Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
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TRIGUN STAMPEDE
8.5/10
Fra i suoi scritti più noti - riflettendo sulla nostalgia - Alessandro Baricco si domandò se sostanzialmente fosse mai possibile soffrirne per qualcosa che non si è mai vissuto.
La razionalità necessaria per valutare qualsiasi esperienza, è la prima a pagare le spese dell’emotività trasmessa da quel silenzioso terremoto che tutti conosciamo col nome di nostalgia, ed è per questo che, prima di cominciare a scrivere le righe che v’apprestate a leggere, ho riflettuto a lungo e a fondo: per anni, “Trigun” è stato un vero e proprio anime di culto, uno dei miei preferiti di fine Anni Novanta, e una delle storie che più hanno emozionato e coinvolto in assoluto.
Quando ho scoperto che un reboot era alle porte, le emozioni sono state contrastanti - proprio come quelle di tanti altri che vissero esperienze molto simili alla mia. Prevedibili, comprensibili e tediose domande sono sorte nella mia mente: “Era davvero necessario? Perché ultimamente fanno così tanti reboot e remake, non hanno idee originali? Le genialate di vent’anni fa sono solo un lontano ricordo?” Ho lasciato così che codesti quesiti rimanessero sospesi come nuvole incerte in un’alba di speranza, e mi sono tuffato nella visione di quest’opera.
Ebbene, è bastato davvero poco per far sì che il gomitolo di dubbi venisse spazzato via: con tutta l’onestà possibile, posso tranquillamente asserire di aver sperimentato uno dei migliori reboot mai realizzati - forse proprio a causa dei drastici cambiamenti e dei collegamenti al manga che la serie originale del 1998 tralasciò per una serie di motivi che ivi non tratteremo.
La colonna portante è scontata quanto esaltante: v’è un perno intorno al quale “Trigun” è costretto a ruotare, ovvero l’iconico, leggendario protagonista che rende viva e pulsante l’intera vicenda... sto parlando chiaramente di Vash, il “Tifone umanoide”. In “STAMPEDE” lo riscopriamo più umano, meno incline a fare l’idiota o il donnaiolo, e - elemento fondamentale - libero di lasciar trasparire parte della sua profondissima sofferenza attraverso il filtro di quel cuore d’oro che ha fatto innamorare migliaia di fan nel corso di due decenni.
Partiamo dal comparto visivo: confesso di aver sempre detestato gli anime resi totalmente in CG, ma qui siamo di fronte a un lavoro eccezionale: mai vista tanta espressività, intensità e credibile fluidità. Le scene d’azione sono dinamiche, distinte e percettibili; luci, ombre, prospettive e tagli d’inquadratura risultano sempre convincenti. Si potrebbe temere un’algida rigidità riguardo le espressioni dei personaggi, cosa che invece viene lenita a dovere, regalandoci volti caldi, vividi, spontaneamente mutevoli ed empaticamente onesti; le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo in divenire sono tradotti con una naturalezza mai vista prima.
Gli scenari riprendono il classico stile cyber-western della controparte originale, e, fra dune a perdita d’occhio, worm giganteschi che solcano i deserti, libellule della sabbia e antiche rovine ove sorgono residui urbani di ciò che rimane delle tecnologie spaziali perdute, la CG comunica tutta l’afa e l’arsura di un magico, tremendo e sofferto mondo, distante migliaia di anni luce dalla nostra amata e bistrattata Madre Terra. Non siamo certo alla perfezione, poiché (molto raramente, sia chiaro) notiamo sfumature meno fluide e talvolta piccoli passaggi al limite del farraginoso, ma si tratta di inezie che non danneggiano la più che positiva esperienza visiva.
Poi c’è la colonna sonora: un vero e proprio capolavoro.
Alcuni brani sono stati ripresi dal vecchio anime e riadattati, mentre altri scritti ex novo; la opening concorre ad essere la migliore apertura di tutto il 2023, e saltarla a piè pari per correre a vedersi l’episodio andrebbe considerato atto passibile di denuncia, tanto riesce a creare dipendenza! Le note rockeggianti che hanno contraddistinto il primo “Trigun” e l’atmosfera punk/scatenata di fine anni novanta lascia il posto a un tema introspettivo e malinconico, decisamente più in linea con i tratti della narrazione e sicuramente più pertinente. Traspare pura emotività, in linea coi malcelati sentimenti del protagonista; un mix di tristezza, speranza e rastremato ottimismo: istintività al punto giusto che ci introduce all’opera nella maniera più appropriata.
Abbacinato da codesta cornice ricca di buoni propositi, mi sono immerso nella visione, e, nonostante le mie paure, i miei timori e la nostalgia che mi suggeriva pensieri contrarianti, sono rimasto davvero entusiasta.
“TRIGUN STAMPEDE” fonde elementi della serie originale a tratti del manga, mischia segmenti iniziali a parti avanzate cambiando moltissime carte in tavola, stravolgendo in più punti la storia - addirittura in sequenze fondamentali -, riscrivendole attraverso nuovi punti di vista più arditi e profondi, riuscendo a far emergere i dilemmi e le ansie dei protagonisti in modo peculiare e più convincente rispetto al passato; si decide di sacrificare parte della goliardia che ha contraddistinto la serie vintage per donare sfumature più drammatiche e sofferte a tutta la trama. L’esperimento riesce alla grande, anzi: incredibile a dirsi, la qualità generale ne trae sostanziale beneficio. Si ha percezione di un racconto più maturo, volutamente frammentato, che, come un mosaico tagliente e irregolare, emerge episodio dopo episodio, permettendoci di empatizzare con quel sognatore, cuore d’oro, illuso e coraggioso altruista al limite della stupidità che è Vash.
Man mano che le tessere s’allineano, il terribile e desolante quadro generale diviene sempre più chiaro, ma, parallelamente, ci accompagna la speranza di un futuro migliore, nonché la maledetta curiosità di scoprire i misteri e i risvolti d’un passato che ci viene propinato (giustamente) col contagocce, una storia scritta con un intreccio incompiuto e misterioso, dal ritmo crescente e dal sapore di leggende perdute.
Uno dei primi scenari è Jenora Rock, una povera città in mezzo al deserto su un pianeta chiamato “No man’s Land”, globo sul quale gli ultimi esseri umani sono riusciti ad approdare dopo una sequenza di catastrofi che li ha visti quasi estinti. Fra tutte le disgrazie, le carestie, le difficoltà, i delinquenti e la situazione di stenti che i superstiti vivono tutti i giorni dagli anni dopo l’approdo, una fra queste è tanto spaventosa quanto singolare: esiste una persona conosciuta come il “Tifone umanoide”, una vera e propria calamità che terrorizza le genti delle terre circostanti!
Girano voci pazzesche su di lui. Si dice che la sua furia possa spazzare via un intero paese, o addirittura abbia le capacità di sconfiggere in duello qualsiasi avversario o creatura incontri. Qualcuno giura di aver assistito a queste cose, ed è sicuro che l’uomo sia portatore di sventura, una sorta di mostro senza pietà, anche se, incredibile e stranissimo a dirsi, dopo ogni sua esibizione distruttiva, non è mai stata pervenuta alcuna vittima. Cittadini, presenti e malcapitati, si sono sempre salvati tutti... ma come è possibile!?
Le compagnie assicurative sono ormai disperate: Vash “The Stampede” compare all’improvviso, e in seguito accadono avvenimenti assurdi che portano a distruzioni di portata colossale, causando danni da milioni e milioni di doppi dollari (sì, la moneta locale). Esasperati da questa situazione, gli enti in questione mandano due agenti incaricati di individuare e fermare il colpevole: i loro nomi sono Roberto, noto giornalista locale, e la sua giovane apprendista Meryl. Presto, l’ignara coppia, fra alte dune desertiche e città dal retrogusto a metà fra “Star Wars” e western spaghetti alla Sergio Leone, a bordo del loro fuoristrada, scopriranno che il temuto Vash è invero gentile, generoso, e capace di mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare quella di chiunque incontri sul suo cammino.
Dai capelli biondi spettinati, gli occhiali da sole che nascondono uno sguardo ricco di gentilezza e tristezza, l’inconfondibile cappotto rosso fuoco e quella spaventosa pistola alla cintura, Vash non sembra affatto ciò che tutti raccontano.
Ma è davvero lui, il “Tifone umanoide”?
Cosa nasconde veramente? E da dove viene?
Tirando le somme, siamo di fronte a un lavoro eccezionale.
Lo stile dell’amato e iconico eroe è stato fortemente modernizzato. I dettagli sono stati allineati ai tempi correnti (dal look generale agli indumenti), ottenendo un risultato davvero appagante. Nonostante gli archi narrativi siano stati modificati, il modus operandi con cui la narrazione si svolge risulta scorrevole e coinvolgente. Se nella serie di venticinque anni fa si rideva di più (nonostante certi passaggi risultassero poco chiari e confusi), qui troviamo meno elementi comici e più momenti di riflessione. Ciò che un tempo fu tenuto in serbo come una potentissima rivelazione, ora è stato scelto come atroce incipit per introdurre lo spettatore a un (nuovo) mondo crudele eppure affascinante, dalle origini misteriose e dagli esiti oscuri.
Vash è tornato, questo possiamo dirlo forte.
È tornato con il suo modo di fare bislacco, con la sua perenne voglia di dolci, coi suoi sorrisi da apparente imbranato, con il suo passato oscuro e i suoi tremendi, disumani sensi di colpa, circondato dal mitico Nicholas D. Wolfwood, la graziosa e coraggiosa Meryl, e (quasi) tutti quei personaggi che alcuni di voi ricorderanno molto bene. Ed ora può comunicarci una sofferenza che, finalmente, pare riesca ad affiorare spontaneamente. Giustificata, comprensibile, come sarebbe dovuto accadere sin dall’inizio.
“TRIGUN STAMPEDE” riesce nell’intento di far ragionare lo spettatore, portandolo ad affrontare temi legati all’etica della sopravvivenza e della tolleranza, temi decisamente attuali e spigolosi, difficili da trattare, ma altrettanto importanti e accorati: l’ottusità che partorisce ogni tipo di discriminazione, la paura del diverso, l’odio di chi viene discriminato - da cui nasce la voglia di vendetta, e l’odio in risposta ad altro odio.
Cosa è disposto a fare l’uomo pur di sopravvivere? Fin dove ci spingeremmo, pur di salvarci? Esiste un bene superiore per cui azioni che normalmente sono viste come crudeli possano essere considerate addirittura accettabili?
E poi c’è lui, Vash, che ci ricorda che l’Amore e la Gentilezza possono essere forti tanto quanto le armi più letali, capaci di far agire le persone oltre ogni genere di comprensione.
Idealista? Illuso? D’esempio? Una cosa è certa, dopo venticinque anni Vash riesce a commuovere ancora una volta, e, come contrappasso, il minuzioso dualismo con cui sono stati sviluppati protagonista e antagonista riesce a mettere in confusione l’etica dell’osservatore, permettendogli di comprendere le motivazioni e gli ideali che spingono entrambi lungo irti sentieri.
Da tale, atroce scontro, scaturisce una riflessione universale.
Gravi traumi o profonde sofferenze segnano le persone per sempre, ma da questo dolore ci sono due modi di reagire: o diventi il cattivo, o vivi tanto a lungo da prenderti cura di chi soffre come hai sofferto tu.
È come un fardello, un insegnamento straziante, perché dove finisce la coscienza sparisce anche ogni senso di colpa.
Ho cercato di godermi questo nuovo “Trigun” nel modo più distaccato possibile, animo pulito, testa scevra, e ha funzionato: proprio come per quelle parole di Baricco, ho provato nostalgia per qualcosa che non avevo mai visto, anche se a tratti conoscevo. E per un attimo mi sono rivisto seduto a terra, di fronte alla TV con tubo catodico, sintonizzata su MTV durante la magica serata anime, i compiti da finire buttati su letto, seguendo le spericolate avventure del Tifone umanoide. Allora mi sono reso conto che, se proprio dobbiamo valutare qualcosa condizionati dalla nostalgia, è meglio provare a distaccarsi del tutto e trovare l’onestà necessaria per ricordarci il ragazzino che eravamo.
Poche cose sono belle come quando ritrovi un vecchio amico dopo tanti anni, e ti accorgi che sembra cambiato, ma, sotto sotto, è sempre lo stesso.
Questo è il miglior reboot che abbia mai visto.
E dopo venticinque anni, il modo che Vash ha di prendere la vita mi ispira ancora: il mondo potrà essere anche pieno di dolore e sofferenza, ma la violenza e la crudeltà non sono mai la risposta.
La razionalità necessaria per valutare qualsiasi esperienza, è la prima a pagare le spese dell’emotività trasmessa da quel silenzioso terremoto che tutti conosciamo col nome di nostalgia, ed è per questo che, prima di cominciare a scrivere le righe che v’apprestate a leggere, ho riflettuto a lungo e a fondo: per anni, “Trigun” è stato un vero e proprio anime di culto, uno dei miei preferiti di fine Anni Novanta, e una delle storie che più hanno emozionato e coinvolto in assoluto.
Quando ho scoperto che un reboot era alle porte, le emozioni sono state contrastanti - proprio come quelle di tanti altri che vissero esperienze molto simili alla mia. Prevedibili, comprensibili e tediose domande sono sorte nella mia mente: “Era davvero necessario? Perché ultimamente fanno così tanti reboot e remake, non hanno idee originali? Le genialate di vent’anni fa sono solo un lontano ricordo?” Ho lasciato così che codesti quesiti rimanessero sospesi come nuvole incerte in un’alba di speranza, e mi sono tuffato nella visione di quest’opera.
Ebbene, è bastato davvero poco per far sì che il gomitolo di dubbi venisse spazzato via: con tutta l’onestà possibile, posso tranquillamente asserire di aver sperimentato uno dei migliori reboot mai realizzati - forse proprio a causa dei drastici cambiamenti e dei collegamenti al manga che la serie originale del 1998 tralasciò per una serie di motivi che ivi non tratteremo.
La colonna portante è scontata quanto esaltante: v’è un perno intorno al quale “Trigun” è costretto a ruotare, ovvero l’iconico, leggendario protagonista che rende viva e pulsante l’intera vicenda... sto parlando chiaramente di Vash, il “Tifone umanoide”. In “STAMPEDE” lo riscopriamo più umano, meno incline a fare l’idiota o il donnaiolo, e - elemento fondamentale - libero di lasciar trasparire parte della sua profondissima sofferenza attraverso il filtro di quel cuore d’oro che ha fatto innamorare migliaia di fan nel corso di due decenni.
Partiamo dal comparto visivo: confesso di aver sempre detestato gli anime resi totalmente in CG, ma qui siamo di fronte a un lavoro eccezionale: mai vista tanta espressività, intensità e credibile fluidità. Le scene d’azione sono dinamiche, distinte e percettibili; luci, ombre, prospettive e tagli d’inquadratura risultano sempre convincenti. Si potrebbe temere un’algida rigidità riguardo le espressioni dei personaggi, cosa che invece viene lenita a dovere, regalandoci volti caldi, vividi, spontaneamente mutevoli ed empaticamente onesti; le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo in divenire sono tradotti con una naturalezza mai vista prima.
Gli scenari riprendono il classico stile cyber-western della controparte originale, e, fra dune a perdita d’occhio, worm giganteschi che solcano i deserti, libellule della sabbia e antiche rovine ove sorgono residui urbani di ciò che rimane delle tecnologie spaziali perdute, la CG comunica tutta l’afa e l’arsura di un magico, tremendo e sofferto mondo, distante migliaia di anni luce dalla nostra amata e bistrattata Madre Terra. Non siamo certo alla perfezione, poiché (molto raramente, sia chiaro) notiamo sfumature meno fluide e talvolta piccoli passaggi al limite del farraginoso, ma si tratta di inezie che non danneggiano la più che positiva esperienza visiva.
Poi c’è la colonna sonora: un vero e proprio capolavoro.
Alcuni brani sono stati ripresi dal vecchio anime e riadattati, mentre altri scritti ex novo; la opening concorre ad essere la migliore apertura di tutto il 2023, e saltarla a piè pari per correre a vedersi l’episodio andrebbe considerato atto passibile di denuncia, tanto riesce a creare dipendenza! Le note rockeggianti che hanno contraddistinto il primo “Trigun” e l’atmosfera punk/scatenata di fine anni novanta lascia il posto a un tema introspettivo e malinconico, decisamente più in linea con i tratti della narrazione e sicuramente più pertinente. Traspare pura emotività, in linea coi malcelati sentimenti del protagonista; un mix di tristezza, speranza e rastremato ottimismo: istintività al punto giusto che ci introduce all’opera nella maniera più appropriata.
Abbacinato da codesta cornice ricca di buoni propositi, mi sono immerso nella visione, e, nonostante le mie paure, i miei timori e la nostalgia che mi suggeriva pensieri contrarianti, sono rimasto davvero entusiasta.
“TRIGUN STAMPEDE” fonde elementi della serie originale a tratti del manga, mischia segmenti iniziali a parti avanzate cambiando moltissime carte in tavola, stravolgendo in più punti la storia - addirittura in sequenze fondamentali -, riscrivendole attraverso nuovi punti di vista più arditi e profondi, riuscendo a far emergere i dilemmi e le ansie dei protagonisti in modo peculiare e più convincente rispetto al passato; si decide di sacrificare parte della goliardia che ha contraddistinto la serie vintage per donare sfumature più drammatiche e sofferte a tutta la trama. L’esperimento riesce alla grande, anzi: incredibile a dirsi, la qualità generale ne trae sostanziale beneficio. Si ha percezione di un racconto più maturo, volutamente frammentato, che, come un mosaico tagliente e irregolare, emerge episodio dopo episodio, permettendoci di empatizzare con quel sognatore, cuore d’oro, illuso e coraggioso altruista al limite della stupidità che è Vash.
Man mano che le tessere s’allineano, il terribile e desolante quadro generale diviene sempre più chiaro, ma, parallelamente, ci accompagna la speranza di un futuro migliore, nonché la maledetta curiosità di scoprire i misteri e i risvolti d’un passato che ci viene propinato (giustamente) col contagocce, una storia scritta con un intreccio incompiuto e misterioso, dal ritmo crescente e dal sapore di leggende perdute.
Uno dei primi scenari è Jenora Rock, una povera città in mezzo al deserto su un pianeta chiamato “No man’s Land”, globo sul quale gli ultimi esseri umani sono riusciti ad approdare dopo una sequenza di catastrofi che li ha visti quasi estinti. Fra tutte le disgrazie, le carestie, le difficoltà, i delinquenti e la situazione di stenti che i superstiti vivono tutti i giorni dagli anni dopo l’approdo, una fra queste è tanto spaventosa quanto singolare: esiste una persona conosciuta come il “Tifone umanoide”, una vera e propria calamità che terrorizza le genti delle terre circostanti!
Girano voci pazzesche su di lui. Si dice che la sua furia possa spazzare via un intero paese, o addirittura abbia le capacità di sconfiggere in duello qualsiasi avversario o creatura incontri. Qualcuno giura di aver assistito a queste cose, ed è sicuro che l’uomo sia portatore di sventura, una sorta di mostro senza pietà, anche se, incredibile e stranissimo a dirsi, dopo ogni sua esibizione distruttiva, non è mai stata pervenuta alcuna vittima. Cittadini, presenti e malcapitati, si sono sempre salvati tutti... ma come è possibile!?
Le compagnie assicurative sono ormai disperate: Vash “The Stampede” compare all’improvviso, e in seguito accadono avvenimenti assurdi che portano a distruzioni di portata colossale, causando danni da milioni e milioni di doppi dollari (sì, la moneta locale). Esasperati da questa situazione, gli enti in questione mandano due agenti incaricati di individuare e fermare il colpevole: i loro nomi sono Roberto, noto giornalista locale, e la sua giovane apprendista Meryl. Presto, l’ignara coppia, fra alte dune desertiche e città dal retrogusto a metà fra “Star Wars” e western spaghetti alla Sergio Leone, a bordo del loro fuoristrada, scopriranno che il temuto Vash è invero gentile, generoso, e capace di mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare quella di chiunque incontri sul suo cammino.
Dai capelli biondi spettinati, gli occhiali da sole che nascondono uno sguardo ricco di gentilezza e tristezza, l’inconfondibile cappotto rosso fuoco e quella spaventosa pistola alla cintura, Vash non sembra affatto ciò che tutti raccontano.
Ma è davvero lui, il “Tifone umanoide”?
Cosa nasconde veramente? E da dove viene?
Tirando le somme, siamo di fronte a un lavoro eccezionale.
Lo stile dell’amato e iconico eroe è stato fortemente modernizzato. I dettagli sono stati allineati ai tempi correnti (dal look generale agli indumenti), ottenendo un risultato davvero appagante. Nonostante gli archi narrativi siano stati modificati, il modus operandi con cui la narrazione si svolge risulta scorrevole e coinvolgente. Se nella serie di venticinque anni fa si rideva di più (nonostante certi passaggi risultassero poco chiari e confusi), qui troviamo meno elementi comici e più momenti di riflessione. Ciò che un tempo fu tenuto in serbo come una potentissima rivelazione, ora è stato scelto come atroce incipit per introdurre lo spettatore a un (nuovo) mondo crudele eppure affascinante, dalle origini misteriose e dagli esiti oscuri.
Vash è tornato, questo possiamo dirlo forte.
È tornato con il suo modo di fare bislacco, con la sua perenne voglia di dolci, coi suoi sorrisi da apparente imbranato, con il suo passato oscuro e i suoi tremendi, disumani sensi di colpa, circondato dal mitico Nicholas D. Wolfwood, la graziosa e coraggiosa Meryl, e (quasi) tutti quei personaggi che alcuni di voi ricorderanno molto bene. Ed ora può comunicarci una sofferenza che, finalmente, pare riesca ad affiorare spontaneamente. Giustificata, comprensibile, come sarebbe dovuto accadere sin dall’inizio.
“TRIGUN STAMPEDE” riesce nell’intento di far ragionare lo spettatore, portandolo ad affrontare temi legati all’etica della sopravvivenza e della tolleranza, temi decisamente attuali e spigolosi, difficili da trattare, ma altrettanto importanti e accorati: l’ottusità che partorisce ogni tipo di discriminazione, la paura del diverso, l’odio di chi viene discriminato - da cui nasce la voglia di vendetta, e l’odio in risposta ad altro odio.
Cosa è disposto a fare l’uomo pur di sopravvivere? Fin dove ci spingeremmo, pur di salvarci? Esiste un bene superiore per cui azioni che normalmente sono viste come crudeli possano essere considerate addirittura accettabili?
E poi c’è lui, Vash, che ci ricorda che l’Amore e la Gentilezza possono essere forti tanto quanto le armi più letali, capaci di far agire le persone oltre ogni genere di comprensione.
Idealista? Illuso? D’esempio? Una cosa è certa, dopo venticinque anni Vash riesce a commuovere ancora una volta, e, come contrappasso, il minuzioso dualismo con cui sono stati sviluppati protagonista e antagonista riesce a mettere in confusione l’etica dell’osservatore, permettendogli di comprendere le motivazioni e gli ideali che spingono entrambi lungo irti sentieri.
Da tale, atroce scontro, scaturisce una riflessione universale.
Gravi traumi o profonde sofferenze segnano le persone per sempre, ma da questo dolore ci sono due modi di reagire: o diventi il cattivo, o vivi tanto a lungo da prenderti cura di chi soffre come hai sofferto tu.
È come un fardello, un insegnamento straziante, perché dove finisce la coscienza sparisce anche ogni senso di colpa.
Ho cercato di godermi questo nuovo “Trigun” nel modo più distaccato possibile, animo pulito, testa scevra, e ha funzionato: proprio come per quelle parole di Baricco, ho provato nostalgia per qualcosa che non avevo mai visto, anche se a tratti conoscevo. E per un attimo mi sono rivisto seduto a terra, di fronte alla TV con tubo catodico, sintonizzata su MTV durante la magica serata anime, i compiti da finire buttati su letto, seguendo le spericolate avventure del Tifone umanoide. Allora mi sono reso conto che, se proprio dobbiamo valutare qualcosa condizionati dalla nostalgia, è meglio provare a distaccarsi del tutto e trovare l’onestà necessaria per ricordarci il ragazzino che eravamo.
Poche cose sono belle come quando ritrovi un vecchio amico dopo tanti anni, e ti accorgi che sembra cambiato, ma, sotto sotto, è sempre lo stesso.
Questo è il miglior reboot che abbia mai visto.
E dopo venticinque anni, il modo che Vash ha di prendere la vita mi ispira ancora: il mondo potrà essere anche pieno di dolore e sofferenza, ma la violenza e la crudeltà non sono mai la risposta.
Cyberpunk: Edgerunners
6.5/10
Recensione di MephistNecromancer
-
Appena finito di vedere questo anime, e mi ritrovo abbastanza combattuto.
Come al solito, ho aspettato che l'hype scemasse un po' prima di dare una chance all'anime di punta di turno. Da come me ne hanno parlato all'inizio, mi aspettavo un "Black Lagoon" ambientato in un universo cyberpunk, ma quello che ho avuto è stato solamente un'anime d'azione, senza nient'altro di spessore di sottofondo. Le idee e l'universo narrativo c'erano tutte, ma purtroppo hanno deciso di non combinarci niente.
''Inconsistente'' è l'aggettivo perfetto per questo anime.
La storia ci introduce alla vita che avviene a Night City, una distopica città cyberpunk controllata da gigantesche corporazioni in guerra fra di loro per il suprematismo assoluto, per il nostro protagonista: David Martinez. Ragazzo intelligente, ma parecchio ribelle, egli studia all'accademia più importante della città grazie all'aiuto di sua madre Gloria, la quale si spacca il deretano di lavoro per pagargli la retta, sperando di vederlo un giorno al vertice. Sfortunatamente, dato il caos e la malavita presente nei quartieri poveri della città, David e sua madre si ritrovano nel fuoco incrociato di uno scontro fra gang, incidente nel quale, a causa dei costi esorbitanti delle cure mediche, Gloria perderà la vita.
Ormai senza più niente da perdere, David si lascerà impiantare una particolare struttura cibernetica che sua madre aveva rinvenuto durante uno dei suoi lavori illegali, cosa che lo porterà ad incontrare una giovane ed affascinante ladra di chip chiamata Lucy. Da questo incontro, David inizierà una nuova vita da Cyberpunk: un mercenario che si guadagna da vivere facendo pericolosi e sporchi lavori in giro per Night City.
Inizio col dire che il setting, le idee e l'universo per creare qualcosa di parecchio ottimo c'erano. L'incipit e l'inizio della serie ci presentano un mondo cinico, sporco, disilluso e popolato da esseri senza scrupoli che fanno qualsiasi cosa pur di guadagnare denaro. I parallelismi con Black "Lagoon" si sprecano: gruppo di mercenari che vive nelle zone povere di una città disastrata fino ad arrivare a Rebecca, che è paro paro Revy nome compreso. Tutte le buone premesse per essere un Black Lagoon Cyberpunk c'erano, ma cos'è che andato storto? A mio parere è l'inconsistenza di praticamente ogni cosa.
La trama si muove letteralmente su un ottovolante: a volte va a velocità stratosferica come il Sandevistan di David, altre volte rallenta diventando inspiegabilmente bradipesca; ci sono dei timeskip messi un po' a tromba e certe scelte narrative sono state così randomiche che dire affrettate è un complimento. I personaggi pure subiscono lo stesso destino, risultando nient'altro che quello che ti aspetteresti da un tipico anime d'azione, ed è proprio questo quello che "Cyberpunk: Edgerunners" ha scelto di essere: niente di più che un anime ''badass swag'' per mostrarci quanto sono tamarri i protagonisti. Peccato, perché David, Lucy, Maine e Rebecca mi piacciono e vorrei che avessero fatto di più con loro.
Proprio un peccato.
Anche dal lato tecnico abbiamo una qualità parecchio inconsistente: a volte, soprattutto nella prima parte, abbiamo dei disegni dannatamente perfetti e d'impatto, con un character design azzeccatissimo (David, Lucy e Rebecca in particolare), ma altre volte abbiamo animazioni e modelli che sembrano inspiegabilmente fatti con i piedi di un mutilato, soprattutto a serie inoltrata, al punto che mi viene da pensare che abbiano finito il budget. Le musiche, molto punk e hip hop, mi sono piaciute. Opening ed ending sono ok.
Un'opportunità mancata, ecco come mi viene di riassumere "Cyberpunk: Edgerunners". Non ho né letto il libro né giocato il gioco, quindi non so se lì riescono a fare di meglio, ma questo anime è stato leggermente deludente: c'era il potenziale per un qualcosa di estremamente bello e coinvolgente, ma hanno scelto di realizzare un semplicissimo anime tamarro e ricco di stereotipi, quindi per me non va oltre il sei e mezzo-sette, che arrotondo per difetto perché non ci saranno sequel in grado di aggiustare il tutto.
Come al solito, ho aspettato che l'hype scemasse un po' prima di dare una chance all'anime di punta di turno. Da come me ne hanno parlato all'inizio, mi aspettavo un "Black Lagoon" ambientato in un universo cyberpunk, ma quello che ho avuto è stato solamente un'anime d'azione, senza nient'altro di spessore di sottofondo. Le idee e l'universo narrativo c'erano tutte, ma purtroppo hanno deciso di non combinarci niente.
''Inconsistente'' è l'aggettivo perfetto per questo anime.
La storia ci introduce alla vita che avviene a Night City, una distopica città cyberpunk controllata da gigantesche corporazioni in guerra fra di loro per il suprematismo assoluto, per il nostro protagonista: David Martinez. Ragazzo intelligente, ma parecchio ribelle, egli studia all'accademia più importante della città grazie all'aiuto di sua madre Gloria, la quale si spacca il deretano di lavoro per pagargli la retta, sperando di vederlo un giorno al vertice. Sfortunatamente, dato il caos e la malavita presente nei quartieri poveri della città, David e sua madre si ritrovano nel fuoco incrociato di uno scontro fra gang, incidente nel quale, a causa dei costi esorbitanti delle cure mediche, Gloria perderà la vita.
Ormai senza più niente da perdere, David si lascerà impiantare una particolare struttura cibernetica che sua madre aveva rinvenuto durante uno dei suoi lavori illegali, cosa che lo porterà ad incontrare una giovane ed affascinante ladra di chip chiamata Lucy. Da questo incontro, David inizierà una nuova vita da Cyberpunk: un mercenario che si guadagna da vivere facendo pericolosi e sporchi lavori in giro per Night City.
Inizio col dire che il setting, le idee e l'universo per creare qualcosa di parecchio ottimo c'erano. L'incipit e l'inizio della serie ci presentano un mondo cinico, sporco, disilluso e popolato da esseri senza scrupoli che fanno qualsiasi cosa pur di guadagnare denaro. I parallelismi con Black "Lagoon" si sprecano: gruppo di mercenari che vive nelle zone povere di una città disastrata fino ad arrivare a Rebecca, che è paro paro Revy nome compreso. Tutte le buone premesse per essere un Black Lagoon Cyberpunk c'erano, ma cos'è che andato storto? A mio parere è l'inconsistenza di praticamente ogni cosa.
La trama si muove letteralmente su un ottovolante: a volte va a velocità stratosferica come il Sandevistan di David, altre volte rallenta diventando inspiegabilmente bradipesca; ci sono dei timeskip messi un po' a tromba e certe scelte narrative sono state così randomiche che dire affrettate è un complimento. I personaggi pure subiscono lo stesso destino, risultando nient'altro che quello che ti aspetteresti da un tipico anime d'azione, ed è proprio questo quello che "Cyberpunk: Edgerunners" ha scelto di essere: niente di più che un anime ''badass swag'' per mostrarci quanto sono tamarri i protagonisti. Peccato, perché David, Lucy, Maine e Rebecca mi piacciono e vorrei che avessero fatto di più con loro.
Proprio un peccato.
Anche dal lato tecnico abbiamo una qualità parecchio inconsistente: a volte, soprattutto nella prima parte, abbiamo dei disegni dannatamente perfetti e d'impatto, con un character design azzeccatissimo (David, Lucy e Rebecca in particolare), ma altre volte abbiamo animazioni e modelli che sembrano inspiegabilmente fatti con i piedi di un mutilato, soprattutto a serie inoltrata, al punto che mi viene da pensare che abbiano finito il budget. Le musiche, molto punk e hip hop, mi sono piaciute. Opening ed ending sono ok.
Un'opportunità mancata, ecco come mi viene di riassumere "Cyberpunk: Edgerunners". Non ho né letto il libro né giocato il gioco, quindi non so se lì riescono a fare di meglio, ma questo anime è stato leggermente deludente: c'era il potenziale per un qualcosa di estremamente bello e coinvolgente, ma hanno scelto di realizzare un semplicissimo anime tamarro e ricco di stereotipi, quindi per me non va oltre il sei e mezzo-sette, che arrotondo per difetto perché non ci saranno sequel in grado di aggiustare il tutto.
Rhea Gall Force
7.0/10
Quarto capitolo in ordine cronologico dell'epica spaziale inaugurata da "Eternal Story", questo "Rhea Gall Force" è al tempo stesso un seguito ma anche una "riscrittura" della storia originale. Se nella prima trilogia veniva raccontata una guerra galattica tra due civiltà, Solnoids e Paranoids, in questo capitolo il focus si sposta esclusivamente sul pianeta Terra, nel prossimo futuro, riproponendo il tema bellico, ma declinandolo secondo una prospettiva completamente diversa e per certi versi più "canonica".
I personaggi sono tutti nuovi rispetto alle vicende di "Gall Force Eternal Story", ma in realtà sono una riproposizione degli originali: Sandy è la nuova protagonista, ma è identica a Rabby, Score è la guerriera scanzonata esattamente come Luffy, l'austera Fortin è una riproposizione di Eluza, e così via.
A creare una continuità storica con le vicende del primo film è il ritrovamento di una antica astronave aliena sulla Luna (che poi non è altro che l'astronave utilizzata per la fuga dalle ragazze del film originale), che custodisce avanzatissime tecnologie ancora sconosciute all'umanità.
La scoperta si rivela però un'arma a doppio taglio: la nuova tecnologia viene infatti applicata nell'industria bellica e nell'intelligenza artificiale, determinando la nascita di una nuova generazione di robot da guerra, chiamati MME, talmente avanzati da rendersi indipendenti dai loro creatori umani. La vicenda di "Rhea Gall Force" inizia proprio qui, su una Terra ormai assediata dalle macchine ribelli, che hanno decimato l'umanità, ormai costretta a nascondersi e combattere per la sopravvivenza.
Tra le fila della resistenza c'è anche Sandy Newman, figlia del celebre ricercatore Dottor Newman, una coraggiosa guerrigliera determinata a portare a termine l'operazione Exodus, ovvero l'ultimo disperato tentativo delle forze terrestri per evacuare la popolazione civile verso le colonie umane su Marte.
In questo nuovo capitolo, nonostante il tema ricorrente della sopravvivenza già comparso nei predecessori, non ci sono più scene di combattimento spaziale, ma soprattutto scompare totalmente la contrapposizione/attrazione tra le due razze protagoniste (una maschile e una femminile), che era poi il fulcro di "Eternal Story". Gli umani di "Rhea Gall Force" sono gli eredi delle due antiche civiltà, delle quali hanno ereditato il DNA insieme a una naturale propensione al conflitto.
Come per la prima trilogia, anche su questo OAV si avverte l'influenza del cinema di fantascienza contemporaneo: se Rabby e le sue compagne pagavano pegno ad "Alien" e alla sci-fi spaziale dei decenni precedenti, pur amalgamando il tutto in un intreccio piuttosto originale, Sandy e il suo team invece si muovono sullo sfondo di uno scenario terrestre tetro e desolato che sembra uscire dall'immaginario futuro di "Terminator".
Si tenga conto che questo OAV è il primo capitolo di una nuova serie, che sarà poi sviluppata dal trittico di "Gall Force Earth Chapter", ma secondo me ne resta di fatto l'episodio più significativo, proprio perché segna un radicale cambio di paradigma rispetto al passato, oltre al fatto che è nettamente l'episodio migliore, dal punto di vista tecnico, dell'epopea "terrestre" di "Gall Force".
Il tratto dei personaggi è fedele all'originale, con una grande attenzione al mecha design e al ritratto dei mezzi da battaglia; anche le animazioni in genere sono fluide, risultando paragonabili a quelle del film "Gall Force Eternal Story". Purtroppo questo trend si interromperà negli episodi successivi di "Earth Chapter", decisamente meno brillanti nella realizzazione tecnica (ma questo sarà oggetto di una recensione a parte).
Nel complesso, "Rhea Gall Force" è un anime godibile ma anche meno "emozionante", se paragonato al capostipite "Gall Force Eternal Story". Rispetto a quest'ultimo segna una netta variazione sul tema (se meglio o peggio è un gusto soggettivo, io personalmente preferivo l'originalità della prima storia), pur conservando una continuità con l'intera saga dal punto di vista stilistico, sulla scelta dei personaggi e nella centralità del tema guerresco.
Quel che è certo è che la vicenda delle nuove guerrigliere perde un po' quell'elemento epico che faceva capolino nei predecessori e li rendeva speciali; qui c'è piuttosto una narrazione più matura, quasi priva di dell'elemento ecchi (ho detto quasi...), nonché una maggiore seriosità dei toni che mette in risalto la drammaticità della situazione, anche se i personaggi nelle loro azioni sono pur sempre guidati dalla speranza di un futuro migliore.
Nel complesso, mettendo sulla bilancia la buona componente visiva e una sceneggiatura accettabile ma non troppo ispirata, direi che "Rhea Gall Force" si guadagna una sufficienza abbondante, ma resta uno sviluppo "accessorio" e comunque meno brillante rispetto all'epopea originale delle guerriere galattiche, la cui storia si era conclusa l'anno precedente con la pubblicazione di "Gall Force Stardust War".
I personaggi sono tutti nuovi rispetto alle vicende di "Gall Force Eternal Story", ma in realtà sono una riproposizione degli originali: Sandy è la nuova protagonista, ma è identica a Rabby, Score è la guerriera scanzonata esattamente come Luffy, l'austera Fortin è una riproposizione di Eluza, e così via.
A creare una continuità storica con le vicende del primo film è il ritrovamento di una antica astronave aliena sulla Luna (che poi non è altro che l'astronave utilizzata per la fuga dalle ragazze del film originale), che custodisce avanzatissime tecnologie ancora sconosciute all'umanità.
La scoperta si rivela però un'arma a doppio taglio: la nuova tecnologia viene infatti applicata nell'industria bellica e nell'intelligenza artificiale, determinando la nascita di una nuova generazione di robot da guerra, chiamati MME, talmente avanzati da rendersi indipendenti dai loro creatori umani. La vicenda di "Rhea Gall Force" inizia proprio qui, su una Terra ormai assediata dalle macchine ribelli, che hanno decimato l'umanità, ormai costretta a nascondersi e combattere per la sopravvivenza.
Tra le fila della resistenza c'è anche Sandy Newman, figlia del celebre ricercatore Dottor Newman, una coraggiosa guerrigliera determinata a portare a termine l'operazione Exodus, ovvero l'ultimo disperato tentativo delle forze terrestri per evacuare la popolazione civile verso le colonie umane su Marte.
In questo nuovo capitolo, nonostante il tema ricorrente della sopravvivenza già comparso nei predecessori, non ci sono più scene di combattimento spaziale, ma soprattutto scompare totalmente la contrapposizione/attrazione tra le due razze protagoniste (una maschile e una femminile), che era poi il fulcro di "Eternal Story". Gli umani di "Rhea Gall Force" sono gli eredi delle due antiche civiltà, delle quali hanno ereditato il DNA insieme a una naturale propensione al conflitto.
Come per la prima trilogia, anche su questo OAV si avverte l'influenza del cinema di fantascienza contemporaneo: se Rabby e le sue compagne pagavano pegno ad "Alien" e alla sci-fi spaziale dei decenni precedenti, pur amalgamando il tutto in un intreccio piuttosto originale, Sandy e il suo team invece si muovono sullo sfondo di uno scenario terrestre tetro e desolato che sembra uscire dall'immaginario futuro di "Terminator".
Si tenga conto che questo OAV è il primo capitolo di una nuova serie, che sarà poi sviluppata dal trittico di "Gall Force Earth Chapter", ma secondo me ne resta di fatto l'episodio più significativo, proprio perché segna un radicale cambio di paradigma rispetto al passato, oltre al fatto che è nettamente l'episodio migliore, dal punto di vista tecnico, dell'epopea "terrestre" di "Gall Force".
Il tratto dei personaggi è fedele all'originale, con una grande attenzione al mecha design e al ritratto dei mezzi da battaglia; anche le animazioni in genere sono fluide, risultando paragonabili a quelle del film "Gall Force Eternal Story". Purtroppo questo trend si interromperà negli episodi successivi di "Earth Chapter", decisamente meno brillanti nella realizzazione tecnica (ma questo sarà oggetto di una recensione a parte).
Nel complesso, "Rhea Gall Force" è un anime godibile ma anche meno "emozionante", se paragonato al capostipite "Gall Force Eternal Story". Rispetto a quest'ultimo segna una netta variazione sul tema (se meglio o peggio è un gusto soggettivo, io personalmente preferivo l'originalità della prima storia), pur conservando una continuità con l'intera saga dal punto di vista stilistico, sulla scelta dei personaggi e nella centralità del tema guerresco.
Quel che è certo è che la vicenda delle nuove guerrigliere perde un po' quell'elemento epico che faceva capolino nei predecessori e li rendeva speciali; qui c'è piuttosto una narrazione più matura, quasi priva di dell'elemento ecchi (ho detto quasi...), nonché una maggiore seriosità dei toni che mette in risalto la drammaticità della situazione, anche se i personaggi nelle loro azioni sono pur sempre guidati dalla speranza di un futuro migliore.
Nel complesso, mettendo sulla bilancia la buona componente visiva e una sceneggiatura accettabile ma non troppo ispirata, direi che "Rhea Gall Force" si guadagna una sufficienza abbondante, ma resta uno sviluppo "accessorio" e comunque meno brillante rispetto all'epopea originale delle guerriere galattiche, la cui storia si era conclusa l'anno precedente con la pubblicazione di "Gall Force Stardust War".
Stesso discorso per Edgerunners, anche se ho preferito la prima parte, dalla seconda mi è calata un po, però il finale mi è piaciuto.
Si tratta di un lavoro coraggioso che non si fa scrupoli ad esagerare e non si lascia cadere nel cliché per accontentare i fan o roba del genere ed è venuta fuori un'opera che sta benissimo in piedi da sola anche senza sapere a cosa si è ispirata.
Per il discorso sulle animazioni non saprei che dire, non sono un esperto però studio Trigger non mi pare ci sia andato leggero neanche qui, come al suo solito.
Per quanto riguarda “Cyberpunk: Edgerunners”, l’ho visto ma non mi ha particolarmente preso.
I miei voti:
- Trigun Stampede 7,5
- Trigun '98 9
- Cyberpunk: Edgerunners 7
La prima recensione quella su Stampede, mi ha colpito molto e ho colto benissimo il concetto di 'nostalgia' legato a certi vecchi anime che appartengono alla nostra gioventù, ho ritrovato le stesse identiche domande che mi sono posta anche io riguardo a certi remake (veri o presunti di cui si parla da anni) di serie a cui sono molto legata.
Concordo che bisogna provare a porsi davanti a questi reboot senza pregiudizi ritrovando quello sguardo di fanciulli che avevamo allora, io l'ho fatto, e almeno in un paio di casi ho avuto delle belle sorprese; comunque mi è venuta voglia di scoprire questa serie che non conosco affatto.
spero ti piaccia, è davvero ben fatta
Tralaltro mi avete convinto a vedere Stampede...purtroppo avendo amato Trigun da ogni punto di vista questa serie finora mi ha respinto...cercherò di andare oltre i miei limiti di t-rex degli otaku!
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