Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su drama e live action, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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"L'ultimo samurai" è un film hollywoodiano che dopo tredici anni dalla sua uscita ho deciso di vedere, e alla fine sono rimasto più che soddisfatto della visione. Il mio voto a questo magnifico film è 9, e adesso vi spiego cosa mi ha convinto di questo film per dargli un voto così alto.

La trama si concentra sul capitano americano Algren, il quale dopo un accordo tra Giappone e Stati Uniti viene trasferito sul suolo nipponico per addestrare i soldati giapponesi dell'impero Meiji, allo scopo di eliminare i samurai e fermare la loro ribellione.
Lo sviluppo della trama l'ho trovato impressionante e con molti colpi di scena che mi hanno fatto amare questo film; la storia, quasi perfetta, è ricca di molti aspetti fondamentali del passato giapponese, in primis ovviamente rispecchiando fedelmente i samurai e la loro leggenda; in secondo piano vediamo il Giappone moderno che vuole schiacciare il proprio passato e le proprie tradizioni, per fare il grande passo in avanti con la modernità, affiancato dagli Stai Uniti.

Il personaggio principale del film è senza dubbio il capitano Algren, interpretato da Tom Cruise, ma secondo me bisogna concentrarsi molto su Katsumoto, in quanto personaggio fondamentale di questo film; secondo la mia visione, il capitano Algren è servito a mettere in risalto la filosofia dei samurai e a focalizzare il loro stile di vita. Seguendo la vicenda infatti possiamo vedere che ogni suo passo in avanti è un messaggio per noi, che guardandolo possiamo solo ammirare cosa di bello e vero c'è nel seguire una corrente spirituale che dona pace e bellezza interiore. Katsumoto è il capo dei samurai, il quale si dedica a servire l'imperatore, che però gli volta le spalle, visto che anche lui vuole entrare nella modernità, così Katsumoto decide di proteggere i suoi ideali e le persone che ama, mettendosi sempre in prima linea e dedicandosi a combattere orgogliosamente, portando avanti l'onore di essere un samurai, trasmettendo così il tutto al capitano Algren. La filosofia di Katsumoto si può anche comprendere da alcune sue citazioni: "Io morirò ucciso dalla spada, la mia o quella dei nemici." Qui possiamo capire un forte aspetto della via del samurai, e anche come secondo le loro tradizioni un guerriero deve morire con onore.
"Il fiore perfetto è una cosa rara. Se si trascorresse la vita a cercarne uno, non sarebbe una vita sprecata." Questa frase invece può essere compresa solo se si è visto tutto il film, ma un piccolo indizio è l'albero del ciliegio sakura che Katsumoto intravede nel finale.

L'ambientazione, così come la tecnica, è da voti massimi: essendo innamorato della cultura giapponese, mi è facile dare un giudizio alto, ma in termini tecnici non ho dubbi a riguardo. Molte scene del film sono state girate in nuova Zelanda, mentre le scene nei templi sono state girate presso il tempio di Engyo-ji, prefettura di Himeji; le inquadrature del monte Fuji sono state però ricreate al computer, prendendo immagini di panorami da varie prospettive. E' bellissimo come mettono in risalto la cultura giapponese, soprattutto durante la permanenza nel villaggio dei samurai, dove possiamo vedere la loro filosofia riguardo la vita e il modo in cui va vissuta; belle le armature dei samurai, ricreate benissimo, e soprattutto congratulazioni alla Warner Bros che ha ricreato perfettamente un antico villaggio samurai dove gran parte del film si svolge. La colonna sonora del film invece l'ho trovata nella norma, mantenendo aspetti hollywoodiani e anche orientali.
Chiudo consigliando questo film a tutti, in quanto merita davvero tanto.

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Giappone, ultimi mesi del 1944.
Benché l'apparato bellico sia prossimo al collasso, e l'Esercito Imperiale collezioni sconfitte su tutti i fronti, per il Ministero della Guerra la resa è un'ipotesi da non prendere nemmeno in considerazione: vuoi per un atavico senso dell'onore, esasperato da forti - e folli - correnti nazionaliste, vuoi per l'ottusità tipica di certi ambienti militari, ma il solo parlare di capitolazione è sufficiente per essere etichettato come disfattista.
L'Impero va difeso ad ogni costo, fino all'ultimo uomo.
E non importa che la realtà sui campi di battaglia strida con i proclami dei vertici militari: nel teatro del Pacifico, di fronte alla superiorità americana in termini di mezzi, risorse e tecnologie, i soldati nipponici, a dispetto della propaganda, sono costretti a difendere con le unghie e con i denti le conquiste del primo anno di guerra, inesorabilmente erose dall'efficiente macchina bellica statunitense.

La storia raccontata in "Letters from Iwo Jima" si colloca in questo scenario, nei fatidici mesi in cui l'isolotto dell'Oceano Pacifico, un arido scoglio di roccia vulcanica, diventa improvvisamente per l'America un obiettivo cruciale: una minuscola maglia dell'ultimo anello difensivo giapponese, che ha il pregio di essere una base ideale per accorciare le rotte dei bombardieri diretti sui centri urbani dell'arcipelago, e uno scalo sicuro in caso di emergenza.
Le difese dell'isola vengono affidate al generale Kuribayashi, militare sui generis, di rango aristocratico ma dal carattere schietto ed esuberante - per questo, inviso ai piani alti delle gerarchie di Tokyo: conscio sin dalle prime ispezioni dell'impossibilità di successo dell'operazione affidatagli, lo vedremo dedicarsi anima e corpo all'allestimento della resistenza armata, sfruttando, con l'acume di chi conosce bene l'arte della guerra, le scarse risorse a disposizione.
Nella sua opera di revisione tattica, arriverà perfino a sovvertire, nei mesi precedenti l'attacco, lo stile tradizionale di combattimento dei soldati giapponesi - cosa inconcepibile per gli alti papaveri e per molti dei suoi ufficiali -, ossessionati da sempre dal dover affrontare la morte con 'onore'.
Non più la fine eroica del samurai, la carica suicida sulla battigia sfidando a viso aperto i nemici appena sbarcati, non più urla di guerra o spade sguainate: acquattati nelle trincee, nascosti nei cunicoli sotterranei, i soldati di Kuribayashi dovranno ingaggiare battaglia solo quando i rapporti di forza saranno favorevoli, risparmiando le loro vite per agguati o imboscate.
Vite da non sprecare, da sacrificare a ideali discutibili, con lealtà incondizionata, che faranno emergere con forza la drammaticità del dissidio interiore del generale, tanto premuroso verso le sue truppe al punto da condividerne i disagi, quanto ligio e cinico nell'obbedire agli ordini, benché consapevole dell'ineluttabilità del fato che attende lui e i suoi uomini. Lo stesso fato che incombe minaccioso sul suolo patrio, e che Kuribayashi, con l'olocausto dei suoi soldati, non può far altro che rimandare.

Filtrata attraverso gli occhi sia degli ufficiali di stanza sull'isola, sia, soprattutto, del soldato semplice Saigo, prima impegnato insieme ai suoi commilitoni in estenuanti corvée, poi catapultato nell'inferno di una lotta senza quartiere, Eastwood consegna al suo pubblico una storia dal sapore ecumenico, dipingendo gli orrori della guerra dal punto di vista del 'nemico': calato nell'oscurità dei bunker giapponesi, restituendo dignità all'odiato avversario, il regista americano ci mostra come, in questa tragica epopea, la diversità culturale negli opposti schieramenti sia solo un velo che nasconde sentimenti universali - le lettere inviate dal fronte ai propri cari ne sono la più fulgida testimonianza.
Eroismo e meschinità, codardia e senso dell'onore, crudeltà e magnanimità appartengono a tutti e nessuno: sul palcoscenico della battaglia vengono a galla i chiaroscuri di ogni essere umano, indipendentemente dalla bandiera sotto la quale combatte. Mentre la guerra, proprio per questo, si palesa nella sua grandiosa, spettacolare insensatezza.

Immortalata nella celebre fotografia di Joe Rosenthal - che ritrae i Marines mentre issano la bandiera americana sul monte Suribachi -, la battaglia di Iwo Jima non poteva sperare in un adattamento cinematografico migliore, che rendesse giustizia alle migliaia di caduti tra vincitori e vinti: tanti, troppi, tanto che l'opinione pubblica dell'epoca ne fu scossa profondamente, e la strategia americana ne venne probabilmente influenzata - abbandonati i propositi di invasione del Giappone, essa ripiegò, per risolvere il conflitto, sull'utilizzo degli ordigni atomici.

"Letters from Iwo Jima" è un film d'autore, tecnicamente ineccepibile, con effetti speciali di prim'ordine ma non invasivi, da vedere assolutamente in versione originale con sottotitoli (per chi è abituato ai fansub non è certo un ostacolo!), crudo in certe scene - seppur la regia non si compiaccia nell'ostentarle - e tendente al patetico (forse troppo) in alcune altre, ma che resta un autentico must per gli amanti del cinema di guerra.
Scevra da quella retorica militarista che, sfacciatamente, fa mostra di sé in tanti film bellici, "Letters from Iwo Jima" è una pellicola anomala, focalizzata sugli uomini più che sugli eventi, la cui poetica è da ricercare nel cablogramma d'addio inviato da Kuribayashi al quartier generale, in particolare nelle audaci e commoventi parole della poesia funebre da lui composta in chiusa, mentre a pochi passi infuriano gli ultimi feroci combattimenti:

Impossibilitato ad adempiere a questo duro compito per il nostro Paese,
frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.

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Ispirato al romanzo di Arthur Golden, il film ci presenta il mondo delle geisha, composto da donne che continuamente tentano di rasentare la perfezione in tutto ciò che fanno, dalle cerimonie del tè al canto, alla recitazione, ma che sono pur sempre umane e quindi afflitte da sentimenti, sogni e invidie.
Il film sin da subito attrae lo spettatore grazie a una buona fotografia e all'interesse che nasce dal volere scoprire questo mondo a noi oscuro, bello quanto crudele: un Giappone degli anni '30, in bilico fra il mantenimento delle tradizioni e il progresso, dove figure antiche e leggendarie come le geishe, affiancano uomini di successo in abiti occidentali. La riuscita dell'ambientazione è dovuta principalmente alle ottime scenografie, che riproducono magistralmente il mondo di quel tempo, ma anche ai costumi, che seppure molto ricchi e colorati donano costantemente l'illusione del vero. Altra nota positiva sono le musiche, perfette per ogni scena, belle e drammatiche, che da sole rendono vivo ciò che avviene sullo schermo.
Ma nonostante tutto, il film ben presto mostra i suoi limiti. Prima nota dolente è il cast, che sinceramente ho trovato un po' sottotono nel generale; unica a salvarsi è l'attrice Zhan Ziyi, che riesce a donare intensità alla protagonista e la rende più che mai umana. La nota più dolente del film risiede nella storia e nella sua gestione. La storia non coinvolge, dall'inizio del film notiamo la volontà degli sceneggiatori di emozionare lo spettatore, ma il tentativo fallisce continuamente e quindi ci ritroviamo davanti una storia che risulta semplicemente banale e che scorre via su chi la osserva con totale indifferenza. Le parti della sceneggiatura inoltre, che potevano risultare più interessanti, come ad esempio lo scoppio della guerra e le relative conseguenze, vengono narrate velocemente e superficialmente a favore di una storia d'amore quanto mai classica e scontata. Ugualmente avviene anche per molti personaggi che dopo essere stati presentati vengono semplicemente dimenticati o accantonati per poi essere ripescati alla fine, ma con il risultato di essere semplicemente un contorno e niente di più. In definitiva, "Memorie di una Geisha" è un film controverso: infatti se da un lato vanta una realizzazione davvero ottima, dall'altro mostra una sceneggiatura fallace e poco convincente, priva d'anima. A fine film si ha l'impressione di aver osservato per tutto il tempo una bellissima cornice, al cui interno mancava il dipinto.
Voto: 6,5.