delle vicende raccontate: tra lune immense, foreste spettrali, campi riarsi e tramonti fiammeggianti, le sensazioni trasmesse, soffocanti come la crudeltà dei temi trattati, si amplificano in iperboliche rappresentazioni. Pure gli accompagnamenti musicali, caratterizzati da una vena orchestrale assai ispirata, sanno esaltare l'atmosfera opprimente del film, ma, così come il setting, non trovano adeguata intensità nei personaggi, burattini senz'anima privi di forza comunicativa.
Nonostante le perplessità sulle scelte stilistiche, tuttavia, i maggiori difetti dell'opera si riscontrano nella sceneggiatura, incapace, a causa di una narrazione a tratti ridicola, di coniugare ambizioni speculative a una trama solida e verosimile. Se negli intenti programmatici c'era - e mi sembra piuttosto evidente - il desiderio di comporre un affresco storico refrattario a idealizzazioni, mi domando come sia stato possibile caratterizzare il protagonista in maniera così palesemente grottesca e 'fantasiosa': corpo ignifugo, resistente a rovinose cadute tra precipizi di roccia, capace di compiere balzi scimmieschi e dotato di una forza erculea, nonostante dimensioni fisiche lillipuziane. Tutte qualità incongrue con un realismo spesso cercato con morbosa insistenza, e inutili sul piano narrativo.
Ancora più incomprensibili appaiono però le forzature operate sulla crescita interiore del ferino Asura: da bestia assetata di sangue incapace persino di proferir parola, si scopre improvvisamente, ma senza giustificazione, fine disquisitore di concetti filosofici vertenti sulla natura umana e sul senso della vita. Riflessioni focalizzate sulla dualità dell'anima che si rivelano però piuttosto superficiali, e che raggiungono l'apice della banalità nella metaforica dicotomia tra paesaggi bucolici e scene colme di orrore.
Non danno un contributo apprezzabile nemmeno gli altri personaggi 'positivi', i quali, lungi dall'essere il sospirato appiglio di questo mondo disumanizzato, sembrano piuttosto mossi o da una patinata moralità (Wakasa) o da un desiderio di stupire totalmente fuori contesto (il monaco).
Potenzialmente interessante, "Asura" si rivela a mio avviso un'operazione mal riuscita, un'opera pretenziosa minata da un ingiustificato sensazionalismo e da trovate degne dello shōnen più ingenuo, difetti evidenti che ne offuscano la 'credibilità' storica ed etica. Si salvano alcuni arditi espedienti visivi, nulla più che un apprezzabile, ma impersonale esercizio di stile.