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Il punto di forza di "Midnight Diner" è sicuramente l’atmosfera: calda, confidenziale, domestica , complici anche un‘opening, che ricorda una storica rock ballad, e un locale raccolto, disordinato, senza nessuna cura dei particolari, poco illuminato, tranquillo che porta alla mente, una vecchia taverna di un piccolo paese di montagna.

Ogni puntata si apre con il “maestro” intento a cucinare una pietanza tradizionale mentre i commensali siedono su un bancone che circonda la cucina, tutti molto vicini gli uni agli altri, e si apprestano a gustare le loro pietanze, quasi in religioso silenzio. Tale atmosfera marca una grande distanza con tutti quei locali diurni, ma anche notturni , tipici della vita mondana: affollati, chiassosi, luminosi, dove i camerieri si muovono freneticamente tra i tavoli, e dove l’attenzione verso il cliente, è gestita quasi come fosse un processo industriale . Luoghi frequentati da studenti, lavoratori o turisti, intenti a consumare un pasto veloce, prima di tornare alle proprie attività o per passare una serata di svago, con amici o partner. Ambienti dove si porgono le spalle a tutte le persone al di fuori del proprio tavolo, e dove assolutamente non è possibile ottenere quel giusto grado intimità, che permette, a chi ne sente il bisogno, di raccontare una storia, la propria storia, perché "Midnight Diner" è una serie fatta di personaggi e delle loro vicissitudini .

Sfortunatamente, però, ad essere il problema, sono proprio i personaggi e le storie che raccontano.
Se lo chef, grazie all’interpretazione di Kaoru Kobayashi , è credibile, poiché trasmette un senso di solidità, che lo fa sembrare una via di mezzo tra un samurai con il grembiule e un saggio monaco zen, sempre pronto ad ascoltare e fornire consigli a coloro che sentono il bisogno di confidarsi con lui, altrettanto, però, non si può dire dei personaggi comprimari.

Gli avventori che si susseguono nella serie, detengono spesso un profilo caricaturale, sia nei comportamenti che nell’aspetto, e i discorsi che fanno sono di sovente infantili e contorti. Inoltre, considerando che il popolo della notte, è in genere ben diverso da quello convenzionale, ci si aspetterebbe di veder narrate vicende dure, crude, difficili, fatte da persone che si trovano ai margini della società, che vivono alla giornata, per mezzo di espedienti. Invece, i temi che via via vengono raccontati nel corso degli episodi, sono piuttosto comuni, anche se non necessariamente banali : c’è la nostalgia per un vecchio lavoro; un amore non corrisposto; la rivalità tra un mentore in declino e l’allievo; un bambino in affido, etc .

Purtroppo però ci si trova ad assistere a racconti appena abbozzati, complice anche la brevità degli episodi, che in un batter d’occhio, giungono ai titoli di coda e che quindi non permettono allo spettatore di provare neanche un minimo di empatia, verso i protagonisti della vicenda, ma la cosa più deleteria è stata scelta di stereotipare al massimo i personaggi e soprattutto, il creare situazioni al limite del ridicolo: una tavolata con tutti gli avventori in vestiti da Power Rangers; i funerali fatti a un pesciolino rosso (svolto da due adulti, di cui uno era un accademico ); un uomo tormentato da uno spirito, a causa della sua collezione di film … e cosi se l’incipit della serie, ma anche dei singoli episodi, è buono ed accattivante, il suo sviluppo, spesso, rasenta il ridicolo e lo chef più che un “maestro” di vita, ne sembra più uno di asilo.

E questo è un vero peccato!

Azzeccata la scelta di dare ad ogni puntata il nome di una pietanza, la cui ricetta viene poi spiegata, nel finale di ogni episodio, dai protagonisti.

Il mio voto finale è una media tra quello detto quanto sopra.