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9.0/10
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Il 23 dicembre 1995 la storica major Shochiku distribuisce nelle sale giapponesi “Memories” (“Memorîzu”), antologia sci-fi che propone alcuni tra i nomi più in vista dell’animazione dell’epoca. In Giappone quella dei cosiddetti omnibus cinematografici era già una consuetudine, vissuta dai vari autori come un ideale terreno di sperimentazione e di confronto (un esempio ne è “Manie-Manie: I racconti del labirinto”, 1989). In principio “Memories” viene pensato come un OVA da affidare completamente a Katsuhiro Otomo, autore dei tre diversi racconti manga a cui il film si ispira, ma dopo un'interruzione si decide di trasformare il progetto in un omnibus, richiamando Otomo in veste di supervisore generale e produttore esecutivo, oltre che di sceneggiatore e regista dell'episodio “Cannon Fodder”. Gli altri due compagni di viaggio sono Koji Morimoto (“Robot Carniva”l, “Macross Plus”, “Animatrix”) che dirige “Magnetic Rose”, e Tensai Okamura (“Wolf's Rain”, “Ao no Exorcist”, “The Seven Deadly Sins”) alle prese con “Stink Bomb”.

“Magnetic Rose”

Nel primo episodio, “Magnetic Rose” (in originale “Kanojo no Omoide”, lett. “I suoi pensieri”), le memorie del titolo si rivelano un soverchiante ingranaggio che trascina i personaggi in un nostalgico passato disancorandoli dalla vita reale. Koji Morimoto, alla regia, imbastisce un elegante psico-thriller di ambientazione fantascientifica con riferimenti più o meno espliciti all’immaginario cinematografico da “Alien” a “Dark Star” passando per “Solaris” e “2001: Odissea nello spazio”. La trama ci catapulta ai confini dello spazio a bordo della Corona, una nave cargo a caccia di detriti galattici. Attirati da un segnale di S.O.S., i cosmonauti si imbattono in un misterioso cimitero di astronavi in orbita attorno a una gigantesca struttura a forma di rosa. Decidono quindi di mandare in avanscoperta due membri dell’equipaggio (Heintz e Miguel) che iniziano l’esplorazione di un mondo fantastico e opulento dagli arredi barocchi, ma è tutto finto: gli ambienti sono il frutto di proiezioni olografiche e gli oggetti si sgretolano al tocco. Si tratta della dimensione fittizia creata dalla mente di una donna (Eva Friedel), un tempo fascinosa diva dell’opera lirica, che come una sirena incantatrice sulle note della “Madama Butterfly” attira a sé e nel suo passato glorioso chiunque entri nel suo spazio, trasformandolo in un “attore” della propria esistenza virtuale. Se da un lato la protagonista ricorda molto il personaggio letterario di Lady Havisham di dickensiana memoria, dall’altro ci sono echi che rimandano alla figura di Maria Callas, leggendaria voce soprano. Come nel celebre “Viale del Tramonto” anche in questo caso la memoria degli antichi fasti ricostruisce un’identità illusoria che avrà delle conseguenze nefaste sulla psiche dei due malcapitati esploratori spaziali.

Nel cast di questo medio metraggio di quaranta minuti, prodotto dallo Studio 4°C, compare una squadra di fidi scudieri di Otomo: oltre al già citato Koji Morimoto, che aveva già collaborato con Otomo in “Akira” e “Roujin Z”, l'animazione è di Toshiyuki Inoue, mentre alla sceneggiatura spicca la presenza di un Satoshi Kon alle sue prime esperienze animate. Quest’ultimo non solo dimostra una totale consapevolezza del mezzo cinematografico, ma ci dà un saggio di quella che sarà la cifra stilistica delle sue produzioni a venire che lo consacreranno fra i più visionari cantori del sogno, della mente, e della memoria. L’assunto del film consiste nell’impossibilità di definire cosa sia la realtà: in una continua osmosi tra diversi piani narrativi, lo spettatore viene spinto in un turbine di visioni sul confine tra fantasia e mondo reale, fino a perderne ogni definizione certa. La messinscena dell’identità dei protagonisti viene costruita su un'elaborata grammatica filmica fatta di flashback, immagini surreali, effetti illusionistici e tecniche di montaggio che depistano di continuo la coerenza narrativa, il tutto immerso in un’atmosfera cupa, sospesa e squarciata da lampi di horror. A completare questo spaesante affresco futuristico ci pensa la colonna sonora di Yoko Kanno (“Cowboy Bebop”, “Macross Plus”, “Sakamichi no Apollon”) in stato di grazia, che dona un ulteriore tocco di classe alla pellicola con le sue contaminazioni sonore. Avvalendosi del coro e dell’orchestra filarmonica della città di Praga, la compositrice inanella una serie di tracce molto ispirate fra le quali meritano una menzione: “Chorale”, che unisce inopinatamente il misticismo dei canti gregoriani alla sensualità del sax tenore; “Sickness”, che strizza l’occhio alla musica contemporanea con le sue ardite dissonanze; lo struggente e allucinato “Emily”; e infine “Cosmos”, con la sua elettronica claustrofobica miscelata all’opera lirica, nella fattispecie la celeberrima aria della “Madama Buttefly” (“Un bel dì vedremo”), il cui ascolto non sarà più lo stesso dopo questa visione.

“Stink Bomb”

Tensai Okamura dirige il secondo episodio, prodotto da Madhouse e intitolato “Stink Bomb” (“Saishu Heiki”, lett. “L'arma puzzolente”), commedia ricca di azione iperbolica che crea uno stacco netto rispetto alla suspense di “Magnetic” Rose e, sebbene non raggiunga la complessità narrativa di quest’ultimo, quantomeno ne eguaglia l’eccellenza a livello di disegni e animazioni. Nonostante sia la più convenzionale delle tre storie, a volte liquidata ingiustamente come banale, in realtà rivela una corrosiva vena satirica e aggiunge un po’ di sano umorismo (nero) alla visione complessiva. In questo film di quaranta minuti seguiamo le tragicomiche avventure di Nobuo Tanaka, goffo tecnico di laboratorio che, nell’intento di assumere delle capsule per il suo fastidioso raffreddore, ingerisce accidentalmente una potente arma biologica e finisce per generare una nube tossica nauseabonda che semina morte e panico nella prefettura di Yamanashi. Sarà necessario ricorrere alle forze armate per fermare la bomba umana diretta a Tokyo.

Il racconto, ispirato in parte alla reale vicenda di Gloria Ramirez (passata alla storia come “la donna tossica”), ci regala scene di humour irresistibile, pur nella drammaticità dell'ecatombe. Più che una critica all'uso della ricerca scientifica asservita a scopi bellici, è una sferzante satira antimilitarista sulla falsariga de “Il Dottor Stranamore”. Gli spunti più comici nascono infatti dall'assoluta inettitudine delle forze congiunte di autodifesa giapponesi/americane a fronte di un totale dispiegamento di uomini e mezzi. Il motore dell’azione rimane la disarmante ingenuità di Nobuo, personaggio fantozziano che fa il verso allo stereotipo abusato in molti anime del giovane patetico che viene improvvisamente coinvolto in una serie di eventi più grandi di lui, mentre gli altri personaggi sono volutamente monodimensionali e caricaturali (dal duro dirigente aziendale al subdolo comandante militare). Una menzione a parte va alla cura dello scenario, riprodotto con un realismo maniacalmente fedele che si esalta nella riproduzione di navi, aerei, carri armati da fare la gioia degli otaku dei mezzi militari. Il ritmo travolgente delle scene d’azione è sostenuto dalla frizzante colonna sonora di stampo jazz/funk firmata da Jun Miyaki, anche in questo caso particolarmente ispirata. Fra le varie tracce spiccano: il trascinante tema principale “Nobuo’s Groove”; l'intrigante tango di “Some Day Our Prince Will Come”; e “Battle Dance”, una delirante fusion che mescola fraseggi e improvvisazioni all’insegna del free jazz. Nel cast del film compare Otomo come sceneggiatore e character designer, mentre la supervisione generale è affidata all'enfant terrible Yoshiaki Kawajiri (“Wicked City”, “Ninja Scroll”, “Vampire hunter D - Bloodlust”), infine Hirotsugu Kawasaki (“Spriggan”) alla direzione delle animazioni.

“Cannon Fodder”

Il film conclusivo, “Cannon Fodder” (“Taihō no Machi”, lett. “La città dei cannoni”) prodotto dallo Studio 4°C, è quasi un assolo di Katsuhiro Otomo che scrive, dirige e disegna con uno stile insolito, vagamente ispirato a certo cinema di animazione di scuola europea, attraverso una tecnica che fa un uso innovativo della CG. L’episodio dimostra una raffinatezza e una ricerca visiva che lo pongono a buona ragione a coronamento della trilogia: si tratta di un tentativo di girare un'unica sequenza (senza tagli) in cui le immagini seguono un flusso continuo (interrotto solo in pochissimi fotogrammi chiave) dalla prima all’ultima scena, con un character design che abbandona le linee realistiche dei due film precedenti per abbracciare uno stile deformato in chiave espressionista.

Una famiglia proletaria vive la sua grigia quotidianità in una realtà che da un lato ricorda la distopia di “1984”, dall’altro evoca “Tempi moderni” con la pantomima dei personaggi e il sottotesto sull’alienazione dell’uomo contemporaneo. L’autore opta per una narrazione minimale in cui non accade nulla di rilevante (non c’è una vera e propria trama) con dei personaggi anonimi (ma non insignificanti), riuscendo a creare un mondo incredibilmente dettagliato e coerente con le sue regole interne (da notare l'invenzione di un alfabeto fatto di caratteri pseudo cirillici). Nella città/fortezza di acciaio e vapore (che esteticamente anticipa le atmosfere di “Steamboy”) l'aria è mefitica e vige un regime autoritario parodia del comunismo di stampo sovietico. Qui si vive in perenne stato di guerra, ma non vediamo mai il nemico e non sapremo mai se esiste veramente. Gli operai-soldato, ridotti a zombi lobotomizzati, si limitano ripetere meccanicamente gli stessi gesti all’infinito, come caricare gli enormi cannoni per poi sparare a caso verso un mondo esterno fatto di sterminate distese desertiche. In uno dei pochi dialoghi significativi del film il ragazzo chiede candidamente a suo padre “Contro chi stiamo combattendo?”, ottenendo come risposta un evasivo “Capirai quando sarai grande!”. Anche quest’ultimo mediometraggio di quaranta minuti ci offre una colonna sonora articolata che aggiunge atmosfera alle immagini animate. A dominare è la tastiera elettronica, che a tratti ricorda certe sonorità progressive anni '70, capace di mimare una molteplicità di effetti che vanno dalla semplice pianola di “Evening Falls”, alla maestosità dell’organo di “A Boy’s Dream”, ai suoni sintetici dell'ipnotica “Morning in The City”, fino alla marcetta militare infantile di “A Boy and a Portrait”.

A distanza di venticinque anni “Memories” conserva ancora tutto il suo fascino. Prova d’autore originale e innovativa, pur nella sua eterogeneità di temi e di stili, rimane uno dei più riusciti omnibus animati degli anni Novanta. Nonostante il flop al box office giapponese (da allora per molti anni non si sono più prodotti omnibus), il film ha avuto una distribuzione internazionale (in Italia il film è stato doppiato e distribuito da Sony/Tristar Pictures) che nel tempo gli ha conferito lo status di piccolo cult assolutamente da riscoprire. Consigliato non solo ai nostalgici del periodo storico e agli appassionati di tecniche di animazione (di cui il film è un vero e proprio compendio) ma anche a tutti coloro che cercano un mix di storie bizzarre, insolite e coinvolgenti.