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10.0/10
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“Bella, candida, burrosa, composta al punto giusto, perfetta, immacolata, vergine, dedicata, simpatica, accondiscendente, nostra.”

Correva il 1998, e la mente geniale del grande, compianto Satoshi Kon partoriva un lungometraggio animato che avrebbe lasciato un profondissimo segno nei decenni a venire, anche se, come tutte le più grandi opere, avrebbe impiegato diverso tempo per venire compreso ed apprezzato.
Liberamente ispirato al romanzo Perfect Blue: Complete Metamorphosis, questo sofisticato e criptico capolavoro ci porta nella quotidianità di Mima, idol giapponese di fine anni novanta che decide di lasciare il suo storico gruppo dove ha fatto le prime fortune ed ha acquisito notorietà, per lanciarsi come cantante solista.
In un mondo spietato e aggressivo come quello dello spettacolo, ogni attimo di gloria dura un battito di ciglia, e si fa presto a venir relegati nel dimenticatoio.
Questo Mima lo sa bene, e gioca le sue poche carte sapientemente: serve gavetta per acquisire notorietà; così, supportata dalla semper praesens manager Rumi Hidaka, Mima cerca di sfondare nel cinema partendo da piccole e torbide parti in pellicole secondarie. Non si tira indietro, nonostante sia inizialmente titubante, quando le viene chiesto di posare per foto di nudo, proseguendo così la chimerica e vacillante scalata verso il “successo.”

“Talentuosa, umile, sorridente, innocente, impegnata, d’esempio.
Idolo. Il nostro idolo.
Liberissima di essere nostra proprietà emotiva.”


Che la vita delle idols giapponesi non sia tutta rosa e fiori ci è stato raccontato più volte attraverso cinema, fumetti, romanzi ed animazione a vari livelli, ma sin dai primi minuti di questo critico, profondissimo prodotto, possiamo evincere atmosfere ineguagliabili, vero e proprio paradigma del genere psicologicamente stratificato. Senza che nulla venga esplicitato anzitempo, respiriamo aria di gioie plastificate, scene d’avanspettacolo alternate a dietro le quinte fra il degradante e l’inquietante: una prassi, in questo mondo; qualcosa che in fondo tutti già sappiamo, ma che non abbiamo davvero idea fino a che punto possa influire sulla mente di chi lo subisce, quanto tossico ed alienante possa essere.

Ogni spaccato artistico del film è di altissimo livello, tanto da aver affascinato numerosi artisti di Hollywood fra cui Christopher Nolan, che tempo addietro ammise d’essersi spesso ispirato (e aver reso omaggio) – per inquadrature, sequenze “in-motion” e spunti psicologici – proprio ai lavori di Kon, dal suddetto Perfect Blue ma anche Paprika (chiarissimi riferimenti si possono apprezzare in colossal come Inception, TENET e The Prestige). Ma anche registi come Darren Aronofsky, David Fincher, Michel Gondry e Mamoru Hosoda sembrano essere stati influenzati da questo mondo fra l’onirico e il fantastico.
Potrebbe bastare ciò a far comprendere anche solo vagamente la grandezza di Satoshi Kon. Tale bagaglio artistico spazia da un solidissimo comparto sonoro a quello animato: la sigla cantata da una delle protagoniste non è che l’opening stessa del film (!); note nostalgiche e malinconiche pari passo, uno spontaneo accompagnamento di quello spaccato urbano nel quale sin da subito viene gettato lo spettatore, in pasto ad una fossa di frenetici leoni mediatici, un internet giurassico, appena in auge negli ultimi anni del secolo scorso.
C’è una sostenuta e mai interrotta ansia di fondo in un mondo che viaggia sempre a mille, fatto di passaggi pedonali stracolmi, treni che sfrecciano su piccoli quartieri borghesi dai volti tutti uguali, tutti sincronizzati; tutti, nessuno, centomila.
Nuvole rapide all’orizzonte scorrono a velocità innaturale, mentre il sole tramonta dopo l’ennesima, anonima giornata, dietro pinnacoli di vetro e acciaio per sorgere il mattino seguente.
Copia, incolla, e ripeti con me: “sono libero e felice”.

I dettagli fanno sempre la differenza, e la buonanima del sensei riesce a collocarli con tale maestria e con tale precisione da creare un vero e proprio mosaico che sa di capolavoro assoluto; ma come ci si anestetizza al Jet set cinematografico? Di fronte ad una piatta ciclicità, senza accorgercene, annulliamo, smussiamo lentamente i nostri spigoli, limiamo le nostre velleità e le nostre caratteristiche più acute per uniformarci a ciò che pensiamo debba piacerci. Qualsiasi cosa, pur di entrare nel meccanismo stritolante di un sistema che non perdona chi fugge ma accoglie chi ruota al ritmo giusto.
“Welcome to the machine”, cantavano con amara poesia i Pink Floyd nell’immortale The dark side of The moon. Benvenuto nella macchina sociale, adempi al tuo compitino, comportati come ti si addice e farai successo, cara mia, c r e d i m i !
Indossa la tua maschera migliore, spogliati quel che basta e regala alla cinepresa quello che il pubblico brama per noia – o per assuefazione.
Come già accennato, artisticamente siamo ad un livello altissimo: nonostante gli anni, rimane visivamente accattivante ed intriso di saporitissime vibes quasi vintage che trasmettono magia; un chara design espressamente caratteristico ed inconfondibile. Ognuno di questi elementi crea un amalgama gradevole che sprigiona il meglio nelle animazioni (primi piani eccezionalmente espressivi, sguardi e silenzi spaventosamente eloquenti) e nelle scene più importanti della vicenda.

Mima sta quindi cambiando carriera.
Ha deciso di intraprendere la strada da solista, irta di pericoli, compromessi e scommesse, ma, guardandosi allo specchio, continua a farsi forza e coraggio: perché mai non dovrebbe farcela?
Certo, il fatto di fissarsi allo specchio è un modo per guardarsi dentro e spronarsi, infondersi coraggio, determinazione. Tentare di smuovere l’anima.
Ma chi è, esattamente, quella persona allo specchio? È davvero lei stessa?
Quanti aspetti della nostra persona non sappiamo di conoscere, fin quando non si creano le condizioni necessarie nelle quali questo aspetto verrà istintivamente a galla?
I minuti passano e questo slice of life fittizio assume i contorni di un giallo noir, tramutando le consuete sonorità che solitamente accompagnano i lavori di Kon in versioni più cupe e sinistre. Brani sempre più cacofonici e disturbanti prendono per mano lo spettatore e lo accompagnano alle pendici d’una selva oscura, misteriosa, ricca di grattacieli e strade notturne illuminate malamente, ove di tanto in tanto ombre sinistre scivolano al di fuori del campo visivo ispirando inquietudine ed angoscia.
Così, il percorso della protagonista, che da idol sempre sorridente, bambolina perfetta per il sollazzo di migliaia di fanatici diviene attrice disinibita di un mondo corrotto fino al midollo, comincia a sprofondare in una spirale di sfrenata morbosità, esattamente alla stregua di alcune scene che Mima deciderà di accettare pur di continuare a recitare la sua non-parte: scene di sesso, uno stupro di gruppo simulato, mettendo in risalto il marcio della cinematografia di bassa lega, segmenti proposti da Kon in una chiave talmente sofferta, confusa e disturbante tanto da divenire scene animate ormai iconiche a cui tutt’oggi si fa riferimento in quanto pietre miliari dell’animazione moderna.
Ed eccolo, il vero stupro: sotto un brano dal ritmo lento, fastidiosamente cadenzato, i veri violentatori non sono altro che gli usufruitori del prodotto carnale-mediatico, falsi fans accaniti della loro eroina di plastica, attuatori dell’equazione ove la morbosità dello spettatore risulta direttamente proporzionale al bisogno di possedere idoli piuttosto che ideali, sfondo all’interno della cornice di un degrado quotidiano silente, poco accusato, una sorridente depravazione divenuta quasi fenomeno sociale studiato da anni.
Ma fino a che punto possiamo indossare maschere pur di ottenere successo? Dove siamo disposti ad arrivare?
È con disarmante amarezza, che ci si accorge di come Satoshi Kon, tramite Perfect Blue, abbia predetto un futuro traboccante di influencers pronti a rischiare la propria dignità mettendosi in vetrina per quattro soldi, sorridendo senza scrupoli ma contemporaneamente anche senza la minima idea del contraccolpo negativo che certi estremi compromessi possano provocare sulla propria vita e salute mentale. Dipendenti dall’approvazione, drogati di “like”, malati di un successo effimero, proprio come predetto quasi un secolo fa da Andy Warhol.

Il lungometraggio raggiunge l’apice nella parte finale, sondando la coscienza della protagonista, mutando definitivamente in un thriller sottile, incisivo e spietato.
Il progressivo declino della moralità e della psiche sono lo scivolo verso un baratro di follia sempre più buio e miserando; Mima si trova così attanagliata da sensi di colpa ed il rammarico d’aver abbandonato il precedente lavoro che la soddisfava, la confortava e, soprattutto, la definiva; ogni cosa, ora, appare smarrita su questa perigliosa e amara strada del successo mordi e fuggi. Gli avvenimenti macabri cominciano così a susseguirsi senza soluzione di continuità: lettere minatorie, cadaveri inaspettati, un blog di stalker; un mix di surreali paure e ansie dove la protagonista finisce per confondere la finzione nella quale recita con l’amara realtà che la sta consumando.
Ed è qui che Perfect Blue compie un ulteriore, incredibile e inaspettato salto di qualità, elevandosi a mostro sacro dell’animazione moderna: anche lo spettatore si ritrova confuso, non più sicuro se ciò a cui ha assistito fin ora sia realtà narrativa o finzione partorita dalla mente della protagonista, o addirittura finzione fittizia all’interno di una mente che vive una vita parallela e onirica.
Delirio assoluto, script del prodotto pazzesco.

La sequenza finale è arte allo stato liquido, fluidificante d’un climax indimenticabile, un epilogo da manuale ove il dramma si consuma come sul set di un film noir, fra un disturbante ciak e l’altro. Fotogramma dopo fotogramma la visionarietà di Kon scolpisce un epilogo sconcertante, un ibrido di emozioni che lascia a bocca aperta.
Atroce: questo è l’aggettivo che si addice meglio a Perfect Blue.
Lo stesso regista e autore spiegò che il messaggio del film era proprio quello di riuscire a concretizzare e affermare sé stessi nel marasma della società, dove il virtuale talvolta finisce per sovrastare il reale, creando illusioni e viaggi mentali paradossali, e ciò che si considera sano e “comfort zone” può rapidamente mutare in pericolosa, inconsapevole follia.
Inevitabilmente, si sconfina nel metafisico e nel filosofico.
La realtà oggettiva non esiste (?)
Esiste solo una realtà interiore, succube di cambi d’umore, paure, emozioni e di tutto ciò che percepiamo dentro di noi che crea ciò che avviene al nostro esterno. Giochi di riflessi, superfici, specchi, perché è nel nostro riflesso e nella riproduzione di noi stessi che si annida la bugia della realtà oggettiva: il fatto è che il nostro tutto esiste solo per ciò che percepiamo nella nostra testa.
Il talento del compianto, glorioso e indimenticato Satoshi Kon di trasmettere su schermo concetti talmente astratti con ritmo e cadenza memorabili, riesce a segnare lo spettatore per sempre.
A prescindere dai gusti personali, questo è un capolavoro di indiscutibile spessore che eleva il prodotto animato moderno a vero e proprio modello a cui ispirarsi.
Da vedere assolutamente almeno una volta nella vita.