Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento libero, con gli anime Quando c'era Marnie, Little Witch Academia Enchanted Parade e Steamboy.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Sarò sincera: da questo film non mi aspettavo granché, in quanto il trailer non mi aveva colpito molto, non con quella canzone in inglese che sembrava messa un po' a caso.
Invece "Omoide no Marnie" (letteralmente "Marnie dei ricordi"), tratto dal libro "When Marnie was There" dell'autrice inglese Joan Gale Robinson, si è rivelato una piacevole sorpresa. Coinvolgente e a tratti onirico, con un ritmo ben cadenzato e una trama che si dipana senza fretta, il film ci permette di conoscere pian piano le due protagoniste e il mistero che circonda entrambe, fino al finale a sorpresa che davvero rimane tale sino alla fine - almeno per chi non conosce già la trama.
Altra nota di merito e marchio dello studio Ghibli sono i personaggi secondari: nessuno viene lasciato da parte, in due pennellate - è proprio il caso di dirlo - ci vengono presentati personaggi a tutto tondo, a partire dai due anziani signori che ospitano la protagonista Anna per l'estate fino ad altri che avranno un ruolo fondamentale ai fini della trama.

La storia della Robinson era originariamente ambientata in Inghilterra, in un paesino del Norfolk che si affaccia sul mare del Nord, una zona paludosa e piena di acquitrini dove acqua e terra si confondono e danno vita a un "terzo mondo" nel quale i confini svaniscono ed è possibile fare incontri straordinari.
Paradossalmente, la trasposizione della storia in Giappone non fa altro che arricchire tale metafora, almeno a mio parere: il personaggio di Marnie si inserisce alla perfezione in un contesto come quello giapponese di fine Ottocento e inizio Novecento, quando parecchi stranieri si erano trasferiti in Giappone dopo l'apertura (forzata) all'Occidente. Diversa letteratura nipponica tratta tematiche legate all'incontro fra le "due" culture - perché agli occhi dei Giapponesi d'allora l'Occidente era uno, in questo non siamo diversi - e Marnie risulta essere un prodotto di questa "terza" cultura, perché cresce in Giappone ma in una casa occidentale, ricevendo probabilmente un'educazione che mescola elementi di entrambe.
I confini fra le due culture svaniscono, esattamente come nel mondo esterno dove l'alta e la bassa marea portano flussi e riflussi di passato e ricordi, dando origine a un mondo onirico dove i limiti tra Oriente e Occidente, tra passato e presente semplicemente svaniscono.

Unica dota di demerito è secondo me la colonna sonora: da uno studio che si è spesso contraddistinto per colonne sonore che sono veri e propri capolavori (in genere merito di Joe Hisaishi, ma anche la Cécile Corbel per "Karigurashi no Arrietty" si è rivelata una scelta azzeccata) mi aspettavo molto di più.
Soprattutto la canzone principale del film, della cantante statunitense Priscilla Ahn, risulta scialba e poco adatta. Se la colonna sonora fosse stata ai livelli a cui ci ha abituato lo studio Ghibli, sarebbe stato un 10.




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"Little Witch Academia: Mahou Shikake no Parade", anche conosciuto come "Little Witch Academia: The Enchanted Parade", è un film d'animazione giapponese del 2015, della durata di poco inferiore a un'ora, prodotto dallo studio Trigger. E' il sequel del corto "Little Witch Academia" del 2013.

Trama: Akko, Lotte e Sucy combinano l'ennesimo pasticcio durante una lezione e, come punizione, viene imposto loro di organizzare la tradizionale parata che, ogni anno, serve a consolidare i rapporti tra i cittadini del paese vicino e le streghe dell'Accademia Nova Luna. Peccato che, in realtà, si tratti di una rievocazione della caccia alle fattucchiere, con simulazioni di supplizi e brutali interrogatori. A complicare le cose, le protagoniste dovranno convincere a collaborare altre tre problematiche studentesse.

Nel passaggio da corto a lungometraggio, "Little Witch Academia" perde un po' di freschezza, presentando, se possibile, una trama ancora più scontata e prevedibile. Akko porterà tutto il suo non troppo contagioso entusiasmo nella progettazione della parata, ignorando le necessità e i sentimenti delle sue amiche, troppo focalizzata sulla propria autoaffermazione e sul desiderio di realizzare i propri sogni, cieca a tutto quello che la circonda. Si configura, in questo modo, un percorso poco originale di amicizie in crisi e mancanza di fiducia reciproca e dialogo che porterà, inevitabilmente, alla scoperta di tutti quegli innegabili vantaggi che, invece, possono fornire la collaborazione e la comprensione.
Il film ci presenta un setting più dettagliato, rispetto all'OAV che l'aveva preceduto: si viene a conoscenza delle persecuzioni subite dalle streghe e del fatto che in molti non vedono di buon occhio coloro che praticano le arti magiche, legati a un'immagine riferita ai vecchi stereotipi; specie dalle nuove generazioni, sono viste come megere antiquate e ignoranti in materia di tecnologia e moderni comfort. Ed è proprio questa situazione che Akko, con il suo inguaribile ottimismo, vuole modificare drasticamente, sempre ispirata dall'esempio di Shiny Chariot.
I personaggi sono indubbiamente più approfonditi, grazie ad eventi che mettono meglio in risalto le loro caratterizzazioni, il loro passato e le loro relazioni, molto meno statiche che in precedenza. Tutto questo, però, non ne stravolge le personalità, riportandoci delle ragazze divertenti, affettuose, permalose e un pizzico folli, adolescenti che, con i loro problemi e le piccole manie, non sono nemmeno totalmente prive di credibilità.
I nuovi acquisti rivestono ruoli per lo più marginali, se paragonati al trio originario, ma riescono ad amalgamarsi senza problemi con il cast preesistente.

La componente tecnica si attesta su un ottimo livello, con un character design invariato e gradevole e delle più che buone animazioni, specie nelle coreografie per la parata e nell'iperbolico combattimento finale. Le ambientazioni sono discretamente particolareggiate e più varie che in passato. I colori sono vivaci e luminosi e rendono gli effetti visivi ancora più spettacolari. Il comparto sonoro si avvale di buoni effetti sonori e di una colonna sonora orecchiabile, che si limita a svolgere il proprio dovere con professionalità.
Non mancano anche svariate citazioni e altri marchi di fabbrica tipici dello studio Trigger.

"Little Witch Academia: The Enchanted Parade", così come l'opera di cui è il seguito diretto, si dimostra ancora una volta, con il suo umorismo efficace ma un po' infantile, i suoi sviluppi scontati e l'apparato grafico semplice e colorato, un prodotto rivolto tendenzialmente a un pubblico piuttosto giovane.
Il film invita a non abbandonarsi all'egoismo nel raggiungimento dei propri obiettivi, cercando di non perdere di vista i propri affetti, e a non giudicare realtà che non si conoscono, rinnegando pregiudizi e luoghi comuni, per quanto vecchi di secoli. Si tratta di una storia semplice, ma che intrattiene. Leggermente meno intrigante dell'OAV, ma comunque piacevole.




5.0/10
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Creata un'opera come "Akira", che ha reso famoso il nome di Otomo in tutto il mondo, il regista decide di fermarsi per un bel po' di anni dedicandosi a progetti per lo più trascurabili e non sempre di alto valore artistico, dove alla fine l'unica cosa di rilevante è il corto di venti minuti "Carne da Cannone" all'interno del film ad episodi "Memorie". Nel 2004, dopo ben sedici anni da "Akira", Otomo ritorna alla regia di un film per dirigere "Steamboy", venendo coadiuvato alla sceneggiatura da Sadayuki Murai, collaboratore di Satoshi Kon in "Perfect Blue" e "Millennium Actress". Con un budget faraonico di oltre venticinque milioni, Otomo realizza con "Steamboy" il film giapponese più costoso di sempre.

La storia è semplice: Ray Steam è un ragazzino avente grande talento nell'inventare nuovi oggetti che si alimentano con la forza del vapore, riuscendo in questo modo a trovare una valvola di sfogo dovuta alla mancanza del padre andato negli Usa. Un giorno il nonno invia a Ray una sfera, intimandogli di portarla a Londra dal professor Stevenson per proteggerla dalla fondazione Ohara. La sfera Steam ha al suo interno un concentrato di vapore ad alta densità distruttiva e per questo motivo dovrà impedire che cada nelle mani sbagliate.

Nonostante un soggetto interessante unito all'intrigante elemento steampunk, quasi inedito nei film d'animazione con ambientazione storica, Otomo riesce a 'cannare' nuovamente la sceneggiatura. Se in "Akira" ciò era dovuto alla compressione di 1600 pagine di fumetto in sole due ore di film, qua ogni scusa viene meno, visto che la sceneggiatura farebbe inorridire ogni scuola che insegna la scrittura di essa. La storia è lineare, ma il problema è che essa risulta narrata male e in modo confusionario; si fa uso frequente di colpi di scena per far stupire lo spettatore, ma essi risultano inseriti in malo modo, poiché non sono sorretti da adeguate premesse o retroscena narrativi. Dal disastro non si salvano i personaggi, i quali risultano scritti in modo scialbo, piatto, monocorde, e soprattutto passano da una fazione all'altra come una banderuola sferzata dal vento.
Neanche a livello contenutistico l'opera è salvabile, vista l'imbarazzante povertà intrinseca dei dialoghi messi in bocca ai personaggi, i quali parlano (ma sarebbe più corretto dire che urlano) per slogan, senza argomentare minimamente le loro posizioni in modo più articolato. Sostanzialmente Otomo, con questo film, vorrebbe chiedere allo spettatore a cosa possa portare il progresso scientifico all'alba dell'Esposizione Universale di Londra, arrivando anche a porre dei dilemmi sullo sfruttamento dell'uso della scienza senza un approccio etico nell'uso di essa. Concetti sicuramente interessanti; peccato che siano espressi male, poiché il nonno di Ray blatera un idiota quanto scriteriato slogan di stampo socialista contro i capitalisti rei, dal suo punto di vista, di pensare solo ai dividenti ottenuti grazie alle scoperte scientifiche, quando in realtà il mondo dovrebbe essere in parte grato a loro per i soldi investiti nella ricerca. Il padre del protagonista sostiene invece una scienza al servizio di tutta la popolazione, capace di cancellare le differenze sociali, così assumendo delle posizioni di stampo liberal-sociale. Parte della dialettica tra nonno e padre verte sull'impiego della scienza in guerra; come al solito Otomo sbaglia nuovamente a porre il problema in modo così semplicistico, visto che le maggiori scoperte scientifiche sono state fatte durante i conflitti armati. Quello che tutti noi vorremmo è che un autore così incensato si ponesse innanzi al problema in modo più interessante (sono consigliati sotto questo punto di vista "Patlabor 2" e "The Sky Crawlers" di Oshii, che affrontano l'argomento con un piglio filosofico misto a un pessimismo pragmatico di fondo), invece di affrontare una materia così complessa in modo assolutamente superficiale; poiché si finisce con il proporre la solita solfa sterile che pesca a piene mani dagli ideali socialisti di stampo utopico.
Tutto questo non può far altro che sfociare in una seconda metà di film degna dei peggiori blockbuster come "Man of Steel" di Zack Snyder (2012), dove il tutto diventa una "tortura" audio-visiva per il povero spettatore costretto a sorbirsi esplosioni, crolli di palazzi e scene di distruzione ripetute alla nausea, così ritrovandosi innanzi a sequenze di "pornografia visiva", che sembrano più il prodotto della mente di un tredicenne immaturo che di un regista capace con "Akira" di realizzare interessanti idee visive d'avanguardia grafica.

In mezzo a tutto questo scempio, si farebbe in effetti a dire prima cosa si salva; sicuramente la regia di Otomo è uno dei due elementi positivi dell'opera, visto che riesce a descrivere alla perfezione il periodo vittoriano; infatti tutto si può dire di tale regista, tranne che difetti di grande visionarietà, vista la capacità di riuscire a dare con gran garbo nelle sue opere grande sfogo al suo estro visivo, almeno finché lo tiene sotto controllo. A sostegno di ciò, non si può non citare come esempio di gran gusto visionario la sublime sequenza all'interno del palazzo dell'esposizione, dove il riflesso di Scarlett viene replicato su un gran numero di specchi, mostrando così le meraviglie della scienza; ma è interessante notare che, essendo un effetto "scenico", tale magnificenza risulta illusoria, e che quindi, dietro l'apparente bellezza della scienza, possono celarsi numerosi problemi che almeno superficialmente non emergono. Per quanto concerne la fotografia, la sua qualità risulta altalenante; se negli esterni il colore grigio è predominante, riuscendo in questo modo a catturare alla perfezione l'atmosfera della Londra del 1866 con la sua aria inquinata ma al contempo suggestiva, invece negli interni risulta essere troppo scura. Altro difetto dell'opera è il montaggio tremendamente incerto e che nell'ultima parte sbaglia quasi tutti i raccordi, finendo con l'aggiungere ancora più confusione all'apocalisse distruttiva.
Oltre alla regia unico altro elemento positivo risulta essere il comparto tecnico, dove Otomo riesce a raggiungere risultati strabilianti nel fondere le animazioni tradizionali con inserti in CGI dove spesso è arduo distinguere le due tecniche (anche se siamo lontani dai risultati avanguardistici raggiunti da Oshii con "Innocence" nel medesimo anno). Ma anche alle animazioni c'è un ulteriore critica da fare; se l'opera è un inno alla potenza delle macchine a vapore (gli oltre 180.000 disegni si vedono), data l'inutilità di alcune scene, verrebbe da parlare ad un certo punto di veri e propri "filler" dell'animazione, dove la potenza grafica risulta fine a sé stessa, finendo con lo stordire inutilmente lo spettatore.

In sostanza, "Steamboy" è un sonoro fallimento artistico, il quale andrebbe visto solamente perché almeno sino ad oggi risulta essere il film d'animazione tradizionale meglio animato di sempre (almeno tra quelli da me visti). Per i fanboy di Otomo risulterà un capolavoro o un ottimo film, invece per gli amanti del cinema tale pellicola sarà solo la conferma certa di come quest'autore abbia avuto tanta fortuna con "Akira", poiché, adagiandosi su una fama immeritatamente ricevuta, alla fine è dimostrato incapace di ripetersi. Il film giustamente fu un flop sia di critica (anche se qualche sedicente critico americano ha provato a salvare tale scempio) che di pubblico, non riuscendo a recuperare minimamente i mastodontici costi di produzione. Si spera che in futuro Otomo non ritorni più a dirigere più alcun film d'animazione, poiché evidentemente, se non spende quanto il PIL del continente africano, gli risulta impossibile girare una pellicola.