Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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«Un bimbo e una bimba, amore e responsabilità, l’oceano e la vita: queste le realtà ritratte e semplificate in “Ponyo sulla scogliera”. Così ho voluto offrire la mia risposta alle afflizioni e alle incertezze dei nostri tempi.»

Così parlava il celebre regista giapponese, Hayao Miyazaki, a proposito del film da lui realizzato e trasmesso nelle sale cinematografiche nel lontano 2008, “Ponyo sulla scogliera”. Circa vent’anni dopo la pubblicazione di un capolavoro come “Il mio vicino Totoro”, Miyazaki ritorna al mondo fiabesco, da lui mai abbandonato, neanche nei lavori più impegnativi, ma lo fa in maniera più sistematica. Perché, se film come “Il castello errante di Howl” o “La città incantata”, pur presentando l’elemento fiabesco, vogliono comunicare messaggi densi e profondi, “Ponyo sulla scogliera” è una fiaba a tutti gli effetti, pensata per i bambini, ma comunque portatrice di significato e, per questo, adatta anche a quegli adulti a cui, ogni tanto, piace dare ascolto al fanciullino che è dentro di loro.

La storia narra le magiche vicende di Sosuke, un bimbo di cinque anni, che vive in cima a una scogliera. Una mattina, giocando sulla spiaggia sotto casa, trova Ponyo, una pesciolina rossa con la testa incastrata in un barattolo di marmellata. Sosuke la salva e la mette in un secchio di plastica verde pieno d’acqua. Tra i due nasce subito un legame forte e Sosuke promette alla pesciolina rossa che si prenderà cura di lei. Il padre di Ponyo, Fujimoto, però, ha piani ben diversi per la figlia, per questo la obbliga a tornare con lui nelle profondità dell’oceano. Nonostante i moniti del padre, Ponyo ha ormai deciso di voler diventare umana. Carica di determinazione, dunque, tenta la fuga. Prima di farlo, però, versa nell’oceano l’Acqua della Vita, la preziosa riserva di elisir magico di Fujimoto. L’acqua del mare si alza e uno tsunami inizia a imperversare. Le sorelle di Ponyo si trasformano in enormi onde dalla forma di pesce, ed è in sella a queste ultime che Ponyo si arrampica fino alla scogliera dove si trova la casa di Sosuke. Il caos sprigionato dall’oceano, ormai, avvolge il villaggio, che affonda sotto i flutti marini. Riusciranno un bimbo e una bimba, con amore e responsabilità, a salvare il mare e la vita stessa?

In una strabiliante ambientazione marina, con i suoi fondali vivaci, pieni di vita e abitati dalle creature più bizzarre che esistano, il sensei Miyazaki ci fa rivivere, almeno in parte e fortemente rivisitata, una fiaba senza tempo, come “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen. Il mare esce dal consueto ruolo di paesaggio e diventa uno dei principali personaggi della storia. In questo, si può notare, a mio avviso, il legame con un altro dei film della mia infanzia, che mi ha segnato profondamente, “Alla ricerca di Nemo”. A differenza di quest’ultimo, però, “Ponyo sulla scogliera” vuole avere meno pretese, e non è un caso che venga classificato come film per bambini. Ma occhio alle apparenze, però, perché tendono a ingannare. In parte nel villaggio sul mare in cui vive Sosuke, chiaramente ispirato alla cittadina di Tomonoura, in parte nei profondi abissi marini, si sviluppano e prendono forma le vicende di due bambini legati insieme da una promessa, che entrambi sono pronti a rispettare fino in fondo. Quello tra Sosuke e Ponyo non sarà di certo amore, perché parliamo di due bambini di cinque anni, ma è un’amicizia fortissima, che bisognerebbe prendere ad esempio. Alle incertezze dei nostri tempi, si può solo ricorrere facendo leva sui legami indissolubili creati con quelle persone che sappiamo non ci tradiranno mai, un parente o un amico fedele. “Ponyo sulla scogliera” è, a tutti gli effetti, un inno all’amicizia sana e spontanea, che nasce nella diversità; una diversità che si impara a rispettare e apprezzare con il tempo. Come tutte le grandi pellicole di Miyazaki, però, “Ponyo sulla scogliera” è anche un inno alla natura e al mare, che ci dà la vita. Ancora una volta, il messaggio ecologista è forte nel regista giapponese, che, tra una pellicola e l’altra, è riuscito a sensibilizzare incredibilmente i suoi spettatori sul tema.

Come di consueto, le animazioni sono di una bellezza rara, e si nota la perizia dei poetici e, ormai sempre più rari, disegni fatti a mano. È dominante l’uso dei colori vivaci, su tutti, ovviamente, il blu del mare, che prende vita e si anima in quanto personaggio della storia. Eccezionale il character design, soprattutto quello di Sosuke e Ponyo, che ricalca la solita formula del semplice, ma efficace. Tra l’altro, è curioso notare come l’aspetto di Sosuke sia ricalcato su quello di Goro Miyazaki, figlio del sensei, all’età di cinque anni. Allo spartito, l’inimitabile Joe Hisaishi, a cui rinnovo il mio: “Grazie di esistere”. A chiudere, la perfetta colonna sonora “Gake no Ue no Ponyo” del gruppo folk Fujioka Fujimaki e cantata da Nozomi Ōhashi.

Partendo dal presupposto che i Ghibli andrebbero visti tutti, vi consiglio vivamente la visione di “Ponyo sulla scogliera”, ma solamente se siete disposti a tornare bambini per almeno due ore.

9.0/10
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Di solito bastano poche pagine a Imiri Sakabashira per affascinare o respingere del tutto il lettore. Nel caso di “Kappa at work” è sufficiente la prima: in una città senza nome, che per commistione di stili architettonici ricorda certe capitali dell’est Europa e del Medio Oriente, una ragazza viene svegliata dal padre con le sembianze di una rana, il quale la esorta a sbrigarsi per andare a sostenere un colloquio di lavoro.

Già da queste premesse è chiaro l’eclettismo dell’autore che abbiamo di fronte: Sakabashira torna a sconvolgere il pubblico italiano con la seconda opera che Star Comics ha scelto di pubblicare. “Kappa at work” è il racconto di un’odissea sui generis, dai connotati più assimilabili al trip da allucinogeni che al racconto epico, attraverso cui seguiremo le peripezie della protagonista Anne e dei suoi amici Kappa. La prima differenza che si nota rispetto al precedente “The box man” è di sicuro la presenza di molti più dialoghi, nella maggior parte dei casi presentati come criptici, sconnessi, in puro stile surrealista, nonché accostabili a certo teatro dell’assurdo europeo.
L’esile canovaccio narrativo si frantuma e si ricompone a piacimento dell’autore, conferendo all’opera un ritmo oscillante e generando disordine nella mente del lettore, cui è richiesto uno sforzo di attenzione non indifferente. Ciò che piacevolmente sorprende è, però, la forte coerenza che questo caos dimostra, dando prova della maestria di Sakabashira; tutto quello che viene proposto non è frutto di accostamenti casuali di immagini, bensì persegue nella sua follia un obiettivo ben preciso: quello di mostrarci la maturazione psicologica del personaggio principale.

Da ragazza svogliata e timorosa, Anne finisce per diventare una donna scaltra ed operosa, capace di reinventarsi un lavoro in un momento in cui sembra che l'unico modo per trovarlo sia attraverso l'illegalità. La critica sociale, che si scorge, è qui molto esplicita, sebbene circondata da situazioni al limite del grottesco: il padre di Anne ha perso il lavoro per colpa di una riorganizzazione aziendale e la figlia è costretta quindi ad accettare le proposte più misere pur di riportare qualche soldo a casa, di fatto accettando un lavoro illegale come quello del pirata.
Forte è il contrasto fra la città in cui Anne si trova a vivere e quello invece della terra straniera dove approderà, dopo un lungo peregrinare: grigia, fredda e cupa la prima, che non da opportunità a chi vi abita; scintillante e ben più ricca di occasioni la seconda, grazie alla quale anche Anne, alla fine di peripezie al limite dello psichedelico, riuscirà a trovare il proprio posto nel mondo grazie e una rinnovata fiducia in sé stessa.
Accanto a questa componente da racconto di formazione, si affianca anche un bel discorso sull'emancipazione: dopo essere stata sempre alle dipendenze di qualcuno (il padre prima e i kappa poi), Anne sceglie alla fine di smarcarsi dalle figure che l'avevano guidata e comandata fino a quel momento, pronta per intraprendere una nuova vita ricca di sorprese.

Sakabashira accompagna la storia con il suo consueto stile di disegno grezzo e sgraziato, confermando una visionarietà suggestiva e un talento senza pari nell'inventare situazioni e personaggi sconvolgenti (dagli immancabili Kaiju al Polpo Durian, allo Yakuza Serpente), a volte comici e a volte davvero disgustosi. Chi apprezza questo tipo di arte e di narrazione ritroverà anche qui le consuete caratteristiche del genere, mentre per tutti gli altri "Kappa at work" sarà l'ulteriore conferma per stare alla larga.

L'edizione Star Comics, in questo caso, si dimostra migliorata per quanto riguarda l'artwork della copertina e per la flessibilità del volume, permane però il difetto della carta di bassa qualità e del prezzo non proprio accessibile (comprensibile, però, se si considera la particolarità del prodotto offerto). Resta comunque lodevole la volontà di continuare a divulgare opere di questo tipo, così da ampliare i confini del fumetto giapponese anche in Italia.

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“Japan Sinks”... e si vede, però qualcosa si salva.

Il genere catastrofico è una sorta di evergreen nell’industria dell’intrattenimento, partendo dai film, passando per videogiochi e arrivando alle animazioni, quindi, leggendo il titolo e guardando i pochi secondi del trailer, si “dovrebbe” già sapere cosa aspettarsi.

La prima cosa che salta all’occhio in questa serie è la bassa qualità del comparto visivo, dato che sia i disegni che le animazioni sono piuttosto scadenti: i movimenti dei personaggi sono goffi e sgraziati; le animazioni poco fluide; i personaggi hanno un design che li rende fastidiosi alla vista; le prospettive spesso sono sbagliate; la CGI è quella che è, anche se in giro c’è di peggio. Dal punto di vista grafico si salvano giusto i fondali e niente di più. L’idea che mi sono fatto è che con il budget adatto a fare un episodio in modo decente ne abbiamo fatti ben dieci, oppure che ci sia stata un po’ di confusione tra la produzione e il resto dello staff: magari la regia aveva capito di avere a disposizione centomila dollari a puntata, mentre la somma era di centomila... yen.

Per quanto riguarda la storia, parliamo del classico viaggio dell’eroe che cerca di mettere in salvo sé stesso e i suoi cari da un mondo in rovina e, declinato in questo contesto, ci troviamo davanti a una sorta di odissea “on the road/on the boat”. Dopo una brevissima introduzione, che copre pochi minuti, i nostri prodi si ritrovano subito nell’occhio del ciclone o, per rimanere in tema, “nell’epicentro” della catastrofe. Se le loro prime reazioni sono perfettamente consone alla situazione in cui si trovano, nell’arco di pochi passaggi alle crepe del terreno si cominciano ad aggiungere quelle della trama, con un effetto così paradossale da divenire comico.

Superato un momento di inevitabile smarrimento da parte di tutti protagonisti, in poco tempo si forma una “compagnia” errante che si muoverà a tentoni in un mondo in rovina. A risaltare, in modo negativo, non sono tanto i comportamenti dei più piccoli, che quantomeno possono beneficiare di alcune attenuanti, ma piuttosto quelli degli adulti, che sembrano dei bambini sotto mentite spoglie: tra foto di gruppo con tanto di “cheese” (stile scolaresca in gita), giri sugli acqua-scivolo (manco fossero a Riccione in pieno agosto), una spintarella in un fiume a chi non sa nuotare (“Prima o poi dovrai imparare”), si cominciano ad avere dei dubbi su che genere di opera abbiamo davanti, e soprattutto se la categoria “disastri naturali” sia quella giusta. Dopo pochi episodi, per farla breve, il voto sarebbe gravemente insufficiente.
Il viaggio dell’allegra compagnia è un tumultuoso vortice di eventi fatto di caccia al cinghiale, slalom tra crepe del terreno e macerie piovute dal cielo, raccolta di patate, rifornimenti di carburante ed espletazione di bisogni fisiologici (dove non necessariamente i primi sono più pericolosi dei secondi). Si assiste poi a un continuo avvicendarsi di personaggi più o meno affidabili, tra cui: una star di “YouTube” (“You are very cool”), un autista “arrapato”, il cugino di “Shaggy”, e soprattutto il “nonnino arciere” (che non è cattivo, ma ha solo un brutto carattere).

Inevitabilmente i nostri eroi saranno costretti a dormire in luoghi di emergenza: in un parco, nel bosco, all’interno di un supermarket... per giungere, infine, nel luogo più strano del Giappone o forse dell’intero pianeta, “Shan City”. Questo posto è un po’ come il Circeo per Ulisse e la sua ciurma, è un luogo dove i nostri eroi verranno accolti amichevolmente e saranno messi nelle condizioni di: fare una doccia (da vestiti); piangere le proprie perdite; sanare vecchi dissapori familiari; rifocillarsi con “erbe” energizzanti; studiare trigonometria; esercitarsi con l’arco e, ovviamente, scattare foto (“cheese”). Ben presto cominceranno ad entrare nelle consuetudini sociali degli ospitanti: assistendo un malato; partecipando a rituali mistici; andando in discoteca; sparando musica orribile dalla console di quella discoteca; sballandosi con la prima sostanza che avranno rimediato... Però, si sa, i rapporti sociali sono complicati, cosi, tra incendi appiccati, tentativi di rapimento, progetti di evasione e dribbling fra le pallottole, sarà inevitabile una separazione per certi versi consensuale. In un ambiente del genere, ovviamente, colui che “tirerà” fuori il meglio di sé non potrà che essere il “nonnino arciere” (il quale dimostrerà di avere davvero un pessimo carattere, ma di contro un’ottima mira). Tra dolorosi addii e nuovi incontri, il viaggio potrà continuare verso una destinazione non più ignota.

Arrivati a questo punto, e ci troviamo intorno al quinto/sesto episodio, il giudizio di tale opera sarebbe tra 8 e 9, a condizione però di inserirla nella giusta categoria, e cioè quella “comico/demenziale”.
Dal settimo episodio si apre la fase successiva o, se volete, la “mini-saga” successiva, quella che io chiamerei “On the boat”. Qui si può percepire tutto il dramma che ha vissuto la produzione, che mette decisamente in secondo piano l’evolversi della storia: a causa di un regista spendaccione, che ha dissipato nella prima parte tutto il lauto budget messogli a disposizione (bruciando banconote da mille yen come se non ci fosse un domani), si evince che ai “piani alti” siano stati costretti a correre ai ripari, facendo qualche taglio e portando il team di sviluppo da tre a due unità.
E così, tra onde alte più o meno come quelle che si sollevano quando ci si butta a bomba in una piscina di venticinque metri, una zattera come set, incontri fortuiti in mezzo al Pacifico (manco fosse la fiera del fumetto di un paesino di mille abitanti), canzoncine rap e un’immancabile foto (“cheese”), la nostra avventura correrà velocemente verso il finale.

La cosa incredibile è che il finale invece ha un senso!

Se moltissimi film, serie, saghe, animazioni, creano tante aspettative all’inizio, ma deludono quando si arriva alla fine, perché ad un certo punto si capisce che nemmeno gli autori sapevano dove andare a parare, in “Japan Sinks: 2020” il soggetto è invece chiaro, diretto e per nulla banale. Gli ultimi minuti sono un omaggio al Giappone contemporaneo, dove non vengono esaltate chissà quali imprese tecnologiche, storiche o agonistiche, ma piuttosto viene messa in primo piano la quotidianità delle persone comuni: il loro cibo, le piazze affollate, le strade trafficate, i cosplayer, le giornate spese accanto alle persone care. Insomma, tutte quelle cose che consideriamo banali, scontate, non degne di nota, ma che potrebbero scomparire improvvisamente a causa di un cataclisma.

Alla fine è come se a una classe di un liceo fosse stato chiesto: “Quali ricordi salveresti se il tuo Paese scomparisse domani?”, “Bene, adesso scrivete una sceneggiatura”. Il problema è che un tema di così grande spessore sembra che sia stato affidato a un gruppo di appassionati di “Disaster Movie”, “B Movie” e “Tarantino”, i quali, dopo un acceso “brainstorming”, hanno selezionato rigorosamente le peggiori nefandezze che passavano nella loro testa.

In conclusione, l’unica cosa che non affonda in “Japan Sinks: 2020” è solo il soggetto, e, con la speranza che qualcuno in futuro provi a riscrivere questo tema, il mio voto per questa realizzazione è 5.

P.S. Ma in Giappone le patate a che profondità stanno?