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“La storia originale è stata scritta dopo numerose simulazioni volte ad ottenere il massimo del realismo.” Con queste premesse mi aspettavo un’opera non diversa, ma proprio diametralmente opposta rispetto a quella che mi sono ritrovato a visionare. E, viste anche le sciagure sismiche che ultimamente si sono abbattute sul Bel Paese, auspicavo di impressionarmi, almeno un minimo. Invece no. “Tokyo Magnitude 8.0” è tutto fuorché un prodotto realistico, e spacciarlo per tale è stato il primo artificio degli autori. Ma procediamo con ordine.

I protagonisti della storia sono due bambini di nome Mirai e Yuki; Mirai è la classica ragazzina con perennemente le sue cose, terribilmente odiosa a causa (come no) del rapporto conflittuale con i suoi genitori; suo fratello minore Yuki invece è un adorabile e allegro bambino con il sorriso sempre stampato in faccia (stessi genitori).
Nel caotico e vorticoso flusso del cataclisma i due bambini incontreranno Mari, una motociclista vedova che ha lasciato la figlia con la nonna a dormire forse sotto chilometri di macerie, o forse no; comunque nel dubbio si improvvisa genitrice di due mocciosi sconosciuti, d’altronde per pensare alla figlia c’è tempo fino alla prossima scossa, e, dato che non esiste genitrice senza figlio incauto che la preoccupi, e una figlia e una madre probabilmente seppellite sotto ettari di frantumi non instillano troppe preoccupazioni in Mari, Mirai, da brava figlioccia acquisita, si mette a saltare come può su travi di edifici pericolanti destreggiandosi a mo’ di Lara Croft, e lì sì che Mari si preoccupa. Realismo dicevamo? Yuki resta un po’ sulle sue senza dimenticarsi di infilarsi in ogni struttura vacillante che gli si presenta, giusto per dare anche lui qualche preoccupazione a Mari (non a Mirai, lei non si preoccuperebbe, dato che ha un rapporto conflittuale con i genitori).
Il festival dello stereotipo.

Quello a cui ci prestiamo ad assistere su schermo è il terremoto che ha mietuto più vittime della storia del Giappone a detta dei personaggi, con tanto di riferimenti storici e numeri alla mano. Anche qui sarebbe lecito aspettarsi, quindi, di vedere una Tokyo flagellata, un’ecatombe umana che non si sa bene per quale motivo gli autori decidono di risparmiarci; preferendo spostare il focus su Mirai, che si fa prendere a calci da una folla di inferociti sfollati, una situazione tra le altre cose difficilmente prospettabile (non mi sembra così credibile che degli adulti, seppur sconvolti dall’aver perso tutto, prendano a calci e spintoni una bambina indifesa così tanto per); o ancora su Kento Monomiya, fanatico dei robot e idolo di Yuki (personaggio tra le altre cose brutalmente accantonato dopo a malapena due episodi), che improvvisa un salvataggio da vigile del fuoco brevettato, per soccorrere un prototipo di robot incastonato nelle macerie di un fatiscente palazzo. Inutile a dirsi che i tre, pur ripetendosi come un mantra di restare sempre uniti, finiranno più volte col perdersi e ritrovarsi, perdersi ancora e ritrovarsi di nuovo, puntualmente minacciati dalle neanche troppo temibili scosse di assestamento. Questo è a grandi linee ciò che vedremo negli undici episodi.

In questa brodaglia di cliché però vi è anche una gran trovata, e all’idea vanno indubbiamente dati i giusti meriti, anche se per certi versi poteva essere resa meglio. Facciamo un passo indietro.

Attenzione: il seguente paragrafo contiene spoiler

Ad un certo punto, in seguito a una febbre probabilmente derivata da un’infezione, Yuki cade a terra tramortito con la faccia volta al suolo. Il bambino viene portato via da un’ambulanza, e la disturbante immagine di lui con il volto coperto da un telo (proprio come fosse morto) ha generato sgomento e stupore in ogni spettatore. Salvo poi scoprire fosse tutto un sogno di quella simpaticona di Mirai. Ma, proprio quando l’opera sembra cadere in un abisso di moralismi e luoghi comuni, riesce a fuoriuscire dagli standard mostrando il meglio di sé.
“Sorellina, cosa faresti se io morissi?”
Già, Yuki è morto, e ovviamente Mirai non l’ha accettato; lo spettatore, che per un certo punto vedrà solo dalla prospettiva di Mirai, crede la morte del bambino soltanto un incubo, perché è così che inconsciamente la ragazzina tenta di metabolizzare il fatto. Da quel momento in poi lo Yuki che vedremo sarà soltanto una triste proiezione di Mirai. Veramente una bella idea, non originalissima, comunque facente parte del filone post “Two Sisters” (l’idea di base resta quella), ma sicuramente fa guadagnare diversi crediti a un’opera altrimenti appena mediocre. Non serviva sul finale quella caterva di fotogrammi in cui viene spiattellata Mirai che parla da sola (bastava mezza scena per far capire che il suo adorato fratellino non c’è più), e gli ultimi due episodi non fanno altro che sbatterci in faccia l’eroismo, la bontà e la misericordia del piccolo Yuki, per intensificare la drammaticità del lutto.

Fine paragrafo contenente spoiler

Appunto anche alla traduzione italiana: niente amenità, sia chiaro, ma diverse imprecisioni ed errori di sufficienza mi hanno lasciato perplesso. Nella norma l’apparato tecnico, da segnalare personaggi un tantino statici e un accompagnamento sonoro non sempre orecchiabile, ma per il resto nulla di particolarmente fastidioso.

A livello interpretativo c’è poco da aggiungere al detto “Il valore di quello che hai lo capisci quando lo hai perso”, e seppur di semplice interpretazione il messaggio è quantomeno educativo. Quest’opera è ahimè dozzinale per gran parte della sua durata, e la “furbata” finale, anche se riuscita, non basta a farle raggiungere la sufficienza piena. Il ritmo blando con cui avanza la trama (Mari ogni tre episodi si ricorda di fare un passo verso casa) e i dialoghi non proprio tarantiniani, mi hanno fatto venire voglia più volte di interrompere la serie, e, se non fossero stati solamente undici episodi, probabilmente l’avrei ‘droppata’; meno male che ho proseguito la visione, dato che le ultime due puntate sono l’unico motivo per cui valga veramente la pena fruire di questo prodotto.

In finale definirei “Tokyo Magnitude 8.0” un’opera sopravvalutata ma comunque meritevole di essere visionata, capace di commuovere al di fuori della sua ordinarietà. Quindi vedetela, a meno che non abbiate rapporti conflittuali con i vostri genitori.