Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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Tamayomi
5.5/10
A giusto un anno di distanza da “Cinderella Nine”, anche se, con le stagioni che si accavallano, i due titoli parevano quasi contemporanei, i palinsesti anime nipponici hanno proposto una nuova storia dedicata al baseball femminile, “TamaYomi”, vetrina ora non per un gioco da cellulari ma per l’omonimo manga seinen di Mountain Pukichi.
Il titolo dell’opera ne racchiude l’essenza stessa: Tama sarebbe Tamaki Yamazaki (ricevitrice), solida giocatrice dei tempi delle scuole medie e amica d’infanzia di Yomi Takeda (lanciatrice), che invece alle medie non era riuscita a esprimersi per vari motivi. Per caso le due amiche si incontrano alle superiori e riformano la loro batteria (coppia fissa lanciatore-ricevitore) nella squadra del liceo, che però è tutta da ricostruire.
Come si può intuire dalle premesse, in “TamaYomi” la carineria viene in seconda battuta rispetto ad altro, per cui le ragazze protagoniste non fanno cose carine, ma si allenano e riallenano in pozze di sudore, fango e magari anche sangue. Ne segue poi una buona dose di agonismo nelle partite con avversarie a volte toste e magari anche un po’ infami.
Comunque sia, non siamo di certo davanti alla versione in gonnella di Shingo Tamai e dei relativi superboys (il genere altrimenti sarebbe stato horror...), perché nella squadra qualcuno che sdrammatizza quando serve c’è sempre. Qui questo ruolo è affidato alle gemelline Yoshino e Ibuki, le prime due compagne che Tama e Yomi riescono a “reclutare”, che ricoprono anche il ruolo delle principianti che giocano da poco insieme alla svampita “oujou-sama” Shiragiku.
Poiché è sul gioco che ci si concentra maggiormente, ecco che nella serie abbonda assai l’uso del gergo tecnico del baseball con molti termini, magari comuni per lo spettatore nipponico ma meno per noi altri, da ricercare nel significato dopo o durante la visione.
Ci sono delle cose che non vanno in “TamaYomi” che, a mio avviso, stanno in buona parte nel comparto grafico, in generale sotto la media della scena attuale e anche disastroso in alcuni frangenti, con una computer grafica di bassa lega ad aggravare. Aggiungerei poi che i colori mi sono sembrati spesso spenti (o comunque poco brillanti) e che le ragazze non sono carine. Logico, in ottica realistica, il non trovarsi davanti giocatrici con fisici da top model (almeno una però c’è), ma un pochino di fanservice non avrebbe guastato.
Si fa fatica poi a entrare in empatia con i personaggi, specialmente nella prima parte della serie, dove la concentrazione di allenamenti e tecnicismi è più alta. Si sale però di tono quando si passa al torneo interscolastico, dove la neonata squadra di Tama e Yomi finisce per affrontare una specie di Real Madrid della categoria, un po’ come accede in “Slam Dunk” col Sannoh, se vogliamo. Pure qui comunque non è che le due protagoniste brillino, per contro emergono gli assi della squadra avversaria.
Non pervenuto direi il comparto musicale a eccezione della opening.
Mettendo a confronto “TamaYomi” con “Cinderella Nine”, per il sottoscritto vince sicuramente il secondo. “TamaYomi” non è malvagio e un po’ esce sulla distanza, ma il non buon comparto grafico e il “difetto di simpatia” gli fanno perdere punti. Piacerà di più magari a chi preferisce un approccio più realistico e i tecnicismi sportivi.
Il titolo dell’opera ne racchiude l’essenza stessa: Tama sarebbe Tamaki Yamazaki (ricevitrice), solida giocatrice dei tempi delle scuole medie e amica d’infanzia di Yomi Takeda (lanciatrice), che invece alle medie non era riuscita a esprimersi per vari motivi. Per caso le due amiche si incontrano alle superiori e riformano la loro batteria (coppia fissa lanciatore-ricevitore) nella squadra del liceo, che però è tutta da ricostruire.
Come si può intuire dalle premesse, in “TamaYomi” la carineria viene in seconda battuta rispetto ad altro, per cui le ragazze protagoniste non fanno cose carine, ma si allenano e riallenano in pozze di sudore, fango e magari anche sangue. Ne segue poi una buona dose di agonismo nelle partite con avversarie a volte toste e magari anche un po’ infami.
Comunque sia, non siamo di certo davanti alla versione in gonnella di Shingo Tamai e dei relativi superboys (il genere altrimenti sarebbe stato horror...), perché nella squadra qualcuno che sdrammatizza quando serve c’è sempre. Qui questo ruolo è affidato alle gemelline Yoshino e Ibuki, le prime due compagne che Tama e Yomi riescono a “reclutare”, che ricoprono anche il ruolo delle principianti che giocano da poco insieme alla svampita “oujou-sama” Shiragiku.
Poiché è sul gioco che ci si concentra maggiormente, ecco che nella serie abbonda assai l’uso del gergo tecnico del baseball con molti termini, magari comuni per lo spettatore nipponico ma meno per noi altri, da ricercare nel significato dopo o durante la visione.
Ci sono delle cose che non vanno in “TamaYomi” che, a mio avviso, stanno in buona parte nel comparto grafico, in generale sotto la media della scena attuale e anche disastroso in alcuni frangenti, con una computer grafica di bassa lega ad aggravare. Aggiungerei poi che i colori mi sono sembrati spesso spenti (o comunque poco brillanti) e che le ragazze non sono carine. Logico, in ottica realistica, il non trovarsi davanti giocatrici con fisici da top model (almeno una però c’è), ma un pochino di fanservice non avrebbe guastato.
Si fa fatica poi a entrare in empatia con i personaggi, specialmente nella prima parte della serie, dove la concentrazione di allenamenti e tecnicismi è più alta. Si sale però di tono quando si passa al torneo interscolastico, dove la neonata squadra di Tama e Yomi finisce per affrontare una specie di Real Madrid della categoria, un po’ come accede in “Slam Dunk” col Sannoh, se vogliamo. Pure qui comunque non è che le due protagoniste brillino, per contro emergono gli assi della squadra avversaria.
Non pervenuto direi il comparto musicale a eccezione della opening.
Mettendo a confronto “TamaYomi” con “Cinderella Nine”, per il sottoscritto vince sicuramente il secondo. “TamaYomi” non è malvagio e un po’ esce sulla distanza, ma il non buon comparto grafico e il “difetto di simpatia” gli fanno perdere punti. Piacerà di più magari a chi preferisce un approccio più realistico e i tecnicismi sportivi.
Black-Box
6.5/10
“Black-Box” è un manga seinen nato dalla mente di Tsutomu Takahashi, autore dei più celebri “Detonation Islands” e “Neun”. Serializzato sulla rivista di manga seinen Monthly Afternoon di Kodansha da giugno 2015 a marzo 2019, “Black-Box” rappresenta il tentativo di Takahashi di unire, in un’unica serie da sei volumi, due generi storicamente agli antipodi: seinen e spokon.
Il protagonista della storia è Ishida Ryoga, un ragazzo con la passione per il pugilato, che sfoga nello sport una situazione familiare estremamente complicata. Il padre, ex pugile professionista, ed il fratello maggiore sono entrambi in carcere, accusati di omicidio, tant’è che i giornalisti hanno affibbiato loro l’appellativo poco simpatico di “famiglia di assassini”. Il giorno dell’esordio di Ryoga nel mondo del pugilato professionistico tutti i riflettori sono puntati su di lui, il giovane membro della famiglia di assassini, pronto a mostrare sul ring la sua vera natura. La storia segue la breve ma intensa carriera di Ryoga nel pugilato professionistico, dagli esordi, alla rivalità con Shido Leon, fino al ritiro.
“Black-Box” porta con sé alcuni dei tratti caratteristici dei manga di Takahashi, che lo rendono uno dei mangaka da me più apprezzati e seguiti in assoluto. La proposta è sempre la stessa: un manga breve, di quarantadue capitoli divisi in sei volumi, di facile lettura. Per ogni capitolo, pochi dialoghi e molto spazio lasciato alle espressioni dei protagonisti, che spesso si vanno a sostituire alle parole, e alla contemplazione delle ambientazioni che l’autore ci regala. Per rendere meglio l’idea, ogni volume, fatta eccezione per l’ultimo, ha un tempo di lettura di circa venticinque minuti. Non siamo, dunque, lontani da un manga come “Neun”, ma una scelta di questo tipo comporta, per forza di cose, una serie di limiti. Innanzitutto, la penuria di dialoghi non permette al lettore di entrare in empatia con i personaggi. Più delle espressioni facciali o dei semplici gesti, sono le parole che ci permettono di comprendere a pieno la psicologia dei personaggi e solo dopo aver superato questo passaggio intermedio è possibile creare quei legami che si instaurano con i protagonisti di opere ben più longeve. In seconda battuta, ovviamente, l’opzione brevità non lascia molto spazio all’autore per dispiegare la propria storia, che, come in questo caso, risulta fin troppo accelerata, soprattutto nel finale. Meno volumi con pochi dialoghi è sinonimo di leggerezza e piacevolezza, ma allo stesso tempo anche di mancanza di pathos. Per quel che mi riguarda, le grandi storie si costruiscono con e nel tempo, vedasi “One Piece”, e “Black-Box”, forse, se ne prende troppo poco. Altro elemento sinonimo di familiarità è il tratto inconfondibile dell’autore. La prima volta che sfogliai, quasi per caso, le pagine di “Black-Box” non ebbi bisogno di andare a controllare il nome sulla copertina; il disegno da solo mi bastò per capire che si trattava di un manga di Tsutomu Takahashi. Spigoloso e sporco, il suo tratto rappresenta, come per tutte le altre sue opere, un grande punto di forza, che, nel caso specifico di “Black-Box”, gli consente di adempiere degnamente ad un compito ostico, come disegnare dei combattimenti. In questo soprattutto, a mio avviso, si nota la grandezza di un autore e Takahashi riesce ad essere sempre chiaro, mai oscuro, andando, almeno in questo caso, contro le mie più rosee aspettative. Al grande disegno, fa da contraltare una storia poco sviluppata e deludente, almeno nel finale. Il manga parte bene, con tre volumi che si mantengono su un ottimo livello. Vengono introdotti i personaggi, la loro storia, i motivi che li hanno portati lì dove sono e vediamo Ryoga brillare nei primi combattimenti. Le cose precipitano con l’ingresso sulla scena del rivale Shido Leon e la scelta di organizzare un incontro tra i due. Non mi dilungherò molto, ma tra minacce, aggressioni fuori dal ring e sputi il quarto volume mi ha profondamente turbato, dandomi l’impressione che si stesse perdendo il focus della storia: la crescita sportiva e umana di Ryoga. Dal quinto volume in poi, purtroppo, il manga non si riprende più. Accadono fin troppe cose troppo velocemente e la storia perde il suo ritmo naturale, diventando esageratamente confusionaria. Il finale è anonimo e non regala emozioni, lasciando in bocca un sapore amaro e il pensiero di quello che “Black-Box” avrebbe potuto essere se Takahashi si fosse preso più volumi per orchestrare meglio la propria storia e avesse tratto un po’ più di ispirazione da un caposaldo dello spokon come “Rocky Joe”.
In conclusione, non nego che al termine dell’ultimo volume “Black-Box” mi abbia lasciato deluso, ma credo che per ogni seguace di Takahashi questa sia una lettura obbligatoria.
Il protagonista della storia è Ishida Ryoga, un ragazzo con la passione per il pugilato, che sfoga nello sport una situazione familiare estremamente complicata. Il padre, ex pugile professionista, ed il fratello maggiore sono entrambi in carcere, accusati di omicidio, tant’è che i giornalisti hanno affibbiato loro l’appellativo poco simpatico di “famiglia di assassini”. Il giorno dell’esordio di Ryoga nel mondo del pugilato professionistico tutti i riflettori sono puntati su di lui, il giovane membro della famiglia di assassini, pronto a mostrare sul ring la sua vera natura. La storia segue la breve ma intensa carriera di Ryoga nel pugilato professionistico, dagli esordi, alla rivalità con Shido Leon, fino al ritiro.
“Black-Box” porta con sé alcuni dei tratti caratteristici dei manga di Takahashi, che lo rendono uno dei mangaka da me più apprezzati e seguiti in assoluto. La proposta è sempre la stessa: un manga breve, di quarantadue capitoli divisi in sei volumi, di facile lettura. Per ogni capitolo, pochi dialoghi e molto spazio lasciato alle espressioni dei protagonisti, che spesso si vanno a sostituire alle parole, e alla contemplazione delle ambientazioni che l’autore ci regala. Per rendere meglio l’idea, ogni volume, fatta eccezione per l’ultimo, ha un tempo di lettura di circa venticinque minuti. Non siamo, dunque, lontani da un manga come “Neun”, ma una scelta di questo tipo comporta, per forza di cose, una serie di limiti. Innanzitutto, la penuria di dialoghi non permette al lettore di entrare in empatia con i personaggi. Più delle espressioni facciali o dei semplici gesti, sono le parole che ci permettono di comprendere a pieno la psicologia dei personaggi e solo dopo aver superato questo passaggio intermedio è possibile creare quei legami che si instaurano con i protagonisti di opere ben più longeve. In seconda battuta, ovviamente, l’opzione brevità non lascia molto spazio all’autore per dispiegare la propria storia, che, come in questo caso, risulta fin troppo accelerata, soprattutto nel finale. Meno volumi con pochi dialoghi è sinonimo di leggerezza e piacevolezza, ma allo stesso tempo anche di mancanza di pathos. Per quel che mi riguarda, le grandi storie si costruiscono con e nel tempo, vedasi “One Piece”, e “Black-Box”, forse, se ne prende troppo poco. Altro elemento sinonimo di familiarità è il tratto inconfondibile dell’autore. La prima volta che sfogliai, quasi per caso, le pagine di “Black-Box” non ebbi bisogno di andare a controllare il nome sulla copertina; il disegno da solo mi bastò per capire che si trattava di un manga di Tsutomu Takahashi. Spigoloso e sporco, il suo tratto rappresenta, come per tutte le altre sue opere, un grande punto di forza, che, nel caso specifico di “Black-Box”, gli consente di adempiere degnamente ad un compito ostico, come disegnare dei combattimenti. In questo soprattutto, a mio avviso, si nota la grandezza di un autore e Takahashi riesce ad essere sempre chiaro, mai oscuro, andando, almeno in questo caso, contro le mie più rosee aspettative. Al grande disegno, fa da contraltare una storia poco sviluppata e deludente, almeno nel finale. Il manga parte bene, con tre volumi che si mantengono su un ottimo livello. Vengono introdotti i personaggi, la loro storia, i motivi che li hanno portati lì dove sono e vediamo Ryoga brillare nei primi combattimenti. Le cose precipitano con l’ingresso sulla scena del rivale Shido Leon e la scelta di organizzare un incontro tra i due. Non mi dilungherò molto, ma tra minacce, aggressioni fuori dal ring e sputi il quarto volume mi ha profondamente turbato, dandomi l’impressione che si stesse perdendo il focus della storia: la crescita sportiva e umana di Ryoga. Dal quinto volume in poi, purtroppo, il manga non si riprende più. Accadono fin troppe cose troppo velocemente e la storia perde il suo ritmo naturale, diventando esageratamente confusionaria. Il finale è anonimo e non regala emozioni, lasciando in bocca un sapore amaro e il pensiero di quello che “Black-Box” avrebbe potuto essere se Takahashi si fosse preso più volumi per orchestrare meglio la propria storia e avesse tratto un po’ più di ispirazione da un caposaldo dello spokon come “Rocky Joe”.
In conclusione, non nego che al termine dell’ultimo volume “Black-Box” mi abbia lasciato deluso, ma credo che per ogni seguace di Takahashi questa sia una lettura obbligatoria.
“One Outs: Nobody Wins, but I!” è una serie composta da venticinque episodi, di genere sportivo e psicologico.
Se all’apparenza possono sembra due temi abbastanza inconciliabili, essendo il primo basato fortemente sulle prestazioni atletiche dei principali comprimari e il secondo prevalentemente inerente alla sfera più emotiva e introspettiva, “One Outs” ci dimostra invece il contrario, cioè che non solo l’unione di queste due tipologie di genere è possibile, ma anzi riuscirà a creare una narrazione irresistibile e magnetica.
La particolarità della serie è il riuscire a non dimenticare mai la presenza di una delle due componenti, controbilanciandole e fondendole con precisione e parsimonia, dosando minuziosamente, in base alle necessità, una componente rispetto all’altra.
Entrando più nel dettaglio della trama, immediatamente la serie ci presenta uno dei principali protagonisti della serie, Hiromichi Kojima, battitore di baseball professionista, che, a causa di diverse vicissitudini, si troverà ad avere a che fare con il secondo e vero “show man” della serie, cioè Toua Tokuchi, un giocatore d’azzardo, dalle fenomenali capacità come lanciatore di baseball.
La trama proseguirà seguendo la falsariga di un banale anime spokon, cioè con un susseguirsi di partite di baseball, che già di per sé può avere un valido valore d’intrattenimento; oltre a ciò si aggiunge la sopracitata componente psicologica, essendoci dietro all’intera lega un machiavellico gioco d’azzardo tra Tokuchi e il presidente del club in cui andrà a militare il nostro beniamino, i Lycaons.
Il cast della serie, nonostante si parlerà di baseball e di un campionato composto da diverse squadre, sarà perlopiù composto da delle comparse, senza dare particolare spessore alla loro caratterizzazione, dando invece maggior risalto solo ai vari fuoriclasse con cui i nostri beniamini si andranno man mano a scontrare e che saranno il perno delle strategie di gioco dei vari match. Fattore che non è da considerare un difetto preponderante, essendo una scelta funzionale al godimento della serie, dando risalto alla rappresentazione al limite dell’idolatria del caro Toua, che sarà il vero perno e motore trainante dell’intera serie.
La storia scorrerà veloce e risulterà accattivante, giocoforza la presenza di un narratore che racconterà le vicende con una verve non indifferente e che riuscirà a destreggiarsi nel raccontare i vari accadimenti, dando il giusto rilievo alle parti comiche, psicologiche e d’azione, e ponendo di volta in volta l’accento su una specifica situazione o personaggio.
Piccola curiosità in merito, la voce narrante è stata attribuita al doppiatore Kubota Hitoshi, che si può ritrovare nel medesimo ruolo anche nella recente trasposizione di “Ousama Ranking”.
Parlando del comparto tecnico, direi che la parte sonora, per mio gusto personale, l’ho trovata molto apprezzabile e azzeccata, sia per quanto riguarda le sigle che specialmente le OST in generale; che sarebbero da menzionare un po’ tutte, visto il loro apporto significativo al mood della serie, veramente un ottimo lavoro.
Per il comparto grafico, per quanto me ne intenda ben poco, l’ho trovato un buon lavoro, dando il giusto rilievo ai vari personaggi, rappresentando magari in modo buffo il coach, mentre in maniera più dettagliata gli avversari; forse l’unico appunto che potrei addurre sarebbe un po’ poca cura per gli sfondi, alcuni paesaggi un po’ grezzi che lasciano il tempo che trovano, brevi frame però perdonabili, che non compromettono di certo la visione, e che non fanno sfigurare l’intera produzione, che si difende bene, nonostante gli anni che iniziano a passare.
In conclusione, “One Outs: Nobody Wins, but I!” è una serie che non lascia spazio alla noia, anche se non si ha particolare dimestichezza con il baseball o con serie particolarmente intricate; grazie a una voce narrante che accompagnerà lo spettatore, sarà facile farsi guidare e apprezzare l’ottima componente psicologica, forse un po’ carente dal punto di vista della caratterizzazione del cast e con una grafica non spinta all’estremo delle sue potenzialità, ma trovo che siano dettagli risibili rispetto a quanto sia emozionante e coinvolgente questo anime.
Se all’apparenza possono sembra due temi abbastanza inconciliabili, essendo il primo basato fortemente sulle prestazioni atletiche dei principali comprimari e il secondo prevalentemente inerente alla sfera più emotiva e introspettiva, “One Outs” ci dimostra invece il contrario, cioè che non solo l’unione di queste due tipologie di genere è possibile, ma anzi riuscirà a creare una narrazione irresistibile e magnetica.
La particolarità della serie è il riuscire a non dimenticare mai la presenza di una delle due componenti, controbilanciandole e fondendole con precisione e parsimonia, dosando minuziosamente, in base alle necessità, una componente rispetto all’altra.
Entrando più nel dettaglio della trama, immediatamente la serie ci presenta uno dei principali protagonisti della serie, Hiromichi Kojima, battitore di baseball professionista, che, a causa di diverse vicissitudini, si troverà ad avere a che fare con il secondo e vero “show man” della serie, cioè Toua Tokuchi, un giocatore d’azzardo, dalle fenomenali capacità come lanciatore di baseball.
La trama proseguirà seguendo la falsariga di un banale anime spokon, cioè con un susseguirsi di partite di baseball, che già di per sé può avere un valido valore d’intrattenimento; oltre a ciò si aggiunge la sopracitata componente psicologica, essendoci dietro all’intera lega un machiavellico gioco d’azzardo tra Tokuchi e il presidente del club in cui andrà a militare il nostro beniamino, i Lycaons.
Il cast della serie, nonostante si parlerà di baseball e di un campionato composto da diverse squadre, sarà perlopiù composto da delle comparse, senza dare particolare spessore alla loro caratterizzazione, dando invece maggior risalto solo ai vari fuoriclasse con cui i nostri beniamini si andranno man mano a scontrare e che saranno il perno delle strategie di gioco dei vari match. Fattore che non è da considerare un difetto preponderante, essendo una scelta funzionale al godimento della serie, dando risalto alla rappresentazione al limite dell’idolatria del caro Toua, che sarà il vero perno e motore trainante dell’intera serie.
La storia scorrerà veloce e risulterà accattivante, giocoforza la presenza di un narratore che racconterà le vicende con una verve non indifferente e che riuscirà a destreggiarsi nel raccontare i vari accadimenti, dando il giusto rilievo alle parti comiche, psicologiche e d’azione, e ponendo di volta in volta l’accento su una specifica situazione o personaggio.
Piccola curiosità in merito, la voce narrante è stata attribuita al doppiatore Kubota Hitoshi, che si può ritrovare nel medesimo ruolo anche nella recente trasposizione di “Ousama Ranking”.
Parlando del comparto tecnico, direi che la parte sonora, per mio gusto personale, l’ho trovata molto apprezzabile e azzeccata, sia per quanto riguarda le sigle che specialmente le OST in generale; che sarebbero da menzionare un po’ tutte, visto il loro apporto significativo al mood della serie, veramente un ottimo lavoro.
Per il comparto grafico, per quanto me ne intenda ben poco, l’ho trovato un buon lavoro, dando il giusto rilievo ai vari personaggi, rappresentando magari in modo buffo il coach, mentre in maniera più dettagliata gli avversari; forse l’unico appunto che potrei addurre sarebbe un po’ poca cura per gli sfondi, alcuni paesaggi un po’ grezzi che lasciano il tempo che trovano, brevi frame però perdonabili, che non compromettono di certo la visione, e che non fanno sfigurare l’intera produzione, che si difende bene, nonostante gli anni che iniziano a passare.
In conclusione, “One Outs: Nobody Wins, but I!” è una serie che non lascia spazio alla noia, anche se non si ha particolare dimestichezza con il baseball o con serie particolarmente intricate; grazie a una voce narrante che accompagnerà lo spettatore, sarà facile farsi guidare e apprezzare l’ottima componente psicologica, forse un po’ carente dal punto di vista della caratterizzazione del cast e con una grafica non spinta all’estremo delle sue potenzialità, ma trovo che siano dettagli risibili rispetto a quanto sia emozionante e coinvolgente questo anime.
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