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In ogni buon racconto, lungo o breve che sia, c'è sempre un nocciolo, un punto essenziale. Il lettore può non cercarlo consapevolmente, ma se non c'è ne sentirà la mancanza. Nei racconti lunghi e complessi, il nocciolo può essere occultato sotto strati di accessori: intrecci complicati, sottotrame, descrizioni, dissertazioni. Ma nel racconto breve tutto viene eliminato tranne il nocciolo, che si presenta al lettore senza orpelli, e come un ago soffiato da una cerbottana resterà conficcato in lui a lungo.

Così Isaac Asimov apre una raccolta di racconti fantascientifici scritta a più mani, riconoscendo nella capacità di mettere a nudo il succo della storia la prerogativa di qualsiasi racconto breve. Deve esserci un messaggio, un qualcosa che passi e venga trasmesso inequivocabilmente al lettore. E che sia forte, forte a tal punto da rimanere ben impresso nelle poche pagine a disposizione di chi scrive.
È vero, qui non si parla di Asimov, ma di un’opera di animazione, tuttavia, tra stelle, fantascienza e lunghezza limitata, per me il collegamento è stato quasi automatico. E invero non è nemmeno così peregrino, come incipit, perché riesce a inquadrare perfettamente il motivo per cui “Planetarian” fallisce nel proprio essere storia breve.

Ha senso partire dall’ambientazione, un più che abusato scenario post apocalittico in cui l’umanità, a seguito di un conflitto nucleare, è costretta in comunità piccole e sparpagliate, mentre i precedenti agglomerati urbani sono stati abbandonati e murati, per evitare che qualcuno vi acceda. La particolarità della serie, invece, è quella di avere due soli personaggi, facendo presupporre un’ottimizzazione degli spazi e dei tempi per la caratterizzazione degli stessi a fronte di un minutaggio limitato in partenza. Una soluzione niente male, quella dei creatori della visual novel, tuttavia mal gestita e sviluppata, almeno per quanto riguarda l’adattamento. Il protagonista maschile è Kuzuya, un cacciatore di rottami che esplora le città abbandonate in cerca di beni di consumo, vendendo i quali si ricava da vivere; l’incontro con la protagonista è casuale, avviene sulla terrazza di un fatiscente centro commerciale mentre egli cerca di sfuggire a dei robot armati che ricordano molto tachikoma et similia da “Ghost in the Shell”. La protagonista, robot anch’essa, fa parte dello staff di un planetario nel quale, prima della guerra, presiedeva le proiezioni, raccontando le storie e i miti dietro i nomi e le forme delle costellazioni. Il protagonista, inizialmente freddo nei confronti di lei, viene “ubriacato” dalla dolcezza e dall’ingenuità della tenera intelligenza artificiale, lasciandosi coinvolgere in una proiezione speciale per lui soltanto.
Episodio dopo episodio, tuttavia, sempre maggiore è lo spazio dedicato ai ripetitivi e inconcludenti siparietti tra i due e alle più che giuste paturnie di Kuzuya, dovute essenzialmente all’intollerabilità dell’atteggiamento di Yumemi. L’espediente narrativo ci può stare, non dico il contrario, ma è abbastanza deludente constatare che dietro di esso non ci sia altro, se non l’irritante vocina della ragazza, il cui “Gentile cliente” riesce a indisporre anche più di uno sciame di zanzare in una notte insonne di estate inoltrata.
Non mancano, ciliegina sulla torta, tutti i topoi a cui la Key ha abituato negli anni, i drammoni alle spalle - lui consapevole, lei no, motivo di ulteriore compassione da parte dello spettatore - e gli slanci patetici dei personaggi che abiurano ogni logica per seguire degli improbabili e incontenibili sentimenti. E poi ci sono loro: i piantini, le lacrime, la tragedia e il pathos, capaci di commuovere persino un robot che non è programmato per piangere, un po’ come se la vostra lampada scoppiasse in lacrime mentre state guardando il finale di “Titanic”. Ecco, il fanservice in pieno stile Key è servito, la storia strappalacrime e le “lacrime strappastorie” - e, badate bene, non è solo una citazione - sono il coronamento di una serie che poteva dire qualcosa e invece si limita a essere orpello di un messaggio non pervenuto - e di cui, come suggerisce Asimov, la mancanza si sente - sfiorando tasti come la guerra, il fascino delle stelle e il naturale desiderio escapista dell’uomo, senza tuttavia premerne fino in fondo almeno uno.

Il comparto tecnico è nella media e si limita al compitino, servendo animazioni non eccessivamente rifinite e un character design alquanto anonimo, mentre la regia non riesce a distrarre lo spettatore dalla piattezza disarmante e dalla monotonia della sceneggiatura; non aiutano nemmeno il doppiaggio, come già anticipato in precedenza, vista la scelta discutibile della voce della protagonista, né la colonna sonora, dimenticabile, mai veramente incisiva - unica vera delusione, in quanto punto di forza, invece, di altre opere di casa Key. “Planetarian”, in definitiva, è un anime nato monco - forse per colpa della base, sicuramente per colpa degli adattatori - che piacerà certamente ai fan della Key, ma che di per sé rimane scarso.