Anno S.1209. La minaccia posta dall’organizzazione Almata è stata debellata e la pace è finalmente tornata nella repubblica di Calvard. Un giorno, però, un'unità delle operazioni speciali della CID viene trovata massacrata in un angolo della capitale Edith. Mentre le autorità lavorano per contenere la situazione, le forze clandestine colgono l'occasione per agire di propria iniziativa, corre voce che un mostro "cremisi" sia stato avvistato sulla scena del crimine. Nel frattempo, lo spriggan Van Arkride inizia la sua indagine, sollecitato dall’inaspettata visita alla sua agenzia di Elaine Auclair, membro di rango A della Gilda Bracer, nonché sua vecchia conoscenza. Mentre Van ed Elaine cercano il responsabile dell'accaduto, Agnès Claudel continua la sua ricerca dell'ottava e ultima Genesis.

Divisivo, sperimentale, pretestuoso, disorientante, incompreso. Sono numerosi e di varia natura, sia positivi che negativi, gli aggettivi che descrivevano, o quantomeno provavano a descrivere, il dodicesimo capitolo della macro-saga Trails sviluppata da Nihon Falcom, dispensati da parte di coloro che avevano giocato la versione giapponese uscita nel 2022. Pur non priva di momenti meno riusciti di altri e scivoloni di varia natura, l’accoglienza riservata di capitolo in capitolo nei confronti di questa serie si potrebbe misurare come la linea di un elettroencefalogramma abbastanza piatta, totalmente priva di bruschi sussulti, sia da parte della critica, quasi ritenuta inutile per una serie tanto di nicchia quanto consolidata nelle sue fondamenta, sia da parte dei fan, le cui discussioni più accese vertevano su quale percorso di crescita fosse migliore, se quello di Estelle o quello di Rean, su quale gioco avesse la colonna sonora migliore, sulle solite waifu-war e annesse tier-list. Questo si potrebbe definire il risultato di una serrata serialità che, dopo vent’anni di elogi, crescita e ricercata espansione narrativa, inizia forse a far sentire i suoi scricchiolii; venuto meno il senso di scoperta che caratterizzavano i primi giochi della serie, la creatura di Toshihiro Kondo rischia di farsi rinserrare tra quelli che sono i suoi punti fermi e la ricerca di un senso di stupore sempre più difficile da attuare, dopo il finale del capitolo di Erebonia. Trails through Daybreak II, dodicesimo capitolo della saga e secondo ambientato a Calvard, sembra esattamente il frutto di questa contrapposizione creativa.

Partiamo però dagli aspetti positivi, Trails through Daybreak II, uscito appena un anno dopo il suo predecessore, poggia sulle solide basi di quest’ultimo, ritenuto uno dei giochi migliori della serie per il modo in cui ha portato freschezza al franchise, sia dal punto di vista narrativo, con nuovi interessantissimi personaggi e una ambientazione tutta da scoprire, sia per quanto riguarda le meccaniche di gioco, ammodernate al punto giusto. Pur rientrando quindi nel novero dei capitoli di “rifinitura”, che si traduce in luoghi ora più o meno familiari e una continuità tecnico-estetica, Trails through Daybreak II risulta, come sequel, totalmente diverso da quanto fatto a loro tempo da Trails in the Sky SC e Trails of Cold Steel II, i quali seguivano un plot twist, posto furbescamente nel finale del capitolo precedente, portando avanti le vicende dei personaggi e in generale del conflitto che ne scaturiva, senza soluzione di continuità, come fosse un nuovo episodio di una serie TV. Trails through Daybreak, al contrario, ha una sua chiusura, pur lasciando aperte questioni in sospeso, riguardanti però la macro-trama della serie. Una scelta ben precisa da parte di Toshihiro Kondo e del suo team, che ha avuto l’esito di consegnare un tradizionale gioco di ruolo fatto e finito, con un suo climax e un suo finale, per quanto inserito in un mosaico molto più ampio, ma che, allo stesso tempo, può avere l’effetto di depotenziare il suo sequel dalla sua molla di aspettative, come una batteria che necessita nuovamente di ricaricarsi.
Sarà forse (anche) per questo che Trails through Daybreak II, fin dalle prime battute, sembra voler distanziarsi dai toni consoni alla serie, quantomeno in superficie, per divenire più dark, più adulto, come se il D∴G cult, che non a caso fa qui il suo ritorno, tramite il personaggio di Renne che ne porta il traumatico peso, non fosse argomento già di per sé abbastanza arduo da trattare, perché di esperimenti e abusi su bambini stiamo parlando. Se la duologia di Crossbell ha colpito così nel segno, nel far compiere il salto di qualità alla serie, è stato per questo suo modo narrare, senza per forza mostrare, la violenza e il marcio del mondo, riuscendo a districarsi con un’eleganza che non cede alla sovraesposizione, e dove il dettaglio, anche nei momenti apparentemente meno importanti, finisce per acquisire un valore maggiore. Ebbene, Trails through Daybreak II non riesce a trovare lo stesso equilibrio dei migliori capitoli della saga Falcom, inclusi i maggiori mattoni come Cold Steel IV.

Cercando forse il modo di rendere il tutto un po’ diverso dal solito, l’implementazione del “rewind”, tramite la Oct-Genesis che si attiva avvolgendo il tempo nei momenti più critici (leggi: la morte di uno o più personaggi, anche principali), è un’arma a doppio taglio da parte degli sceneggiatori. Da una parte, l’idea di vivere dei “what if” con possibilità di cambiare il destino degli eventi in base a determinate scelte, applicato ad un RPG, è a modo suo un’idea carina; di contro, inserita nel contesto della sovrabbondanza Falcom, ha l’effetto di infarcire il gioco di tempi morti, i quali, in aggiunta ad un’infinità di boss battle per lo più evitabili, vanno inevitabilmente a compromettere tanto il pathos stesso degli eventi (giacché “annullabili” come in una qualsivoglia visual novel dalle decine di route), quanto nel ritmo della narrazione come mai prima d’ora, con il pensiero rivolto in particolare al tanto discusso Capitolo III, interminabile, a tratti estenuante.
Eppure, basterebbero le backstory di Nadia e Swin, così come di Renne, per marcare in modo netto la cesura tra vita presente e le immagini stagliate nella memoria, per rendersi conto di come Falcom cerchi prima di ogni altra cosa di costruire i propri personaggi, di scavare in profondità nei loro conflitti. C’è un sentimento intimo che unisce Van, Elaine e Agnès, un triangolo pieno di ostacoli ma rafforzato dopo il finale di Daybreak I, tasselli che, in un modo o nell’altro, fanno sì che i giocatori possano connettersi a questi splendidi interpreti, con i comprimari che non sono da meno, da un sorprendente Quatre all’imprevedibile Shizuna, Calvard ha già quello che è probabilmente il miglior cast di personaggi della serie, che paiono però fare a pugni con villain che conducono una gara su chi è più eccentrico, macchiettistico, sopra le righe, tolto Cao Lee che ben conosciamo, il tutto inserito in una sceneggiatura sempre interessante, con side-quest generalmente più curate del solito, ma in alcuni frangenti stirata come una piadina.
Se c’è una cosa che difatti non manca a Daybreak II, oltre alla ormai nota cura della costruzione scenica, è la presenza di scene di un certo impatto collocate già entro la prima metà, portando a una serie di torsioni narrative che però fanno una certa fatica a mantenere alta l’attenzione come è stato in passato. Una narrazione così arzigogolata è probabilmente l’unico modo di portare avanti in maniera soddisfacente un racconto, già in questo secondo atto di Calvard, con così tanti personaggi, in vista del fondamentale Trails beyond Horizon, ma è difficile negare che ciò rischia di raffreddare il dramma tipico di questa serie e potenzialmente ridurne il coinvolgimento.

Come già definito sequel di rifinitura, Trails through Daybreak II propone poche ma mirate novità al sistema di gioco rispetto al predecessore, il più importante dei quali è senza ombra di dubbio il Märchen Garten, spazio virtuale con dungeon generati su più piani, sotto alcuni punti di vista simile al Reverie Corridor di Trails into Reverie, utile per utilizzare e di conseguenza potenziare personaggi in quei momenti non vincolati dagli eventi della storia. Analizzando i Mystic Cube al suo interno, il Märchen Garten permette di riscattare ricompense uniche quali Skill Stone per potenziare le tecniche dei personaggi, costumi e musiche di sottofondo. Qualcuno si è sentito in dovere di lamentarsi della mancanza di attività secondarie nel primo Trails through Daybreak, ebbene Falcom ripristina la tanto amata/odiata attività di pesca, in aggiunta a nuovi minigiochi come il Seven Herts, un card game simile a UNO, un gioco di basket 1v1 e quello che è forse il migliore del lotto nella sua semplicità, l’hacking dello Xipha.
In fase di combattimento Trails through Daybreak II rimane pressoché invariato rispetto al gioco precedente, confermando il suo apprezzato ibrido tra un sistema in tempo reale per la fase esplorativa (Field Battle) e uno a turni per gli scontri che necessitano di una strategia maggiore (Command Battle), limitandosi ad aggiungere, oltre alle immancabili nuove tecniche, una skill offensiva, per lo più sottoforma di proiettile magico, prerogativa per ogni personaggio nella prima modalità, allo scopo di renderla meno monotona, composta altrimenti soltanto da attacco base e colpo caricato. In alcuni dungeon viene richiesto di utilizzare l’attacco magico per superare alcuni ostacoli, ma per lo più la Field Battle rimane un modo per liquidare in fretta i mostri più deboli velocizzando l’esplorazione e nulla più. Doppiaggio, colonna sonora e comparto tecnico al livello del predecessore, con qualche miglioria in più su PS5, la versione testata.
Disponibile anche per PS4, Switch e PC.
Recensioni della saga: Nayuta, Zero, Azure, Cold Steel I, II, III, IV, Reverie, Daybreak.

Divisivo, sperimentale, pretestuoso, disorientante, incompreso. Sono numerosi e di varia natura, sia positivi che negativi, gli aggettivi che descrivevano, o quantomeno provavano a descrivere, il dodicesimo capitolo della macro-saga Trails sviluppata da Nihon Falcom, dispensati da parte di coloro che avevano giocato la versione giapponese uscita nel 2022. Pur non priva di momenti meno riusciti di altri e scivoloni di varia natura, l’accoglienza riservata di capitolo in capitolo nei confronti di questa serie si potrebbe misurare come la linea di un elettroencefalogramma abbastanza piatta, totalmente priva di bruschi sussulti, sia da parte della critica, quasi ritenuta inutile per una serie tanto di nicchia quanto consolidata nelle sue fondamenta, sia da parte dei fan, le cui discussioni più accese vertevano su quale percorso di crescita fosse migliore, se quello di Estelle o quello di Rean, su quale gioco avesse la colonna sonora migliore, sulle solite waifu-war e annesse tier-list. Questo si potrebbe definire il risultato di una serrata serialità che, dopo vent’anni di elogi, crescita e ricercata espansione narrativa, inizia forse a far sentire i suoi scricchiolii; venuto meno il senso di scoperta che caratterizzavano i primi giochi della serie, la creatura di Toshihiro Kondo rischia di farsi rinserrare tra quelli che sono i suoi punti fermi e la ricerca di un senso di stupore sempre più difficile da attuare, dopo il finale del capitolo di Erebonia. Trails through Daybreak II, dodicesimo capitolo della saga e secondo ambientato a Calvard, sembra esattamente il frutto di questa contrapposizione creativa.
Partiamo però dagli aspetti positivi, Trails through Daybreak II, uscito appena un anno dopo il suo predecessore, poggia sulle solide basi di quest’ultimo, ritenuto uno dei giochi migliori della serie per il modo in cui ha portato freschezza al franchise, sia dal punto di vista narrativo, con nuovi interessantissimi personaggi e una ambientazione tutta da scoprire, sia per quanto riguarda le meccaniche di gioco, ammodernate al punto giusto. Pur rientrando quindi nel novero dei capitoli di “rifinitura”, che si traduce in luoghi ora più o meno familiari e una continuità tecnico-estetica, Trails through Daybreak II risulta, come sequel, totalmente diverso da quanto fatto a loro tempo da Trails in the Sky SC e Trails of Cold Steel II, i quali seguivano un plot twist, posto furbescamente nel finale del capitolo precedente, portando avanti le vicende dei personaggi e in generale del conflitto che ne scaturiva, senza soluzione di continuità, come fosse un nuovo episodio di una serie TV. Trails through Daybreak, al contrario, ha una sua chiusura, pur lasciando aperte questioni in sospeso, riguardanti però la macro-trama della serie. Una scelta ben precisa da parte di Toshihiro Kondo e del suo team, che ha avuto l’esito di consegnare un tradizionale gioco di ruolo fatto e finito, con un suo climax e un suo finale, per quanto inserito in un mosaico molto più ampio, ma che, allo stesso tempo, può avere l’effetto di depotenziare il suo sequel dalla sua molla di aspettative, come una batteria che necessita nuovamente di ricaricarsi.
Sarà forse (anche) per questo che Trails through Daybreak II, fin dalle prime battute, sembra voler distanziarsi dai toni consoni alla serie, quantomeno in superficie, per divenire più dark, più adulto, come se il D∴G cult, che non a caso fa qui il suo ritorno, tramite il personaggio di Renne che ne porta il traumatico peso, non fosse argomento già di per sé abbastanza arduo da trattare, perché di esperimenti e abusi su bambini stiamo parlando. Se la duologia di Crossbell ha colpito così nel segno, nel far compiere il salto di qualità alla serie, è stato per questo suo modo narrare, senza per forza mostrare, la violenza e il marcio del mondo, riuscendo a districarsi con un’eleganza che non cede alla sovraesposizione, e dove il dettaglio, anche nei momenti apparentemente meno importanti, finisce per acquisire un valore maggiore. Ebbene, Trails through Daybreak II non riesce a trovare lo stesso equilibrio dei migliori capitoli della saga Falcom, inclusi i maggiori mattoni come Cold Steel IV.
Cercando forse il modo di rendere il tutto un po’ diverso dal solito, l’implementazione del “rewind”, tramite la Oct-Genesis che si attiva avvolgendo il tempo nei momenti più critici (leggi: la morte di uno o più personaggi, anche principali), è un’arma a doppio taglio da parte degli sceneggiatori. Da una parte, l’idea di vivere dei “what if” con possibilità di cambiare il destino degli eventi in base a determinate scelte, applicato ad un RPG, è a modo suo un’idea carina; di contro, inserita nel contesto della sovrabbondanza Falcom, ha l’effetto di infarcire il gioco di tempi morti, i quali, in aggiunta ad un’infinità di boss battle per lo più evitabili, vanno inevitabilmente a compromettere tanto il pathos stesso degli eventi (giacché “annullabili” come in una qualsivoglia visual novel dalle decine di route), quanto nel ritmo della narrazione come mai prima d’ora, con il pensiero rivolto in particolare al tanto discusso Capitolo III, interminabile, a tratti estenuante.
Eppure, basterebbero le backstory di Nadia e Swin, così come di Renne, per marcare in modo netto la cesura tra vita presente e le immagini stagliate nella memoria, per rendersi conto di come Falcom cerchi prima di ogni altra cosa di costruire i propri personaggi, di scavare in profondità nei loro conflitti. C’è un sentimento intimo che unisce Van, Elaine e Agnès, un triangolo pieno di ostacoli ma rafforzato dopo il finale di Daybreak I, tasselli che, in un modo o nell’altro, fanno sì che i giocatori possano connettersi a questi splendidi interpreti, con i comprimari che non sono da meno, da un sorprendente Quatre all’imprevedibile Shizuna, Calvard ha già quello che è probabilmente il miglior cast di personaggi della serie, che paiono però fare a pugni con villain che conducono una gara su chi è più eccentrico, macchiettistico, sopra le righe, tolto Cao Lee che ben conosciamo, il tutto inserito in una sceneggiatura sempre interessante, con side-quest generalmente più curate del solito, ma in alcuni frangenti stirata come una piadina.
Se c’è una cosa che difatti non manca a Daybreak II, oltre alla ormai nota cura della costruzione scenica, è la presenza di scene di un certo impatto collocate già entro la prima metà, portando a una serie di torsioni narrative che però fanno una certa fatica a mantenere alta l’attenzione come è stato in passato. Una narrazione così arzigogolata è probabilmente l’unico modo di portare avanti in maniera soddisfacente un racconto, già in questo secondo atto di Calvard, con così tanti personaggi, in vista del fondamentale Trails beyond Horizon, ma è difficile negare che ciò rischia di raffreddare il dramma tipico di questa serie e potenzialmente ridurne il coinvolgimento.
Come già definito sequel di rifinitura, Trails through Daybreak II propone poche ma mirate novità al sistema di gioco rispetto al predecessore, il più importante dei quali è senza ombra di dubbio il Märchen Garten, spazio virtuale con dungeon generati su più piani, sotto alcuni punti di vista simile al Reverie Corridor di Trails into Reverie, utile per utilizzare e di conseguenza potenziare personaggi in quei momenti non vincolati dagli eventi della storia. Analizzando i Mystic Cube al suo interno, il Märchen Garten permette di riscattare ricompense uniche quali Skill Stone per potenziare le tecniche dei personaggi, costumi e musiche di sottofondo. Qualcuno si è sentito in dovere di lamentarsi della mancanza di attività secondarie nel primo Trails through Daybreak, ebbene Falcom ripristina la tanto amata/odiata attività di pesca, in aggiunta a nuovi minigiochi come il Seven Herts, un card game simile a UNO, un gioco di basket 1v1 e quello che è forse il migliore del lotto nella sua semplicità, l’hacking dello Xipha.
In fase di combattimento Trails through Daybreak II rimane pressoché invariato rispetto al gioco precedente, confermando il suo apprezzato ibrido tra un sistema in tempo reale per la fase esplorativa (Field Battle) e uno a turni per gli scontri che necessitano di una strategia maggiore (Command Battle), limitandosi ad aggiungere, oltre alle immancabili nuove tecniche, una skill offensiva, per lo più sottoforma di proiettile magico, prerogativa per ogni personaggio nella prima modalità, allo scopo di renderla meno monotona, composta altrimenti soltanto da attacco base e colpo caricato. In alcuni dungeon viene richiesto di utilizzare l’attacco magico per superare alcuni ostacoli, ma per lo più la Field Battle rimane un modo per liquidare in fretta i mostri più deboli velocizzando l’esplorazione e nulla più. Doppiaggio, colonna sonora e comparto tecnico al livello del predecessore, con qualche miglioria in più su PS5, la versione testata.
Disponibile anche per PS4, Switch e PC.
Recensioni della saga: Nayuta, Zero, Azure, Cold Steel I, II, III, IV, Reverie, Daybreak.
Lo stile di Falcom, divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica tanto nel modo in cui vengono portati avanti gli eventi quanto nella scelta della divisione in archi narrativi, si pone sempre all’altezza dei suoi splendidi personaggi, cercando di comprenderli a fondo, ma questa volta fa molta più fatica a mantenere il focus sulla trama principale. Una serie di discutibili scelte di non linearità che giocano a fare la visual novel di Hiroyuki Kanno si innestano con non sempre efficacia nel racconto, riuscendo in larga parte ad essere digeribile più che altro grazie alle solide basi lasciate dal predecessore. Daybreak II resta così un sigaro acceso solo in parte come capitolo di mezzo dalla durata di un’ottantina di ore, che stavolta si fanno sentire tutte, lasciando al remake di Trails in the Sky il compito di far tornare, riavvolgendo un po' il nastro, quella genuina sensazione di scoperta, destandoci momentaneamente dal torpore della serialità.
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Pro
- I personaggi di Calvard si confermano tra i migliori della serie
- Maggiori contenuti rispetto a Daybreak I
- Miglioramenti nel gameplay
Contro
- La meccanica del rewind e delle linee narrative appesantisce la narrazone
- Molte boss battle evitabili e prive di pathos
Trails of cold steel me lo sono divorato e anche i capitoli più lunghi oltre le 100 ore non mi sono pesati per niente.
Invece ho fatto fatica a finire il primo capitolo di Daybreak. Giocherò anche il secondo capitolo prima o poi, perché ormai voglio vedere come si conclude sto arco e anche tutta la serie di Trails.
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