Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

6.5/10
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Luci soffuse e via a una introduzione in punta di piedi, dal retrogusto naif: una bambina corre a grandi passetti verso un luogo che pare incantato, una terra dai colori forti, pieni e splendidamente confusi. L’intensa pigmentazione e un dinamismo onirico portano lo spettatore, sempre attraverso i movimenti della giovanissima fanciulla, fin nelle braccia di Akino, la “concierge” di codesto luogo, ovvero colei che si occupa in primis dei clienti e dei loro bisogni, nuova coordinatrice di un enorme, lussuosissimo centro commerciale denominato Hokkyoku.
Presto si scoprirà che, fra secondi piani statici - capaci di stagliarsi in modo perentorio e silenzioso, sfondi simili a fondali di teatrini marionettistici e giochi di ombre minimali -, tale centro commerciale è dedicato esclusivamente agli animali - sì, avete capito bene - del mondo esterno, una civiltà piuttosto particolare: animali e umani convivono infatti in una comunità avanzata e apparentemente omogenea, e all’interno di tale locazione è possibile ammirare la vasta gamma di articoli dedicata ai loro bisogni e al loro svago, dal più sofisticato vestiario fino a cibi e ad attrezzi d’ogni sorta, ogni elemento adattato alle necessità di queste creature antropomorfe.

Il sorriso è stato inventato dall’animale più triste sulla Terra

Gli autori, pertanto, adottano le figure degli animali-umanoidi come veicoli d’emozioni e stati d’animo: niente li differenzia, se non l’aspetto, da comuni esseri umani.
S’imposta così una trama semplicissima eppur accattivante. Non esiste differenza fra bestia e uomo - esattamente come nella realtà, sia che voi leggiate tali parole in senso positivo che tremendamente negativo -, con l’unica differenza che, in questo caso, gli animali vestono giacche, indossano cravatte, calzature dotate di tacco, vistosi gioielli e borse ricercate. Nell’Hokkyoku ognuno è al proprio posto, e ogni cosa appare normalissima, consueta, abituale. Ciò innesca, forse senza troppa sorpresa, dinamiche di una comicità inusuale, un mix fra l’inesperienza della graziosa e insicura protagonista, la sopracitata Akino, e le abitudini di alcuni visitatori che, chiaramente, risulteranno inaspettate e di difficile gestione. Così, fra opossum con prole al seguito, pinguini dandy dall’eccelsa dialettica e dalla profondissima saggezza, gatti apprendisti pasticcieri con velleità artistiche ed esigenti giraffe piene di soldi, faremo la conoscenza di Todo, proprietario del centro commerciale, pretenzioso e integerrimo essere umano, non che iconica figura a cui tutti fanno riferimento e che “temono” con grande reverenza.

Very Important Animals

Il fulcro di questo mediometraggio sono appunto le figure animali di spicco intente a visitare l’Hokkyoku, e fra loro, i VIA sembrerebbero elementi piuttosto rari (in via d’estinzione); è chiaro che l’evoluzione sembra avanzata a uno stadio paritario fra umani e ciò che rimane di un mondo animale completamente snaturato, ma tutto ciò nasconde un incredibile segreto che scopriremo solo alla fine. L’intero film, tuttavia, verte sulla cultura - anzi, diremmo l’arte - del saper servire: qualcosa che, con tutte le dovute divergenze, nell’immaginario nipponico è vissuto e sentito in modo molto differente che qui in Occidente, concetto di base per cui Akino aspira a diventare in tutto e per tutto concierge di prim’ordine. Presto, la ragazza imparerà che per accontentare i clienti d’élite è necessario innanzitutto capire e prevedere il loro stato d’animo, “guardarli negli occhi”, anticipando i loro desideri: la vera e propria arte del servire e dell’allestire un luogo elegante e di rilievo che metta a proprio agio qualsiasi avventore.

La vicenda, ad ogni modo, nasconde un significato ben più importante e forse amaro: sebbene il prodotto non sia proprio esente da difetti e la prima metà possa risultare fin troppo piatta e decisamente monotona, senza ritmo e poco incisiva, il segmento finale ci regala una riflessione profonda ed esistenzialista: l’incontro fra capitalismo e consumismo moderno nei centri commerciali, nonché la verità nascosta dietro la presenza di animali antropomorfi derivanti da razze estinte ci portano a un messaggio trasversale che rimembra l’incessante, inarrestabile e spaventoso progresso umano, artefice di distruzione assoluta, consumismo atto a disintegrare risorse e vita ovunque. Una lenta dissoluzione contrapposta ai rimpianti di tali conseguenze, ergo: l’Hokkyoku non è altri che il simulacro silenzioso dei mea culpa di tale progresso, rendendo gli animali, vittime innocenti della sfrenata consumistica, ormai scomparsi, riportati (resuscitati) fra di noi “a nostra immagine e somiglianza”.

Dal punto di vista artistico “Benvenuti all’Hokkyoku” non delude né stupisce: colonna sonora incalzante, allegro accompagnamento spesso minimale ma incisivo che non si distacca più di tanto dalle atmosfere che lo stesso anime imposta.
Visivamente si presenta originale e curioso; una rivisitazione dell’avanguardia animata concepita venticinque, forse trent’anni fa. Le animazioni, semplici ma efficaci, danno vita a personaggi esemplificati, generati da uno stile dal tratto essenziale ma sinergico. Grandissima cura nei dettagli, studio di ingombri e ambienti davvero prezioso. Disposizione cinematografica di cibi, suppellettili e scorci d’arredo. Le scene appaiono come quadri ricamati in continuo movimento.

Con una buona dose d’ironia che alleggerisce e non guasta mai, il finale si scopre dolce e malinconico, attraversato da una vena poetica che finisce per accompagnare timidamente le vicende dei protagonisti, e ci regala una Akino tutto cuore e positività, chiudendo in un epilogo che rievoca chiaramente le immagini iniziali, come un cerchio che va a chiudersi dignitosamente.
Un lavoro apprezzabile, una storia divertente capace di strappare più di un sorriso e di iniettare una sostanziosa dose di luminosa positività; niente di trascendentale, ma scorrevole e piacevole.

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Spesso ingiustamente dimenticato nell’oblio, oscurato dalla fama del celeberrimo Hayao Miyazaki, con cui nel lontano 1985 fondò lo Studio Ghibli, Isao Takahata è stato, al pari del sensei, autore di lungometraggi iconici, in grado di “competere” con quelli del suo collaboratore, nonché amico di lunga data. Perché se il buon vecchio Miyazaki ha dato alla luce capolavori come “Il mio vicino Totoro” e “Laputa – Il Castello nel cielo”, Takahata è stato il regista di opere di straordinaria fattura come “La tomba delle lucciole” e “La Storia della Principessa Splendente”. Entrambi film dal forte impatto emotivo, estremamente coinvolgenti e sempre intrisi di quella cultura e quel familismo giapponese che, agli occhi di noi occidentali, non possono che apparire come modelli da seguire. Una tendenza, quella di trasmettere attraverso il grande schermo i valori tradizionali della società nipponica, talvolta anche mistificando, che si ritrova in molte delle pellicole targate Ghibli, tranne che in una, “I miei vicini Yamada”.

In assenza di qualsiasi tipo di filtro, Isao Takahata trasporta lo spettatore nella vita quotidiana di una comune famiglia giapponese, quella degli Yamada, il cui nucleo è composto dalla nonna materna, Shige, la madre svampita e il padre pseudo-autoritario, Matsuko e Takashi, e i due figli: la bambina, Nonoko, e il ragazzo nel pieno della propria adolescenza, Noboru. Suddividendo il lungometraggio in tanti capitoli di varia lunghezza, Takahata ci narra dei fatti, dei problemi e delle disavventure a cui va incontro la famiglia Yamada, che lo spettatore impara a conoscere man mano che la storia prosegue. Ecco, quindi, che il quadro viene delineandosi poco per volta. Takashi è il tipico padre di famiglia, la cui vita si scandisce in due blocchi precisi: casa e lavoro. Questa è la spirale in cui è costretto, anche perché se non ci fosse lui, nessuno baderebbe ai bisogni economici della famiglia. Takashi ogni giorno porta il pane a casa, indi per cui esige rispetto per se e per la sua stanchezza. Cerca a più riprese di imporre la propria autorità sulla famiglia, senza però riuscirci, essendo succube delle due donne di casa. Matsuko è una casalinga, che si occupa dei bisogni primari dei propri famigliari. A lei è richiesta una certa dedizione, soprattutto nella cura del focolare domestico. Nonostante ciò, è un po’ svampita e dimentica le cose troppo facilmente. Ma guai a criticarla. La casa la gestisce lei e sempre lei la vive ventiquattro ore su ventiquattro senza sosta, quindi guai a fiatare. Shige, la madre di Matsuko, è donna di una certa età, molto probabilmente più vecchia della casa in cui vive sua figlia. Per questa ragione, conosce troppo bene il mondo e i principi che lo muovono. Donna dotata di grande autorità, verso cui Takashi mostra una certa riverenza. Anche lei, complice sicuramente gli anni che si porta sulle spalle, dimentica troppo spesso le cose da fare (ora si capisce da chi ha preso Matsuko). Noboru è il primogenito, quindi, le aspettative riposte in lui sono molto alte. La scuola è il suo dovere primario, ma non sembra essere molto portato nello studio. Inoltre, inizia a scoprire per la prima volta il dolce frutto dell’amore. Il ragazzo sta crescendo e le preoccupazioni dei genitori con lui. Nonoko è la piccola di casa. A lei tutto è dovuto e tutto è concesso. È sicuramente una bambina intelligente, ma del mondo sa ancora troppo poco e l’ingenuità, tipica di chi ha la sua età, non l’ha ancora abbandonata.

Così delineati, i personaggi della storia appaiono estremamente familiari, soprattutto a coloro il cui focolare è composto dagli stessi membri. L’immedesimazione è quindi spontanea ed è resa possibile dall’incredibile realismo, che muove l’intera opera. Non nego, infatti, di aver rivisto nel film parecchi degli scenari in cui sono coinvolto giornalmente con i miei genitori, e questo perché Takahata non fa altro che narrare le vicende di una famiglia giapponese come tante altre, con l’unico obiettivo di mostrarne i rapporti gioco-forza che ne regolano il funzionamento. La famiglia è come una macchina, tutt’altro che perfetta, il cui meccanismo può essere appreso prestando attenzione agli eventi e ai fatti che si susseguono nella quotidianità e a come questi vengono affrontati. In quanto macchina, ogni membro svolge un ruolo fondamentale al suo interno, ma le gerarchie sono tutt’altro che ben definite e, spesso e volentieri, capita che alcune componenti possano entrare in conflitto tra di loro. In una famiglia non esiste l’io o il tu, esiste il noi. Se c’è un problema lo si risolve tutti insieme, ma soprattutto si impara ad accettare i difetti altrui e a conviverci. Non lasci tua moglie perché è un po’ svampita, ma ci fai l’abitudine e alla fine ti rassegni. Per il bene della famiglia e per permettere a quest’ultima di vivere una vita serena. Un messaggio forte, che io condivido in pieno. La vita di tutti noi, anche quella familiare, è fatta di alti e bassi e se ci soffermassimo soltanto sui suoi aspetti negativi, vivere sarebbe impossibile. Molto meglio comprenderli, riconoscerne l’esistenza e andare avanti lo stesso, cercando di apprezzare le cose buone che la vita, come le persone che ci stanno intorno, ha da offrirci.

Questa storia, nella sua immediatezza, si fa carico di valori e significati di un certo spessore, che compensano la semplicità dei suoi disegni. Takahata, come avrebbe fatto anche per “La storia della Principessa Splendente”, opta per uno stile che sia tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, talvolta mescolati a colori acquerellati. L’essenzialità dello stile raggiunge l’apice nelle scene che sembrano appena abbozzate, dove il centro è ben definito e lo sfondo sembra quasi essere stato dimenticato. Una semplicità necessaria, che si conforma a quella della storia e che, con quest’ultima, si mescola dando vita ad un connubio ottimo. Musicalmente parlando, siamo dinanzi ad un altro capolavoro, merito soprattutto di Akiko Yano, che ha adattato perfettamente la sua musica allo stile dell’opera. Da menzionare, la citazione a Kekko Kamen, del grandissimo Go Nagai, a cui Takahata sembra voler riservare il giusto riconoscimento, con scena e musica perfettamente in linea con l’opera originale.

In definitiva, siamo alle solite. Ghibli è ormai sinonimo di certezza, secondo soltanto alla morte e se cercate qualcosa di spontaneo, magari da guardare a spezzoni, “I miei vicini Yamada” potrebbe fare al caso vostro.

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Se qualcuno mi chiedesse che cos'è davvero la "regia" nell'ambito degli anime, indicherei immediatamente questo film. "Liz e l'uccellino azzurro", diretto dalla geniale Naoko Yamada, è uno spin-off della serie "Sound! Euphonium" che si colloca in parallelo al film sequel della seconda stagione, ossia durante il secondo anno di Kumiko, ed è incentrato sui personaggi di Mizore e Nozomi. Non è strettamente necessario aver visionato la serie, ma conoscere questi due personaggi aiuta sicuramente ad apprezzarlo.

Per spiegare la frase relativamente forte con cui ho iniziato la recensione, trovo ideale analizzare la sequenza iniziale. Dopo una breve introduzione nel mondo fantastico (storia nella storia), il film si apre con una scena di oltre sei minuti in cui le due protagoniste fanno poco altro che camminare dall'entrata della scuola fino all'aula di musica. Mizore arriva prima, ma si ferma e aspetta sui gradini fino all'arrivo di Nozomi, la quale, sorridente e con passo deciso, resta davanti per tutto il tragitto. Mizore la segue a una certa distanza e la osserva ininterrottamente con un misto di ammirazione e soggezione; fa fatica a rispondere quando Nozomi le porge una piuma blu, e prosegue lentamente. Yamada mostra il contrasto tra le due ragazze con gli sguardi, ma in particolare inquadrando le gambe: vivaci e reattive quelle di Nozomi, che sale due gradini alla volta e arriva in fretta in cima; caute e strette quelle di Mizore, che si ferma e osserva dal basso la figura quasi divina dell'amica. È tuttavia Mizore, dopo un breve flashback che mostra come il loro rapporto non sia cambiato molto rispetto al loro primo incontro, che apre la porta dell'aula. La sequenza è accompagnata da una traccia musicale minimalista che integra i suoni ritmici dei passi come percussioni, delineando un'atmosfera a tratti magica. Non sono quasi presenti dialoghi: la situazione, i sentimenti delle ragazze, le loro personalità, la loro distanza e il loro rapporto vengono trasmessi interamente e perfettamente tramite la maestria audiovisiva. Finita questa introduzione, lo spettatore sa, e sente, tutto ciò che deve sapere riguardo le protagoniste, senza una sola spiegazione a parole.

La narrazione si concentra sul parallelismo tra la storia reale di Mizore e Nozomi e quella fittizia di Liz e l'uccellino azzurro. La fiaba, che ispira il brano scelto dalla banda scolastica, parla di una ragazza di nome Liz che stringe una forte amicizia con un uccellino che assume sembianze umane, e finisce con la loro separazione. Le due ragazze devono prepararsi a un duetto in cui l'oboe di Mizore rappresenta Liz, mentre il flauto di Nozomi rappresenta l'uccellino, e si immedesimano nella fiaba: come l'uccellino con Liz, l'energetica Nozomi ha aperto il mondo buio dell'introversa Mizore, diventando per lei necessaria. Tuttavia, le protagoniste fanno fatica a comprendere il finale della fiaba, in cui Liz lascia andare l'uccellino, sentendosi in colpa per averla tenuta in gabbia e impedito di spiegare le ali; questo le porterà, nel mezzo di difficili decisioni circa i loro piani di vita all'indomani delle superiori, a mettere in discussione la loro interpretazione della fiaba e quale personaggio davvero le rispecchi. Le ali dell'uccellino diventano quindi una rappresentazione dell'incredibile talento musicale di Mizore, catalizzatore di una svolta nella relazione delle due ragazze.

Il film parte da uno scheletro narrativo apparentemente semplice, per poi costruire una complessa e sfaccettata esplorazione piscologica di due personaggi veri e tridimensionali. Canalizza tutta l'attenzione al loro rapporto, per poterlo trattare con la massima completezza, senza appesantirlo con sotto-trame o accennando a più tematiche di quelle necessarie. Utilizza numerosi simbolismi visivi che accentuano ogni scena e trasmettono ogni tema con grazia ed empatia, e sono integrati a dir poco magistralmente. Affronta l'amicizia (o amore) delle protagoniste, la paradossale distanza che ciascuna crea per paura di perdere l'altra completamente, e la vicinanza che ottengono quando finalmente decidono di lasciar andare e seguire la propria strada, e come questo non sia affatto un abbandono. La scena finale rispecchia perfettamente quella iniziale, dando all'opera un senso di completezza e coesione. Yamada ha il totale controllo di ogni scena e ogni fotogramma, rendendoli tutti indispensabili. La colonna sonora minimale di Kensuke Ushio valorizza ogni momento, compresi i lunghi silenzi, ed è utilizzata in modo impeccabile. Nao Touyama e Atsumi Tanezaki danno vita alle protagoniste in una delle loro migliori interpretazioni, veicolando i drammi e le emozioni in modo realistico e credibile. I colori e i design dei personaggi sono rinnovati e diversi rispetto a quelli della serie madre, sposandosi meglio con l'impostazione più fiabesca e personale. E prevedibilmente, essendo un prodotto Kyoto Animation, i disegni e le animazioni sono costantemente mozzafiato.

Un film di rara bellezza per chiunque apprezzi una storia semplice ma profonda, messa in scena con maestria e passione.

"Happy Ice Cream!"