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9.0/10
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Scrivo questa recensione dopo aver terminato la lettura di tutti i volumi di "Monster" e della sequel-novel "Another Monster" (che vi invito a leggere soltanto se vi appassionano i dettagli e le sfumature dei personaggi secondari).

Da dove partire?
Partiamo da Naoki Urasawa. Dopo il successo di "Monster", "20th Century Boys", "Pluto" e "Billy Bat", Urasawa è senza dubbio tra i mangaka più noti e apprezzati a livello mondiale, e non per caso! Quanti autori esistenti conoscete in grado di scrivere almeno 4 piccoli capolavori nella loro carriera? Pochissimi, forse.
Urasawa è un'artista a tutto tondo. A livello tecnico, il suo tratto così pulito e preciso da l'impressione di guardare un anime stampato su carta. Ma non è solo il disegno il suo punto forte.
Urasawa è un genio nella caratterizzazione dei personaggi delle sue storie. Monster è un'opera piena zeppa di personaggi primari e secondari splendidamente caratterizzati (Tenma, Johan, Grimmer, Lunge, Roberto, Eva Heinemann, ecc.). Nessun personaggio è lasciato al caso, il loro passato, le loro scelte, i loro pensieri, ecc. tutto è spiegato nel modo giusto e al momento giusto al punto da affezionarsi a ciascuno di essi senza mai annoiarsi con le storyline secondarie.

Mi scuso in anticipo per eventuali spoiler che potrei fare. Se non avete ancora letto tutti i volumi, vi invito a non proseguire la lettura e a ritornare qui dopo aver finito.

Ma di cosa parla Monster? Eviterò di ripetere la trama, quella è ben nota e potete trovarla ovunque. Mi limiterò a precisare il senso dell'opera: "Monster" parla degli esseri umani. Parla di quanto gli uomini si siano in passato spinti e possano sempre spingersi oltre qualsiasi senso di umanità che dovrebbe caratterizzarli. Di quanto gli uomini possano riuscire ad essere malvagi pur di raggiungere i propri scopi. Basti pensare agli orrori degli autoritarismi del '900.

Chi è il mostro? E' una domanda che ci si pone spesso nel corso del racconto. La risposta è tutt'altro che facile da dare.
Ognuno di noi ha dentro un "mostro", a tal proposito si potrebbe richiamare la teoria della "torcia nella stanza buia" del Dott. Gillen: la stanza buia rappresenta l'animo umano, lì ci sono le stesse emozioni uguali per tutta l'umanità, ma la personalità cambia a seconda di dove ciascuno illumina con la torcia.
Si, Johan è senza dubbio un "mostro", un killer spietato e privo di qualsiasi senso di empatia, Urasawa insiste molto su questi suoi tratti. Ma Johan non è altro che il prodotto di un intero sistema politico-sociale-culturale realmente esistito.
La trama affonda le sue radici nell'epoca precedente alla caduta del Muro di Berlino e fa riferimento, mutandone i nomi, ad eventi e luoghi realmente esistenti a quel tempo. Si tratta probabilmente del periodo più oscuro dell'intera storia dell'umanità, così altamente disvaloriale che ha volutamente e consapevolmente creato e plasmato dei "mostri" allo scopo di raggiungere la presunta purezza della razza.
Johan è infatti un esperimento da ancor prima della sua nascita, il suo stesso concepimento è stato studiato a tavolino da uomini potenti con un preciso scopo. Nel corso della sua vita non ha mai conosciuto altri sentimenti diversi dalla violenza, dall'odio, dall'abbandono, dalla manipolazione, dagli abusi e dai soprusi. Non ha conosciuto neanche l'amore di sua madre. Johan è un bambino al quale è stato tolto tutto quello che un bambino dovrebbe avere. Gli è stato tolto tutto. Persino il nome. Johan non ha mai imparato ad amare perchè non gli è mai stato insegnato.
C'è da dire però che Urasawa non descrive Johan banalmente come una "vittima". La realtà, come sempre, è molto più complessa. Infatti, anche Nina o Grimmer hanno vissuto un'infanzia orribile, eppure non sono come Johan. Anche loro portano addosso le cicatrici e i traumi di quel passato tremendo, eppure non sono diventati dei killer spietati.
Questo perchè non tutti gli esseri umani reagiscono agli stessi stimoli in maniera identica. La realtà, la psiche umana è molto più complicata. Urasawa ci ricorda che ognuno di noi può sempre scegliere cosa illuminare nella stanza buia con la torcia.

"Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro" diceva Nietzsche.
Kenzo Tenma vive lo stesso dilemma. Per l'intera opera vive con il senso di colpa per aver salvato la vita di un "mostro" e parte al suo inseguimento allo scopo di ucciderlo, perdendo il proprio lavoro ed i propri legami in una discesa nell'oscurità sempre maggiore che lo porta a fare i conti con i suoi istinti peggiori.
Urasawa si è sicuramente ispirato a Nietzsche anche per il richiamo della teoria del "superuomo", ripresa non a caso in epoca nazista, e per la visione assolutamente nichilistica che Johan ha della realtà, al punto da non provare alcuna compassione neanche per i bambini.

Molte critiche ha ricevuto il finale aperto che Urasawa ha ideato. Io penso che alla luce di quanto sopra detto, non potesse esserci finale diverso da questo. Il male, la violenza e l'odio non potranno mai avere fine. La chiusura del cerchio che tanti si auguravano nel finale non può esistere. L'essere umano sa essere malvagio, e così sarà per sempre. La mancanza di amore genera danni irreparabili.
Johan, che è espressione allegorica del lato peggiore dell'umanità, non potrà mai morire. Il mostro non potrà mai essere ucciso. Ritornerà sempre.