Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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In questo angolo di mondo
4.0/10
Recensione di MartinoMystero
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Anni fa girava su Internet un video dove un bambino in un parco veniva rapito da un’aquila. Per qualche giorno si accese il dibattito se questo video fosse vero o falso, poi si fecero avanti i due creatori, erano studenti di un corso universitario di grafica 3D. Il professore aveva assegnato ai ragazzi di questo corso un semplice compito: fare un video falso ma che sembrasse credibile, e coloro che avessero raggiunto le 100.000 visualizzazioni avrebbero ricevuto il massimo dei voti. Il video fu un successo, e dopo pochi giorni dalla pubblicazione aveva superato già i dieci milioni di contatti. Quando fu chiesto ai ragazzi come avessero fatto a scegliere questi soggetti, la risposta fu tanto sorprendente quanto banale: avevano analizzato i topic trend di YouTube e avevano visto che in cima al gradimento c’erano bambini e animali, così avevano deciso di unire i due super topic per creare il loro breve filmato.
Perché cito un vecchio video di YouTube per recensire questo lungometraggio? Semplice, perché, quando ho finito di vederlo, mi sono ritrovato con la sensazione di aver assistito a una storia costruita usando i trend di Google come ingredienti.
Per prima cosa si è preso l’evento più distruttivo del secolo scorso, poi si è aggiunto un bel po’ del più famoso anime storico della storia del Giappone (chissà qual è!), quindi si è buttato dentro uno degli anime più toccanti degli ultimi anni (che non guasta mai), si è gettato nel calderone un pizzico di character design anni ottanta (perché fa molto Studio Ghibli), infine si è data una bella shackerata et...
… voilà! Ecco a voi “In questo angolo di mondo”.
Non avendo letto il manga, non posso fare dei confronti, ma ho visto che la sceneggiatura e la regia sono state affidate a due persone diverse, e comunque, dal mio punto di vista, entrambe hanno delle gravi pecche.
La prima sorpresa negativa arriva già nei primi secondi di proiezione, quando si scopre che i personaggi sono disegnati come quarant’anni fa: questo fa sì che i protagonisti siano quasi completamente inespressivi, e che diano la sensazione di star a guardare delle bambole di pezza; inoltre anche il numero di frame per secondo dell’animazione è piuttosto basso. L’unica giustificazione che potevo dare a un disegno così scadente sarebbe stato quello di un’opera low cost, ma la fotografia è eccellente, e questo fa pensare che il budget di questo anime non sia stato così basso, quindi la sola motivazione che mi viene in mente è quella di una pura e semplice scelta artistica, fatta molto probabilmente per prendersi qualche bella recensione dalla critica più raffinata, quella che fa vincere i festival, per intenderci.
La storia invece sembra partire bene, viene presentata Suzo, la protagonista, la passione che ha per il disegno, viene introdotta la sua famiglia e la vita in un quell’angolo di mondo prima della Seconda Guerra Mondiale; ha una sorella più piccola e un fratello maggiore che chiama Orco, ma, da quello che si vede, il giovane fa ben poco per meritare questo appellativo. Nella sua vita compare anche bad boy, ed è evidente che ci sia del tenero fra loro, quindi tutto farebbe pensare che assisteremo alle difficoltà che lei, la sua famiglia e il suo amore dovranno affrontare, nella guerra prossima ventura. Ma poi la vita di Suzo ha una brusca virata, e la trama comincia a naufragare.
La ragazza, anche se non si può parlare di vere e proprie imposizioni, si ritrova a subire le decisioni fatte da altri per lei, e lo fa in uno stato di completa impassibilità, come se fosse un automa privo di emozioni, che esegue gli ordini senza aver nulla da dire. Attenzione, qui non parliamo di repressione emotiva, che avrebbe un suo perché, ma proprio assenza di emozioni, come se per lei non ci sia nessuna differenza tra il vivere nella propria casa, con la famiglia, vicino alla persona che si ama, e il farlo a quaranta chilometri di distanza, con dei perfetti sconosciuti, passando poi da una spensierata vita da adolescente ad una difficile da adulta. Non manifesta inoltre nessuna nostalgia o preoccupazione per la famiglia d’origine, ma soprattutto, e questa è la cosa più grave, non viene mai dato modo allo spettatore di sapere cosa le passi per la testa, con l’aggravante che lei è anche la voce narrante della storia.
Una delle poche cose buone di questa animazione è come viene presentato lo scorrere del tempo, che crea, in modo abile, un conto alla rovescia. All’inizio il balzo è di alcuni anni, poi diventa di mesi e, astutamente, verso la fine della storia, viene celato.
Ovviamente, con il procedere della narrazione, viene mostrato il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, ma non viene mai trasmesso un vero coinvolgimento emotivo. Vengono quindi aggiunti tutta una serie di siparietti che dovrebbero far ridere o sdrammatizzare, ma a me sono sembrate solo delle strutture artefatte buttate lì a caso. C’è poi anche una parte drammatica che coinvolge direttamente la protagonista, ma anche qui siamo andati sull’usato sicuro.
Una delle cose che più mi ha lasciato interdetto è il fatto che tutti questi personaggi, con una sola eccezione, vivano i propri lutti nello stesso modo in cui una persona normale vivrebbe la morte di un criceto, forse anche con meno trasporto.
Verso la fine della storia, finalmente, tutti si accorgono dell’ingiustizia che ha subito la ragazza, e anche lei comincia infine ad esternare le proprie emozioni, ma questo, insieme al countdown, serve solo a creare una certa suspense riguardo le sorti della protagonista.
Come dicevo sopra, bellissime sono le immagini della città: ritengo che l’obbiettivo fosse quello di creare un forte contrasto tra il prima e il dopo la guerra, e anche la scena finale della mamma con il bambino ha un suo perché, ma è troppo poco. Penso che sarebbe stata una buona idea tentare di fare un cortometraggio partendo da lì, poteva venirne fuori un piccolo gioiello.
Come voto, a causa dell’insipidezza della narrazione, potevo dare tranquillamente un 5, ma, visto che ha deluso completamente le mie aspettative, gli do un bel 4!
Perché cito un vecchio video di YouTube per recensire questo lungometraggio? Semplice, perché, quando ho finito di vederlo, mi sono ritrovato con la sensazione di aver assistito a una storia costruita usando i trend di Google come ingredienti.
Per prima cosa si è preso l’evento più distruttivo del secolo scorso, poi si è aggiunto un bel po’ del più famoso anime storico della storia del Giappone (chissà qual è!), quindi si è buttato dentro uno degli anime più toccanti degli ultimi anni (che non guasta mai), si è gettato nel calderone un pizzico di character design anni ottanta (perché fa molto Studio Ghibli), infine si è data una bella shackerata et...
… voilà! Ecco a voi “In questo angolo di mondo”.
Non avendo letto il manga, non posso fare dei confronti, ma ho visto che la sceneggiatura e la regia sono state affidate a due persone diverse, e comunque, dal mio punto di vista, entrambe hanno delle gravi pecche.
La prima sorpresa negativa arriva già nei primi secondi di proiezione, quando si scopre che i personaggi sono disegnati come quarant’anni fa: questo fa sì che i protagonisti siano quasi completamente inespressivi, e che diano la sensazione di star a guardare delle bambole di pezza; inoltre anche il numero di frame per secondo dell’animazione è piuttosto basso. L’unica giustificazione che potevo dare a un disegno così scadente sarebbe stato quello di un’opera low cost, ma la fotografia è eccellente, e questo fa pensare che il budget di questo anime non sia stato così basso, quindi la sola motivazione che mi viene in mente è quella di una pura e semplice scelta artistica, fatta molto probabilmente per prendersi qualche bella recensione dalla critica più raffinata, quella che fa vincere i festival, per intenderci.
La storia invece sembra partire bene, viene presentata Suzo, la protagonista, la passione che ha per il disegno, viene introdotta la sua famiglia e la vita in un quell’angolo di mondo prima della Seconda Guerra Mondiale; ha una sorella più piccola e un fratello maggiore che chiama Orco, ma, da quello che si vede, il giovane fa ben poco per meritare questo appellativo. Nella sua vita compare anche bad boy, ed è evidente che ci sia del tenero fra loro, quindi tutto farebbe pensare che assisteremo alle difficoltà che lei, la sua famiglia e il suo amore dovranno affrontare, nella guerra prossima ventura. Ma poi la vita di Suzo ha una brusca virata, e la trama comincia a naufragare.
La ragazza, anche se non si può parlare di vere e proprie imposizioni, si ritrova a subire le decisioni fatte da altri per lei, e lo fa in uno stato di completa impassibilità, come se fosse un automa privo di emozioni, che esegue gli ordini senza aver nulla da dire. Attenzione, qui non parliamo di repressione emotiva, che avrebbe un suo perché, ma proprio assenza di emozioni, come se per lei non ci sia nessuna differenza tra il vivere nella propria casa, con la famiglia, vicino alla persona che si ama, e il farlo a quaranta chilometri di distanza, con dei perfetti sconosciuti, passando poi da una spensierata vita da adolescente ad una difficile da adulta. Non manifesta inoltre nessuna nostalgia o preoccupazione per la famiglia d’origine, ma soprattutto, e questa è la cosa più grave, non viene mai dato modo allo spettatore di sapere cosa le passi per la testa, con l’aggravante che lei è anche la voce narrante della storia.
Una delle poche cose buone di questa animazione è come viene presentato lo scorrere del tempo, che crea, in modo abile, un conto alla rovescia. All’inizio il balzo è di alcuni anni, poi diventa di mesi e, astutamente, verso la fine della storia, viene celato.
Ovviamente, con il procedere della narrazione, viene mostrato il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, ma non viene mai trasmesso un vero coinvolgimento emotivo. Vengono quindi aggiunti tutta una serie di siparietti che dovrebbero far ridere o sdrammatizzare, ma a me sono sembrate solo delle strutture artefatte buttate lì a caso. C’è poi anche una parte drammatica che coinvolge direttamente la protagonista, ma anche qui siamo andati sull’usato sicuro.
Una delle cose che più mi ha lasciato interdetto è il fatto che tutti questi personaggi, con una sola eccezione, vivano i propri lutti nello stesso modo in cui una persona normale vivrebbe la morte di un criceto, forse anche con meno trasporto.
Verso la fine della storia, finalmente, tutti si accorgono dell’ingiustizia che ha subito la ragazza, e anche lei comincia infine ad esternare le proprie emozioni, ma questo, insieme al countdown, serve solo a creare una certa suspense riguardo le sorti della protagonista.
Come dicevo sopra, bellissime sono le immagini della città: ritengo che l’obbiettivo fosse quello di creare un forte contrasto tra il prima e il dopo la guerra, e anche la scena finale della mamma con il bambino ha un suo perché, ma è troppo poco. Penso che sarebbe stata una buona idea tentare di fare un cortometraggio partendo da lì, poteva venirne fuori un piccolo gioiello.
Come voto, a causa dell’insipidezza della narrazione, potevo dare tranquillamente un 5, ma, visto che ha deluso completamente le mie aspettative, gli do un bel 4!
Somali and the Forest Spirit
4.0/10
Questo anime può provocare sia una sensazione di estrema partecipazione sia una di estrema noia. L’impatto emotivo è indubbio, in quanto “Somali and the Forest Spirit” coinvolge, creando tematiche che toccano la sensibilità di grandi e piccoli, quali l’abbandono, la speranza, l’affetto genitoriale, il tutto condito da lacrime e sorrisi di una bambina carinissima.
Tutto inizia quando un golem viene sequestrato da una bambina abbandonata, che, dopo averlo visto, lo chiama già papà, incatenandolo ad un ruolo che lui non può conoscere, ma nel quale cercherà di entrare con l’aiuto costante e le spintarelle di quelli che incontrerà nel suo viaggio, intrapreso con la piccola Somali allo scopo di cercare i suoi genitori. C’è però un piccolo problema: gli umani sono scomparsi da tempo, la loro alterigia e la loro volontà di dominio sulle creature non umane li ha resi ostili e indesiderati, tanto che un conflitto poi li ha visti prima sterminati e in seguito braccati e mangiati. Una vita grama, insomma, e un dato di fatto che mette il povero golem, al limite della fine della sua autonomia, in marcia verso l’ignoto.
Il viaggio è una girandola di colori e di personaggi. Le ambientazioni sono spettacolari. Cito con piacere il regno sotterraneo al deserto, popolato di funghi e pieno di luminosità delicate. Il deserto ha una sua poesia e creature inventate la cui idea alla base è ammirevole. C’è una ricerca nei vari personaggi che si sente e si vede, si percepisce una gran preparazione alle spalle di quest’opera. Segnalo poi la biblioteca delle streghe, splendida a livello visivo.
I personaggi principali sono il golem e la bambina. Mentre il primo scopre man mano di avere quel cuore che all’inizio nega di possedere, tanto da fare sacrifici e patire disagi per trovare i genitori di Somali prima del suo spegnimento, la bambina è quel che ci si aspetta. Dolce, dolcissima, pronta al pianto, al riso, alle battute scontate o alle dichiarazioni d’affetto spontanee e mielose. Il fatto che viaggi camuffata con un cappuccio e due corna cucite sopra, poi, non insospettisce nessuno. Se gli umani hanno un buon odore, perché così poche creature si accorgono della sua natura?
Situazioni estreme che ami o aborri sono episodi come il febbrone di Somali o la sua ricerca indefessa di quel fiore dei desideri perché la bambina vuole stare col suo papà, disperatamente. E dopo pianti, risa, lacrime, promesse strappate a stare per sempre assieme, dettagli sulla ‘pucciosità’ e l’innocenza della bambina, personaggi tutti buoni (tutti tutti, né i demoni né le arpie sono cattivi) che s’incantano alla vista della piccola, questo anime o lo si ama o lo si odia.
E la visione diventa estenuante, piena di zucchero, senza avvenimenti particolari, salvo la presa di consapevolezza che il golem ama la piccola a modo suo e che forse dovrebbe aggiustare il suo comportamento in modo migliore, visti i suoi sbagli pregressi. Tutti i personaggi secondari sono troppo buoni e si impicciano nella relazione padre-figlia con consigli del tipo “Sii un buon genitore”, “Non abbandonarla nonostante ti manchino trecento giorni di vita”, “Piange, consolala!”
Quando comincia la vicenda del deserto e la risoluzione utopistica della vicenda tra l’arpia e l’umano (“I sentimenti sono veri!”, dice Somali, ma chissà se capisce il valore della vita di un’orfana adottata dal cannibale di sua mamma, qualunque fosse il motivo per cui si è spinto a un pasto così orrido) si spera che la trama proceda, ma alla biblioteca delle streghe comincia a logorarsi la pazienza.
Se le streghe sono davvero custodi del sapere, è quello il modo di custodirlo? Perdere libri, essere incapaci di difenderli, far perdere informazioni e far correre rischi agli utenti. Chiudete bottega, befane, fate male il vostro mestiere! E quando il libro si dissolve nei contenuti, ecco che c’è una soluzione: chiedere all’ultima persona che l’ha letto, lì disponibile e avvolta nell’ombra.
A questo punto ho gridato: “Basta!”. L’impianto narrativo è stato fatto per mettere a dura prova i miei nervi. Sempre le solite dinamiche: Somali in pericolo, Somali protetta dal golem, informazioni che non ci sono e ‘pucciosità’ varia. E poi nuovi personaggi che appaiono e scompaiono dimenticati, inutili, buoni per uno sfondo etnico di colore. Più di otto episodi per non dire nulla, nulla di nulla.
Ho scorso l’ultimo episodio rapida rapida e sono contenta di non aver finito quest’anime: il finale melenso, ancora senza finale... con quattro episodi che mi sono rifiutata di vedere e so già noiosi e pesanti da digerire senza nulla da aggiungere.
Quest’anime ha una struttura pesante, pedante, monotona. Ha sì sfondi, colori, personaggi e una buona trama di base, ma la sua lentezza mostruosa, il suo nicchiare infinito, la continua esposizione di sentimenti buonisti sono esasperanti.
Tutto inizia quando un golem viene sequestrato da una bambina abbandonata, che, dopo averlo visto, lo chiama già papà, incatenandolo ad un ruolo che lui non può conoscere, ma nel quale cercherà di entrare con l’aiuto costante e le spintarelle di quelli che incontrerà nel suo viaggio, intrapreso con la piccola Somali allo scopo di cercare i suoi genitori. C’è però un piccolo problema: gli umani sono scomparsi da tempo, la loro alterigia e la loro volontà di dominio sulle creature non umane li ha resi ostili e indesiderati, tanto che un conflitto poi li ha visti prima sterminati e in seguito braccati e mangiati. Una vita grama, insomma, e un dato di fatto che mette il povero golem, al limite della fine della sua autonomia, in marcia verso l’ignoto.
Il viaggio è una girandola di colori e di personaggi. Le ambientazioni sono spettacolari. Cito con piacere il regno sotterraneo al deserto, popolato di funghi e pieno di luminosità delicate. Il deserto ha una sua poesia e creature inventate la cui idea alla base è ammirevole. C’è una ricerca nei vari personaggi che si sente e si vede, si percepisce una gran preparazione alle spalle di quest’opera. Segnalo poi la biblioteca delle streghe, splendida a livello visivo.
I personaggi principali sono il golem e la bambina. Mentre il primo scopre man mano di avere quel cuore che all’inizio nega di possedere, tanto da fare sacrifici e patire disagi per trovare i genitori di Somali prima del suo spegnimento, la bambina è quel che ci si aspetta. Dolce, dolcissima, pronta al pianto, al riso, alle battute scontate o alle dichiarazioni d’affetto spontanee e mielose. Il fatto che viaggi camuffata con un cappuccio e due corna cucite sopra, poi, non insospettisce nessuno. Se gli umani hanno un buon odore, perché così poche creature si accorgono della sua natura?
Situazioni estreme che ami o aborri sono episodi come il febbrone di Somali o la sua ricerca indefessa di quel fiore dei desideri perché la bambina vuole stare col suo papà, disperatamente. E dopo pianti, risa, lacrime, promesse strappate a stare per sempre assieme, dettagli sulla ‘pucciosità’ e l’innocenza della bambina, personaggi tutti buoni (tutti tutti, né i demoni né le arpie sono cattivi) che s’incantano alla vista della piccola, questo anime o lo si ama o lo si odia.
E la visione diventa estenuante, piena di zucchero, senza avvenimenti particolari, salvo la presa di consapevolezza che il golem ama la piccola a modo suo e che forse dovrebbe aggiustare il suo comportamento in modo migliore, visti i suoi sbagli pregressi. Tutti i personaggi secondari sono troppo buoni e si impicciano nella relazione padre-figlia con consigli del tipo “Sii un buon genitore”, “Non abbandonarla nonostante ti manchino trecento giorni di vita”, “Piange, consolala!”
Quando comincia la vicenda del deserto e la risoluzione utopistica della vicenda tra l’arpia e l’umano (“I sentimenti sono veri!”, dice Somali, ma chissà se capisce il valore della vita di un’orfana adottata dal cannibale di sua mamma, qualunque fosse il motivo per cui si è spinto a un pasto così orrido) si spera che la trama proceda, ma alla biblioteca delle streghe comincia a logorarsi la pazienza.
Se le streghe sono davvero custodi del sapere, è quello il modo di custodirlo? Perdere libri, essere incapaci di difenderli, far perdere informazioni e far correre rischi agli utenti. Chiudete bottega, befane, fate male il vostro mestiere! E quando il libro si dissolve nei contenuti, ecco che c’è una soluzione: chiedere all’ultima persona che l’ha letto, lì disponibile e avvolta nell’ombra.
A questo punto ho gridato: “Basta!”. L’impianto narrativo è stato fatto per mettere a dura prova i miei nervi. Sempre le solite dinamiche: Somali in pericolo, Somali protetta dal golem, informazioni che non ci sono e ‘pucciosità’ varia. E poi nuovi personaggi che appaiono e scompaiono dimenticati, inutili, buoni per uno sfondo etnico di colore. Più di otto episodi per non dire nulla, nulla di nulla.
Ho scorso l’ultimo episodio rapida rapida e sono contenta di non aver finito quest’anime: il finale melenso, ancora senza finale... con quattro episodi che mi sono rifiutata di vedere e so già noiosi e pesanti da digerire senza nulla da aggiungere.
Quest’anime ha una struttura pesante, pedante, monotona. Ha sì sfondi, colori, personaggi e una buona trama di base, ma la sua lentezza mostruosa, il suo nicchiare infinito, la continua esposizione di sentimenti buonisti sono esasperanti.
Ecco uno di quei lungometraggi che ti rimane nel cuore per via delle sue tematiche delicate, per la costruzione studiata, per le emozioni che comunica e soprattutto per il messaggio che riesce a veicolare, crescente e solido fino alla fine, non senza però qualche sbavatura.
“Voglio mangiare il tuo pancreas”, in effetti, sembra un titolo a metà fra un horror di serie B e una battutaccia fra compagni, ma è tutt’altro: è un qualcosa che deriva dalle antiche credenze popolari dove si pensava che, se si avesse avuto un problema più o meno grave a un dato organo, mangiare il corrispondente organo di un animale commestibile avrebbe potuto assimilare sostanze capaci di aiutarne la guarigione.
Impostato nei primi minuti come fosse il primo episodio di un anime (introduzione senza troppi dettagli, ma con una forte attrattiva, seguita da una vera e propria “opening”), ricorda un po’ l’inizio di “Your Name.”, ma questa pellicola sarà capace di dimostrarsi molto più sofferta del capolavoro di Shinkai, anche se con tematiche completamente differenti, mature e profonde.
È la storia di un ragazzo liceale silenzioso, banale e chiuso in sé stesso, che, un giorno, nella sala d’attesa dell’ospedale dove si era recato per delle semplici analisi, per caso trova a terra un quadernino che reca un titolo scritto a mano, “Vivere con la morte”. Curioso, lo sfoglia e scopre qualcosa di sconcertante: chi ha riempito quelle pagine ha realmente i giorni contati per via di un grave malfunzionamento del pancreas. Il nome di questa persona è Sakura Yamauchi, “Sakura” come i ciliegi in fiore tanto cari all’animazione nipponica, simbolo di rinascita, di felicità e fioritura dell’animo. Ed è proprio lei che coglie così in flagrante il giovane con quel quaderno fra le mani, il suo prezioso quaderno che pensava d’aver smarrito.
Nessuno dei due, in quel momento, può immaginare che questo incontro fortuito cambierà la loro vita per sempre.
Proposto tramite animazioni più che sufficienti ma non sbalorditive, il film punta più che altro sull’intensità del tema trattato, vivendo il dramma di Sakura passo per passo. È una sorta di flashback all’interno di un flashback, un racconto a più livelli che parte proprio col funerale di lei, immagine chiara e palese che la sua tragica scomparsa non è affatto un colpo di scena o una sorpresa, ma una sorta di dolorosissimo punto di partenza e d’arrivo per una vicenda che apre il sipario silenziosa, fra timidi sorrisi, situazioni grottesche, quasi comiche, capaci di donare un sapore agrodolce al tutto, e che stimolano lo spettatore in modo insospettato.
Ma l’avvicinarsi della fine è inesorabile, metafora che può calzare a chiunque di noi, perché la morte, proprio come dice Sakura a un certo punto, “è una cosa inevitabile che accadrà a tutti noi”.
La dolce e sfortunata ragazza di questa struggente vicenda ci ricorda quanto siano preziosi i giorni passati con le persone a cui vogliamo davvero bene, quanto vale una giornata di sole o quanto sia piacevole guardare dei fuochi d’artificio con la persona che ami, o ancora anche solo ammirare la pioggerellina estiva, o mangiare un bel gelato in compagnia.
Sono piccoli tesori, preziosi, unici, di un valore non quantificabile, sono le dolci memorie che ci porteremo fin quando la nostra vita non avrà fine, ma che spesso si considerano scontati, dando loro poca importanza.
Il personaggio di Sakura è il centro dell’universo della vicenda. Vivace nonostante tutto, espressiva, esplosiva, nel contempo fragile e sensibile, capace di piangere per una piccola gioia o uno spavento, capace di temere la Fine poiché imminente e a quanto pare inevitabile: non sapere la data della nostra morte la fa apparire lontana e quasi evanescente... ma, pensateci, se a questa dessimo una data, un numero, un momento preciso, allora eccome che tutto cambierebbe, avremmo davvero le ore contate, e convivere con questa verità sarebbe insopportabile.
Ma Sakura non si arrende, scrive una lista di tutte le cose che vorrebbe fare prima di morire, e nel suo viaggio finale coinvolge qualcuno completamente diverso da lei, proprio quel ragazzo che ha ritrovato il suo quaderno nella sala d’attesa dell’ospedale. Il suo nome? Quel ragazzo lo dirà subito, anzi non vorrà dirlo per un bel po', perché non si fida di nessuno, non ha nemici e non crede nell’amicizia né nella gente: troppo dolore, troppe delusioni. Eppure questo strano e male assortito binomio, seppur inizialmente poco complementare, pian piano comincia a funzionare. Gli ingranaggi dell’amicizia e dell’attrazione entrano in movimento senza che nessuno dei due se ne renda conto, e tale avvicinamento porterà i due ragazzi a vivere esperienze fondamentali, sofferte, profondissime e incredibilmente emozionanti, tessere insostituibili per la loro maturazione intellettuale e umana.
“Voglio mangiare il tuo pancreas” verte su complicate e silenziose sequenze di relazioni interpersonali, un autentico “Ying e Yang”, dove lei è il personaggio capace di empatizzare, sdrammatizzare, capace di far sentire normale il suo “partner” d’avventure, forse l’unica sulla faccia della Terra; e proprio questo amore verso la vita e verso tutto ciò che può regalare un sorriso farà breccia nell’anima scura e rattrappita del giovane, cambiandolo piano piano, in modo inesorabilmente favoloso.
Ma anche Sakura soffre. E, nella sofferenza, lui sarà l’unico capace di farla sentire “normale”, tanto che lei terrà nascosto a tutti questo male inarrestabile: alla sua famiglia, alle sue amiche del cuore, ai suoi professori... tranne che a lui.
Si parla di emozioni complicatissime, difficili da esplicare con semplici parole, esperienze che non si augurano a nessuno, panni scomodi e, diciamolo, spaventosi.
Il film ne parla in modo sapiente e delicato, con la giusta misura per arrivare al cuore dello spettatore, anche se talvolta i metodi e le sequenze che utilizza potrebbero apparire un po' forzate, come un “deus ex machina” che potremmo chiamare destino fin troppo “preciso”.
La potenza emotiva della seconda parte è devastante. Il finale è senza mezzi termini: tremendamente straziante, un crescendo di dolore, e, anche se credi di arrivarci preparato, il pugno allo stomaco lo senti, lo senti fino in fondo, ed è giusto che sia così, perché ci sono i momenti in cui la vita ti fa sorridere e i momenti in cui ti fa piangere per il dolore dell’anima.
Sia il misterioso nome di lui, che si scoprirà infine legato a quello di lei, sia l’intreccio delle relazioni umane fra i personaggi principali, sia il messaggio estremamente positivo che fiorisce da questa insopportabile tragedia verranno fuori proprio nei minuti finali; e allora c’è vera poesia, dolce e palpitante, ove l’importanza del concetto di relazionarsi agli altri per “essere in quanto vivere” viene elevato alla massima potenza.
Nonostante tutto, la dipartita della ragazza nasconde un colpo di scena inatteso, che personalmente non ho capito appieno, chiedendomi se fosse davvero necessario, visto che il messaggio che il regista voleva dare arriva forte e chiaro da ogni direzione.
Ed è proprio questo messaggio a rimanerci negli occhi durante i titoli di coda e oltre, indimenticabile e bellissimo, nonostante la tragedia consumata: amore incondizionato per chi si ha accanto, fin quando potrai, fin quando vivrai, perché arriverà il giorno in cui lascerai ogni cosa terrena, e allora sarà troppo tardi per fare o dire qualsiasi cosa.
Anche un solo abbraccio conta più di tutto l’oro del mondo.
“Quando arriverà il momento della tua morte, fai in modo che sul tuo volto vi sia un sorriso, e su quello di chi ti circonda una lacrima”, scrisse Paulo Coelho.
Niente di più vero.
“Voglio mangiare il tuo pancreas”, in effetti, sembra un titolo a metà fra un horror di serie B e una battutaccia fra compagni, ma è tutt’altro: è un qualcosa che deriva dalle antiche credenze popolari dove si pensava che, se si avesse avuto un problema più o meno grave a un dato organo, mangiare il corrispondente organo di un animale commestibile avrebbe potuto assimilare sostanze capaci di aiutarne la guarigione.
Impostato nei primi minuti come fosse il primo episodio di un anime (introduzione senza troppi dettagli, ma con una forte attrattiva, seguita da una vera e propria “opening”), ricorda un po’ l’inizio di “Your Name.”, ma questa pellicola sarà capace di dimostrarsi molto più sofferta del capolavoro di Shinkai, anche se con tematiche completamente differenti, mature e profonde.
È la storia di un ragazzo liceale silenzioso, banale e chiuso in sé stesso, che, un giorno, nella sala d’attesa dell’ospedale dove si era recato per delle semplici analisi, per caso trova a terra un quadernino che reca un titolo scritto a mano, “Vivere con la morte”. Curioso, lo sfoglia e scopre qualcosa di sconcertante: chi ha riempito quelle pagine ha realmente i giorni contati per via di un grave malfunzionamento del pancreas. Il nome di questa persona è Sakura Yamauchi, “Sakura” come i ciliegi in fiore tanto cari all’animazione nipponica, simbolo di rinascita, di felicità e fioritura dell’animo. Ed è proprio lei che coglie così in flagrante il giovane con quel quaderno fra le mani, il suo prezioso quaderno che pensava d’aver smarrito.
Nessuno dei due, in quel momento, può immaginare che questo incontro fortuito cambierà la loro vita per sempre.
Proposto tramite animazioni più che sufficienti ma non sbalorditive, il film punta più che altro sull’intensità del tema trattato, vivendo il dramma di Sakura passo per passo. È una sorta di flashback all’interno di un flashback, un racconto a più livelli che parte proprio col funerale di lei, immagine chiara e palese che la sua tragica scomparsa non è affatto un colpo di scena o una sorpresa, ma una sorta di dolorosissimo punto di partenza e d’arrivo per una vicenda che apre il sipario silenziosa, fra timidi sorrisi, situazioni grottesche, quasi comiche, capaci di donare un sapore agrodolce al tutto, e che stimolano lo spettatore in modo insospettato.
Ma l’avvicinarsi della fine è inesorabile, metafora che può calzare a chiunque di noi, perché la morte, proprio come dice Sakura a un certo punto, “è una cosa inevitabile che accadrà a tutti noi”.
La dolce e sfortunata ragazza di questa struggente vicenda ci ricorda quanto siano preziosi i giorni passati con le persone a cui vogliamo davvero bene, quanto vale una giornata di sole o quanto sia piacevole guardare dei fuochi d’artificio con la persona che ami, o ancora anche solo ammirare la pioggerellina estiva, o mangiare un bel gelato in compagnia.
Sono piccoli tesori, preziosi, unici, di un valore non quantificabile, sono le dolci memorie che ci porteremo fin quando la nostra vita non avrà fine, ma che spesso si considerano scontati, dando loro poca importanza.
Il personaggio di Sakura è il centro dell’universo della vicenda. Vivace nonostante tutto, espressiva, esplosiva, nel contempo fragile e sensibile, capace di piangere per una piccola gioia o uno spavento, capace di temere la Fine poiché imminente e a quanto pare inevitabile: non sapere la data della nostra morte la fa apparire lontana e quasi evanescente... ma, pensateci, se a questa dessimo una data, un numero, un momento preciso, allora eccome che tutto cambierebbe, avremmo davvero le ore contate, e convivere con questa verità sarebbe insopportabile.
Ma Sakura non si arrende, scrive una lista di tutte le cose che vorrebbe fare prima di morire, e nel suo viaggio finale coinvolge qualcuno completamente diverso da lei, proprio quel ragazzo che ha ritrovato il suo quaderno nella sala d’attesa dell’ospedale. Il suo nome? Quel ragazzo lo dirà subito, anzi non vorrà dirlo per un bel po', perché non si fida di nessuno, non ha nemici e non crede nell’amicizia né nella gente: troppo dolore, troppe delusioni. Eppure questo strano e male assortito binomio, seppur inizialmente poco complementare, pian piano comincia a funzionare. Gli ingranaggi dell’amicizia e dell’attrazione entrano in movimento senza che nessuno dei due se ne renda conto, e tale avvicinamento porterà i due ragazzi a vivere esperienze fondamentali, sofferte, profondissime e incredibilmente emozionanti, tessere insostituibili per la loro maturazione intellettuale e umana.
“Voglio mangiare il tuo pancreas” verte su complicate e silenziose sequenze di relazioni interpersonali, un autentico “Ying e Yang”, dove lei è il personaggio capace di empatizzare, sdrammatizzare, capace di far sentire normale il suo “partner” d’avventure, forse l’unica sulla faccia della Terra; e proprio questo amore verso la vita e verso tutto ciò che può regalare un sorriso farà breccia nell’anima scura e rattrappita del giovane, cambiandolo piano piano, in modo inesorabilmente favoloso.
Ma anche Sakura soffre. E, nella sofferenza, lui sarà l’unico capace di farla sentire “normale”, tanto che lei terrà nascosto a tutti questo male inarrestabile: alla sua famiglia, alle sue amiche del cuore, ai suoi professori... tranne che a lui.
Si parla di emozioni complicatissime, difficili da esplicare con semplici parole, esperienze che non si augurano a nessuno, panni scomodi e, diciamolo, spaventosi.
Il film ne parla in modo sapiente e delicato, con la giusta misura per arrivare al cuore dello spettatore, anche se talvolta i metodi e le sequenze che utilizza potrebbero apparire un po' forzate, come un “deus ex machina” che potremmo chiamare destino fin troppo “preciso”.
La potenza emotiva della seconda parte è devastante. Il finale è senza mezzi termini: tremendamente straziante, un crescendo di dolore, e, anche se credi di arrivarci preparato, il pugno allo stomaco lo senti, lo senti fino in fondo, ed è giusto che sia così, perché ci sono i momenti in cui la vita ti fa sorridere e i momenti in cui ti fa piangere per il dolore dell’anima.
Sia il misterioso nome di lui, che si scoprirà infine legato a quello di lei, sia l’intreccio delle relazioni umane fra i personaggi principali, sia il messaggio estremamente positivo che fiorisce da questa insopportabile tragedia verranno fuori proprio nei minuti finali; e allora c’è vera poesia, dolce e palpitante, ove l’importanza del concetto di relazionarsi agli altri per “essere in quanto vivere” viene elevato alla massima potenza.
Nonostante tutto, la dipartita della ragazza nasconde un colpo di scena inatteso, che personalmente non ho capito appieno, chiedendomi se fosse davvero necessario, visto che il messaggio che il regista voleva dare arriva forte e chiaro da ogni direzione.
Ed è proprio questo messaggio a rimanerci negli occhi durante i titoli di coda e oltre, indimenticabile e bellissimo, nonostante la tragedia consumata: amore incondizionato per chi si ha accanto, fin quando potrai, fin quando vivrai, perché arriverà il giorno in cui lascerai ogni cosa terrena, e allora sarà troppo tardi per fare o dire qualsiasi cosa.
Anche un solo abbraccio conta più di tutto l’oro del mondo.
“Quando arriverà il momento della tua morte, fai in modo che sul tuo volto vi sia un sorriso, e su quello di chi ti circonda una lacrima”, scrisse Paulo Coelho.
Niente di più vero.
Voglio mangiare il tuo pancreas è un bellissimo e toccante film, consigliatissimo.
Anche In questo angolo di mondo mi è piaciuto non poco, ma questo me lo aspettavo.
no comment!
Di In questo angolo di mondo ho letto ed apprezzato romanzo e manga, non ne ho ancora visto il film (spero ancora che arrivi da noi la versione con i 30 minuti in più), ma credo che la recensione evidenzi una visione molto superficiale dell'opera. Innanzitutto ci sono animazioni e stili di disegno che mostrano personaggi molto meno espressivi di questi; e poi la sensibilità di Suzu, il suo atteggiamento e l'esternazione dei suoi sentimenti vanno contestualizzati nel luogo e del periodo in cui si svolge la vicenda: come avrebbe dovuto altrimenti comportarsi una ragazza giapponese come lei in quel periodo? Io sono ansiosa di leggere la buona notizia dell'uscita dell'extended edition per poter finalmente vedere la versione animata di questa bellissima storia!
Mai sentito parlare di Slice of life in vita tua?
Sulle altre due recensioni lungi da me giudicare le esperienze personali vissute, se non è piaciuto il comparto grafico di In questo angolo di mondo ad esempio (che io ho adorato) o il ritmo e i contenuti melensi di Somali (che pure ho adorato) non possiamo farci niente ed è giusto che possa capitare, l'unica cosa che posso dire a chi magari non ha visto quel film o quella serie ed è rimasto 'scoraggiato' da queste recensioni è di provare a vederli lo stesso o, in alternativa, di leggere le tante recensioni che ne parlano bene laddove queste sono due, rispettabilissime per carità, voci fuori dal coro.
Mi spiace dirti che non amo particolarmente tutti e due i generi da te detti. I gusti sono gusti, lo riconosco, ma confermo la pessima impressione che mi ha dato quest'anime. Poi siete tutti liberi di giudicare. Se vi piace, buon per voi. A me ha solo dato sui nervi: tante buone idee e spunti interessanti persi in amenità banali e zuccherose.
Somali mi manca, ma ce l'ho già presente in lista da un po'.
8 su 12 mi sembra un buonissimo quantitativo per recensire qualcosa che si è tollerato poco. Bella pazienza!
Non tutti gli SoL sono pallosi però...
No, è stato dato 4 perché l'opera è fatta male, con una narrazione piatta, dove manca colore alla trama: sia le scene tragiche che di azione, che l'avventura in se, vengono descritte in maniera scialba, senza mordente.
ma certo il messaggio seppur difficile e amaro è sicuramente positivo. interpretazione semplice ma non cosi scontata.
Insomma, ok che ti pare costruito apposta per piacere, ma da li al 4 ce ne passa.
Storia e disegni bellissimi.
4 alla recensione, ma per l'impegno.
"Non è la destinazione, ma il viaggio che conta".
Ok, è un aforismo un pò del cavolo perché il finale conta eccome (senza stare a citare serie ottime con finali orribili), ma secondo me anche guardare una serie che ci è piaciuta ma che ha un finale aperto vale assolutamente la pena.
E mi scende una lacrimuccia se penso a Berserk.
Non posso dire che mi fosse dispiaciuto "Voglio mangiare il tuo pancreas", tuttavia mi sembrava una "variante" di "Bugie d'Aprile". Devo però riconoscere che la tua osservazione sul finale, è illuminante e a questo punto me lo fa rivalutare ampiamente
Non condivido pienamente nemmeno il voto di Voglio mangiare il tuo pancreas, non ho letto la recensione (scusa @alucard80 ) però secondo me ci stava almeno un voto in meno. Però vabbè, tutto sommato è un buonissimo film.
allora prima leggitela e poi dimmi se sei d'accordo sul perchè ho dato quel voto heheheheheh 😏🤣 anche se immagino non cambierai idea, ma almeno l'idea di cosa penso io, te la farai sicuro!
La parte della bomba atomica è invece una paraculata che nulla c'entra con la storia della ragazza, quando il Giappone parla di 2a guerra mondiale si vede sempre e solo quell'angolo di mondo: donne e bambini piu o meno inconsapevoli, spesso vicini a Hiroshima.
Mi piacerebbe che mostrassero ognitanto anche un altro angolo di mondo: Per esempio cosa stavano facendo dall'altra parte del mare i loro uomini a Nanchino
"In questo angolo di mondo" racconta una storia, non la storia...
... come dire che tutti i film che fanno vedere come ha vissuto la guerra il popolo italiano non valgono perché chissà cosa stavano facendo "dall'altra parte" (lo sappiamo tutti cosa stavano facendo tra il '39 e il '45, la guerra non la fa il popolo casomai è a discapito del popolo, uno dei tanti temi che il film affronta), questo non toglie che ci siano molte testimonianze valide e soprattutto vere che riescono a raccontare non solo, il conflitto.
Oltretutto i film-anime storici che trattano il conflitto, raccontano sempre delle storie nella storia, non la storia, quindi stesso discorso, non credo facciano propaganda (ma poi di cosa?!) su un film.
"In questo angolo di mondo" racconta una storia, dentro un pezzo di storia, il termine "paraculata" poco si addice all'argomento che tratta, evidentemente non hai afferrato il concetto e quello che voleva raccontare il film attraverso quell'avvenimento.
ps: Posso dire che la faccina sorridente a fine commento l'ho trovata un po' fuori luogo.
Ok, qual è il concetto dietro al mostrare Hiroshima, quando per tutto il film si è seguito solamente e strettamente il punto di vista di Sozu a casa sua?
ricordo che nessun comprimario o parente è stato mai seguito dalla camera del film, e poi arriva l'orfanello. Sozu non era a Nanchino e non ne sapeva nulla, ma non era nemmeno di Hiroshima.
complessivamente il film mi piace, ma gli ultimi 15 minuti sono fanservice nazionalista, di gente che descrive i propri nonni carnefici, come delle vittime.
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