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“Il mondo di oggi è un susseguirsi di attentati terroristici; di catene d’odio che si trasformano in grandi conflitti: ogni giorno siamo bombardati da notizie che ci inducono a pensare che forse, silenziosamente, sia già iniziata la terza guerra mondiale. La tecnologia militare ha sviluppato una forza tale da riuscire a sterminare più volte il genere umano. Sarebbe bello se adesso la musica di Marie avvolgesse tutto quanto il mondo”.
Così parlò Usamaru Furuya nel 2016 in merito a “La musica di Marie”, opera iniziata dal Mangaka nel 1999 e portata a termine nel 2001.
Data la situazione mondiale attuale, è piuttosto raggelante rileggere queste parole, profetiche e disilluse.

La carezzevole melodia di Marie cela malinconiche note di disarmonia, come metafora perfetta di un sottotesto dolceamaro scandito da un carillon.
Furuya alla sua prima “storia lunga” (l’autore prima si era cimentato soltanto in storie autoconclusive e yonkoma) estrae dal suo cilindro creativo un’opera anacronistica e visionaria, sospesa sotto un tetto d’acqua, fluttuante sopra una foresta meccanica.

Pryte è un mondo pacifico, che si erge sui resti di una civiltà sepolta dal progresso tecnologico e dalle guerre.
A regolare la pace è Marie, divinità-androide che vola nei cieli di Pryte intonando una soave melodia che acquieta l’animo delle persone.
Questa dimensione utopistica che vede l’armonia regnante, è resa possibile grazie ad un compromesso: l’uomo non può spingersi oltre una certa soglia di avanzamento tecnologico, e per mantenere la pace deve sottostare agli argini evolutivi imposti dalla superiorità divina.
Sotto il suono stride di giganteschi ingranaggi, ai piedi della foresta meccanica,
sopra asettici laboratori di ferraglie ammassate in claustrofobici labirinti, che ricordano le oscure costruzioni del Nihei di “Blame!”, sboccia la tenera storia di Kai e Pipi.

Il ritmo narrativo è lento e mite, ben irrigato da un racconto placido ma coinvolgente, che sembra la classica quiete prima della tempesta, con il dramma pronto ad esplodere da un momento all’altro, generando un’atmosfera di calma inquieta molto simile a “Dogville” di Lars von Trier.
Furuya dona una cura minuziosa al background dell’opera, strutturando con zelo un worldbuilding dalla cosmogonia complessa e articolata, fatto di usanze, costumi, credenze, culti, e terribili segreti.
Nell’ambientazione post-apocalittica dalle connotazioni steampunk, abbiamo forti richiami miyazakiani, (“Nausicaä, della valle del vento”, “Laputa, il castello nel cielo”) specie nelle sue ricostruzioni fondate sul “progresso involutivo”. Troviamo altre fonti d’ispirazione in “Proteggi la mia terra”, fantascientifico shōjo di Saki Hiwatari, e nel capolavoro di Hiroki Endo “Eden”, che esordiva su rivista soltanto un anno prima rispetto a “La musica di Marie”.
Erano gli anni post “Ghost in the shell” e “Matrix”, e gli sfondi a tema fantascienza distopica proliferavano a dismisura.

Dio ha creato l’uomo?
O è stato l’uomo a creare Dio?
Più che rispondere, Furuya domanda.
L’autore non vuole fugarci i dubbi, anela piuttosto a porci quesiti atti a stimolare profonde riflessioni esistenziali, senza darci punti fermi, rimettendo in discussione tutto quanto.
La costante critica alla religione dottrinale ed ecclesiastica, dipinta come una buia prigione mentale, è bilanciata dall’esaltazione della spiritualità personale, intesa come “illuminazione”, raggiungimento dell’”io”, e riesce a scindere la forza della fede dalla speculazione clericale.

“Cosi come il sole benedice la terra con i suoi raggi…
Anche la luna libera silenziosamente la notte dalle tenebre…
Cosi anche Marie veglia su di noi…mentre orbita lentamente intorno al nostro mondo”

Il medioevo è il periodo più buio dell’umanità, culmine di un progresso decisamente involutivo rispetto alle civiltà antiche.
Dopo l’imperante gloria romana ebbe inizio un lento regresso, sfociò in un preoccupante decadimento socio-culturale che sprofondò inesorabilmente verso l’età di mezzo.
Molte pagine di storia erano state bruciate dalle guerre passate, e l’uomo era più incline alla lettura dei testi sacri che non a documentarsi storicamente, questo rendeva la gente ignorante e suscettibile all’occulto, donando alla chiesa totale potere di controllo. Capiamo quindi l’importanza che ha oggi un database come internet, che con i suoi “infiniti” dati registrati, funge da vera e propria salvaguardia culturale.
L’incontrollata evoluzione tecnologica però, finirebbe con l’allontanarci dalla nostra natura, facendoci dimenticare la nostra essenza.
Quando l’interazione virtuale sostituirà il contatto fisico, chi sfamerà quel primordiale desiderio di carne?
Cosa accadrebbe se le intelligenze artificiali superassero i loro creatori ribellandosi e reclamandone il controllo?
Marie, dea benevola e indispensabile, ma anche spietata, supponente, “superiore”, tanto da non permettere all’uomo di volare nei suoi cieli, la cui dolce sinfonia sa essere anche cacofonia disturbante, è, in questa sua polarità, perfetta metafora del progresso tecnologico.

I personaggi, sobri e mai sopra le righe, sono densi di simbolismo, specialmente i due protagonisti.
Se da un lato Kai ha letteralmente le stigmate del prescelto, incarnando la spiritualità e l’ultraterrereno, “una mano per aprire la porta, l’altra per controllare il tempo”, dall’altro Pipi, nelle sue vesti di ragazza semplice e genuina, rappresenta l’umanità in tutti i suoi aspetti più primordiali e terreni: l’impulsività, la testardaggine, sopratutto la purezza dei sentimenti, quelli che nutre per Kai, il quale, nonostante le voglia un gran bene, è intensamente innamorato di Marie.
Le pulsioni sessuali che il ragazzo nutre verso la divinità, trovano il culmine in una vignetta che lo ritrae masturbarsi (l’autore non è nuovo a queste scene) in estasi, mentre osserva la dea volante dalla finestra.
Emblema del divino che regredisce all’istinto, ibridandosi al terreno, il sacro che diventa profano, il tempo che si capovolge riportandoci all’origine, alla creazione.
L’uomo ha creato Dio?
O è stato Dio a creare l’uomo?
Personaggio chiave degno di menzione é Il sacerdote Guul, costantemente in bilico tra fede e scienza, tra religione e progresso, incarnante molti dei dilemmi amletici dello stesso autore.

Il disegno del Mangaka seppur non ancora al suo apice espressivo, è davvero notevole. Dettagliato ed esplosivo nella realizzazione delle macchine, quanto dolce ed aggraziato nei volti dei personaggi, puliti e tondeggianti nella loro semplicità. Le splash page raffiguranti la dea sono una gioia per gli occhi, lo zenit di un grande comparto tecnico, composto dalla commistione di più stili, anche se da questo punto di vista l’autore sperimenta meno che in altre sue opere.

L’edizione italiana a cura di Coconino Press, accorpa in un bel volume di oltre 500 pagine i 2 Tankōbon originali, confezionandolo nella raffinata veste grafica della collana Doku, uno degli esperimenti editoriali più originali visti in Italia, e per realizzazione, e per titoli scelti.
A onor del vero va sottolineata una certa fragilità dell’albo, sia negli spigoli, che tendono a rovinarsi, che nella sovraccopertina di cartoncino, tutt’altro che resistente.

Uno degli autori più interessanti del panorama fumettistico attuale ci regala un gioiello dello slice of life fantascientifico, che sprizza fervida fantasia da tutti i suoi pori, consacrandolo come genio visionario del manga.
I fan dell’azione e dei ritmi convulsi non troveranno pane per i loro denti, “La musica di Marie” è una via crucis verso l’ascensione, la pace di un eterno amore oltre la morte.
Chi cerca risposte sbaglia in partenza, Furuya non fa che aggiungere strade ad un labirinto senza uscita, rendendoci abbaglianti semplici chiazze di buio.
Un’opera fuori dal costrutto di Dio e dentro le pieghe dello spirito, cantata da una voce triste e graffiata, che risuonerà a lungo nelle memorie, come eco lontana di un irraggiungibile miraggio.