Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Gli uomini dimostrano le cose attraverso le azioni, non attraverso le parole" – Maes Huges

Partiamo da un fatto alquanto personale, io adoro le citazioni. Leggere o vedere un’opera e restare magnificamente colpito da una singola frase, tra le tante che vengono proposte al fruitore, è una forma di amore a prima vista. Non è un caso che, soprattutto nell’ultimo periodo, quando leggo un libro o vedo un anime, mi segno sul cellulare tutti gli spunti di riflessione e citazioni che l’opera in questione ha da offrirmi. Inoltre, e non potrebbe essere altrimenti considerati gli studi che faccio, mi piace creare collegamenti tra opere di vario genere, come se fossi un ragno intento a tessere la propria tela. Per questi due (semplici) motivi, le mie riflessioni su "Fullmetal Alchemist: Brotherood", non solo assumono come punto di partenza la citazione tratta dalla serie che l’aveva preceduta, ovvero "Fullmetal Alchemist", ma addirittura riprendono perfettamente il finale della recensione che le dedicai.

Prendendo in esame la voce del vocabolario Treccani, “agire” ha il significato generico di fare, operare, in poche parole compiere un’azione. Ora, come ci insegnano a scuola, per il terzo principio della dinamica, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Per ridurla in termini alchemici, per ottenere qualcosa, è necessario dare in cambio qualcos’altro che abbia il medesimo valore. E nessuno può comprendere l’importanza di queste parole meglio dei fratelli Elric, Edward e Alphonse, due bambini di undici e dieci anni, con una spiccata propensione per l’alchimia. I due, dopo essere stati abbandonati dal padre per ragioni a loro sconosciute, restano orfani della madre, motivo per il quale, disperati, ma allo stesso tempo speranzosi, provano il tutto per tutto pur di riaverla al proprio fianco, il tabù di ogni alchimista, la resurrezione. Consci del pericolo che stanno correndo, vanno incontro al loro destino con coraggio e incoscienza e, dopo essersi procurati il necessario, tentano la trasmutazione umana, durante la quale Edward perde un braccio ed una gamba, mentre Alphonse tutto il corpo, rimanendo in vita solamente grazie al fratello che, in un momento di lucidità, riesce a legare la sua anima a un’armatura. Da questi assunti di partenza, inizia la storia dei due protagonisti; un ragazzo di bassa statura, dai capelli biondi e con due “auto-mail” che sostituiscono gli arti mancanti del corpo e un’armatura grossa e robusta, perfetto travestimento carnevalesco dal gusto retrò, ma che al suo interno cela il vuoto. Alla ricerca della famosa pietra filosofale, di cui si sa poco o nulla, i due fratelli faranno di tutto pur di riottenere i propri corpi e state certi che non si arrenderanno facilmente.

Quello intrapreso dai fratelli Elric incarna perfettamente “Il viaggio dell’eroe”, così come lo definisce Christopher Vogler nell’omonimo saggio, ormai diventato cult book. Un viaggio pieno di insidie, di villain che sbucano da dietro l’angolo per mettere i bastoni tra le ruote ai due protagonisti a cui, però, non mancherà mai il sostegno degli amici. E, tra i tanti punti forti del capolavoro della Arakawa, a cui l’anime si rifà pedissequamente, c’è proprio il cast di personaggi eccezionali, perfettamente delineati in ogni minimo dettaglio, in grado di conquistare un posto speciale nel cuore dello spettatore, che difficilmente li dimenticherà.

Winry Rockbell, amica intima di Edward e Alphonse, con cui condivide l’infanzia passata insieme nella piccola cittadina di Resembool. Ragazza dal passato complicato, segnato dalla perdita dei genitori di cui è rimasta orfana in tenera età e che adesso vive con la nonna, conosciuta ai più come, Zia Pinako. Abilissima, nonostante la giovane età, nella costruzione di auto-mail e, per questo motivo, meccanica personale di Edward. Personaggio dalla grande personalità; seriamente preoccupata per i guai in cui, ogni volta, si invischiano i due fratelli che, puntualmente, vengono rimproverati dalla ragazza. Dietro questo carattere forte, si nascondono però ombre e preoccupazioni, legate tanto alla morte dei genitori, di cui si verrà a sapere nel corso della storia, tanto alla paura che i due fratelli, a cui è molto legata, possano, un giorno o l’altro, non fare ritorno a casa. Indubbiamente uno dei personaggi meglio riusciti dell’anime, nonché waifu indiscussa.

Roy Mustang, l’alchimista di fuoco. Colonello dell’esercito per cui lavora lo stesso Edward e uomo ambizioso che spera un giorno di poter diventare Comandante supremo della nazione di Amestris. Figura indispensabile per la crescita dei fratelli Elric, a cui assisterà e parteciperà attivamente. Persona taciturna e con un certo debole per le donne. Sono poche le persone di cui si fida, ma a loro affiderebbe la sua stessa vita. Abile nel combattimento e, allo stesso tempo, grande stratega; si ritroverà continuamente coinvolto in situazioni spinose, da cui ne uscirà sempre con grande efficacia.

Maes Huges, Tenente Colonello e Generale di Brigata dell’esercito. A tutti gli effetti personaggio “secondario” della storia, in cui lascia, a mio avviso, un segno indelebile. A guardarlo da fuori sembrerebbe un burlone, uno sempre con la testa tra le nuvole e a cui interessa solamente spettegolare con i colleghi, in particolar modo con il Colonello Mustang, di cui è amico intimo. Eppure, sarà proprio nei momenti complicati che dimostrerà tutta la sua perspicacia ed intelligenza, tanto da arrivare a scoprire i segreti del paese per cui lavora. Nonostante le sue “brevi comparse”, e questo è il grande merito della Arakawa, anche un personaggio “secondario” come lui riuscirà ad ispirarvi una sincera simpatia ed a entrarvi nel cuore.

Scar, gli homunculus e il Padre. Una sequela di villain che, chi per un motivo e chi per un altro, sarà continuamente in combutta con la legge, con cui si ritroverà, spesso e volentieri, a fare i conti. Dall’Ishbaliano che ha visto morire la propria gente davanti ai suoi occhi e che cerca vendetta contro l’esercito, fino al Padre, figura misteriosa, dal passato oscuro e con palesi manie di protagonismo, che sembra voler governare il mondo intero. La Arakawa riesce nel difficile intento di creare villain originali, che non svolgono il ruolo di semplici comparse e nei cui confronti, sarà impossibile provare odio. Infatti, anche loro, presto o tardi, mostreranno il loro vero volto e i sentimenti da cui sono mossi, e sarà proprio in questi momenti, che si capirà la grandezza di un’opera come "Fullmetal Alchemist: Brotherood".

Infine, impossibile non nominarli, i fratelli Elric. Alphonse, la grande armatura; un ragazzo dall’animo puro e sensibile, in grado di “esibire” la propria gentilezza anche nei confronti del più reietto degli esseri umani e Edward, l’alchimista d’acciaio; un tipo scontroso, amato da pochi, ma che darebbe la vita pur di salvare un’amica o un familiare. Insieme, i due fratelli, capiranno quanto la vita, a volte, possa essere bastarda. Saranno messi continuamente dinanzi a situazioni complicate e uscirne non sarà una passeggiata. Vedranno morire persone e amici davanti ai propri occhi; e sarà proprio da questi momenti che, i due fratelli, trarranno la forza per andare avanti e cambiare radicalmente il proprio modo di agire e di pensare, nell’intento si salvare e preservare le persone a loro care. Tante le lezioni che la vita impartirà loro e per questo, protagonisti di un vero e proprio viaggio di formazione.

Di personaggi da nominare ce ne sarebbero ancora tanti; penso al tenente Hawkeye e a Van Hohenehim, ma rischierei di rendere la recensione lunga e tediosa, più di quanto, probabilmente, non abbia già fatto. Sulla storia preferisco non dilungarmi, anche perché se volete sapere, vi conviene guardare. Allora un ultimo appunto, più che al comparto grafico, voglio dedicarlo a quello sonoro. Quest’ultimo ci regala delle musiche indimenticabili, che diventano un tutt’uno con le scene proposte, con cui si fondono e amalgamano alla grande, creando un connubio perfetto; per non parlare, infine, delle opening meravigliose, capaci di catapultarti nell’episodio prima ancora che questo inizi e preparando il tuo animo a venti minuti di pura bellezza.
Cento spanne sopra la serie che l’aveva preceduta, ovvero "Fullmetal Alchemist".

Insomma, se avete letto fino alla fine questa recensione e non avete ancora mai visto "Fullmetal Alchemist: Brotherood", vi chiedo: “Cosa aspettate a farlo?”.

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Avendo di fronte quest’opera i detti e le frasi di circostanza sui desideri più improbabili, ma che alla fine si avverano, si sprecherebbero senza dubbio. Fatto sta che, poco più di 30 anni dopo l’inizio della serie manga originale, "Dragon Quest – Dai no Daibouken" ha avuto la sua trasposizione animata completa.
Viene dunque superata e consegnata alle cronache la oramai vecchia serie anime partita non molto più tardi del manga stesso e che alla fine adattava solamente una parte, quella iniziale, più o meno un quarto di tutta la storia.
Spazio quindi a "Dragon Quest – L’avventura di Dai" come definitiva trasposizione dello shounen manga realizzato da Riku Sanjou, Yuji Horii con anche la collaborazione del maestro Toriyama e di tutto il team da sempre all’opera sul brand di Dragon Quest.

“Avventura” è proprio la parola emblematica che caratterizza tutta l’opera. Perfettamente calzante a quelli che sono i canoni e gli stilemi del più classico degli JRPG (giochi di ruolo alla giapponese, diciamo), vediamo il giovane Dai che da allegro bambino naufragato su un’isola popolata da pacifici mostri e da loro adottato, intraprenderà un viaggio insieme a coraggiosi e fidati compagni che lo porterà fino a sfidare il sovrano delle tenebre in una battaglia per il destino del mondo.

L’ “avventura” è bella, epica e anche affascinante, ma tale è proprio perché ci sono gli avventurieri che vi si lanciano. Al di là di battaglie, eventi e climax vari è con tutta evidenza la componente dei personaggi che dà la forza all’opera e la fa volare alto. Ma ciò avviene perché l’avventura è di Dai nel nome, ma in realtà si compone di un intreccio di tutta una serie di avventure personali che insieme vanno avanti, si incontrano, si scontrano, crescono, eccome se crescono, e poi trovano il loro epilogo.
C’è il buon Dai, eroe positivo e protagonista designato, che da impacciato moccioso diventa il temerario trascinatore che “dovrà sfidare un grande impero” (se ricordiamo la sigla italiana della vecchia serie), che al tempo stesso è frontman e figura un po’ sfumata come quando al momento di evocare le “cinque luci” la sua rimane la più misteriosa e identificata con una generica “purezza”. C’è soprattutto il grande Popp, a detta di molti il vero eroe della serie, forse perché nel gruppo dei talentuosi è quello dalle reazioni e dalle fragilità più tipiche dell’essere umano (potente questo elemento durante la battaglia finale) ma anche perché è lui a raccogliere in definitiva il ruolo dell’eroe dello shounen che partendo dal livello base arriva al top dopo una lunga crescita, tra cadute, allenamenti, sconfitte, miracolosi recuperi e potenziamenti. Abbiamo anche Hyunckel, che ha ruolo di quello che è passato al lato oscuro ma che poi ritorna il quello luminoso per riscattare il suo passato. La lista, insomma, si farebbe lunga assai e quasi sembrerebbe un torto glissare rapidamente sui vari Maam, Avan, Leona, Crocodyne, Lon Berk (ebbene vedremo anche lui), Matoriv, Chu, Gome-chan… insomma, ci siamo capiti.

Ciò che era molto positivo nel manga, e che è stato pedissequamente riportato anche in questa versione animata, è che la storia non lascia nessuno per strada, come invece è brutto vizio per tante storie, anche famosissime, dei tempi di oggi che pure all’Avventura di Dai devono molto. Starà quindi allo spettatore tenere sempre d’occhio chiunque entri in scena e interagisca con il gruppo dei protagonisti, perché pur se non lo si vede più da molto tempo al momento più importante potrebbe tornare in scena e risultare, a suo modo, decisivo.
Riagganciandoci però al discorso sui protagonisti dobbiamo almeno spendere qualche rigo anche sul gruppo degli antagonisti che, come il famoso yin-yang, completa l’armonia d’insieme di tutto il cast, del resto se c’è luce deve esserci anche la tenebra o il mondo non si completerebbe.
Alla luce dei fatti quindi, la scuderia dei malvagi non è certo inferiore o meno privo di dignità rispetto a quello degli eroi. Emblema di questo aspetto è la figura di Hadler, il comandante sul campo dell’esercito demoniaco, che da principale arcigna nemesi di Avan prima, e di Dai poi, attraversa anch’egli una strada di caduta e risalita che lo porta a diventare un rivale (quasi sportivo) munito di un suo orgoglio di combattente. Non di meno vanno citati, vere e proprie new entry, anche la pattuglia dei guerrieri di Oliargon comandata dallo stesso Hadler e soprattutto il vero re delle Tenebre Vearn, cattivone assai malvagio quanto carismatico e affascinante che ora apparirà in tutta la sua presenza e potenza. Davvero non si comprende come non sia stato rievocato e richiamato in qualche occasione tra le migliori nemesi delle opere di Shueisha.

Aggiornato ai tempi attuali il comparto tecnico, si nota quasi da subito, e ancora di più con l’andare degli episodi quando la situazione lo richiede, come lo staff della Toei abbia profuso un grande impegno nella produzione. Difficile infatti trovare disegni brutti o approssimativi. I colori sono in generale sempre ben vividi e molto accesi ma anche adeguatamente cupi e scuri, e per certi versi solenni, quando la situazione lo richiede.
Sul lato delle animazioni, ogni sequenza è realizzata in modo curato e apprezzabile specialmente per quanto riguarda le fasi di combattimento come è lecito aspettarsi da questo tipo di opere. In generale però a emergere è la cura complessiva con cui si vede che l’anime è stato realizzato, dai disegni alla regia che, con il supporto di una colonna sonora a tratti sontuosa, ci regala in varie occasioni delle sequenze di grande effetto.
“Fedeltà” è invece la parola che viene spontanea nel descrivere la serie nell’ottica della trasposizione dal manga originale. Fatta salva una certa e decisa opera di sintesi e snellimento rispetto alla vecchia serie (46 episodi avevano adattato circa un terzo della storia mentre qui siamo arrivati alla soglia dei cento) con la rivisitazione di alcune parti molto secondarie, si può dire che tutte le pagine del manga sono state animate in modo pedissequo. Tutto ciò è ovviamente molto apprezzabile. Peccato solo che, per via della recente ondata neobigottista e egualitaria nei generi, molte delle sequenze ecchi (da Eremita della Tartaruga diciamo…) che davano pepe e andavano assai in voga ai tempi della pubblicazione del manga sono state sacrificate sull’altare del grande pubblico e del perbenismo.
Nota di merito finale per il cast di doppiaggio che offre un vivace e affiatato mix tra nomi di punta dello scenario attuale come la Saori Hayami (Leona), Yuuki Kaji (Hyunkel), Mikako Komatsu (Maam), ovviamente rimarcando una superba prestazione di Toshiyuki Toyonaga che dà lustro ulteriore al ruolo di Popp, oltre poi a nomi oramai affermati da più tempo come Tomokazu Seki per Hadler, Takahiro Sakurai per Avan, Akira Ishida per il cavaliere Larhalt o anche Yukari Tamura (Albinass), fino a giungere a super veterani come Tesshou Genda o anche di Ryuusei Nakano che con questo ampio roster di personaggi ottengono dei ruoli e neanche tanto secondari.
Una pecca, se così possiamo dirla, risiede nella scelta di adattamento dei sottotitoli ufficiali dove per le formule è stato scelto l’adattamento occidentale delle formule magiche. A parte il fatto che, tanto per fare un esempio fra molti, sentir urlare per lanciare un “Vegiragon!” e leggere più sotto “Baboom!” fa strano assai, così pronunciato il nome di uno degli incantesimi più devastanti su piazza tanto temibile non è.

L’avventura di Dai è un’opera importante sotto più di un aspetto. Da un lato per la mole della stessa con cento episodi di durata che non si vedono di frequente al giorno d’oggi, dall’altro perché rende giustizia a un grande classico del manga per ragazzi che in patria ha lasciato il segno (meno ahinoi in occidente) e da un altro ancora perché è uno sforzo produttivo non indifferente.
Il suo grande e miglior pregio, ovvero quello di andare in un costante crescendo alla distanza, se vogliamo è anche il suo principale limite perché occorrerà tempo affinché la storia entri nella sua parte viva e fino a lì c’è il rischio che lo spettatore più frettoloso si possa spazientire.
Vederlo (ad anni di distanza dall’ultima lettura del manga) è stato come rifare un viaggio, non catartico come può essere stato Naruto, a tratti anche faticoso, ma alla fine sicuramente appagante. Una grande avventura, insomma.

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Sono passati tanti anni, ma l’impressione è rimasta immutata: il primissimo film dello Studio Ghibli corrisponde a uno dei suoi migliori lavori in assoluto, un classico senza tempo, meraviglioso quarant’anni fa, come oggi.

Miyazaki sensei - grazie alla sofisticata e originale fantasia che da sempre lo contraddistingue - ci prende delicatamente per mano, portandoci ad ammirare paesaggi suggestivi dotati d’un tocco prettamente steampunk filtrato all’iconico setaccio degli anni ’80: le animazioni, fluide e piacevoli, strizzano l’occhio all’animalesco, avventuroso “Il fiuto di Sherlock Holmes”, anch’esso di matrice miyazakiana, ricche di rimandi al suo talento e al suo stile. Mezzi di locomozione meccanici e cigolanti, rotaie sospese, immense aeronavi a dominare i cieli, un avveniristico retrò dove tardo Ottocento e uno steam-style sofisticato degno del miglior Akira Toriyama (e dei suoi studi cartoon-meccanico-ingegneristici) riescono a dar vita a una fiaba a cavallo fra antichi misteri e qualcosa di simile a un precursore dei JRPG a cui si rifaranno, volendo, grandi capolavori videoludici come “Grandia”, i primi “Final Fantasy” e “Legend of Dragoon”.
In questo mondo ipoteticamente post-apocalittico, arcano, mesmerizzante e semi-desertico, troviamo i più classici dei protagonisti, una coppia di adolescenti pieni di coraggio pronti a sfidare sia il mondo intero sia le oscure avversità che continuano a braccarli, avvolti da un segreto celato in un’antica pietra azzurra (...) e in cerca di un ancestrale impero perso nelle nebbie dei tempi: un plot talmente eccitante e magico che la giovane e talentuosissima Gainax - al seguito di un gagliardo Hideaki Anno - sfrutterà rivisitandolo ampiamente e vestendolo d’una virtuosa uniforme jules-verniana, dando alla luce, circa cinque anni più avanti, il celebre e ancor più iconico “Nadia of Blue Seas”, conosciuto in terra nostra col titolo de “Il mistero della pietra azzurra”.
Venti mila leghe sopra i cieli, quindi.

Circondati da treni a vapore, oscure caverne, spaccati urbani a strapiombo nel vuoto e marchingegni volanti rappresentati con estrema perizia, troviamo Pazu, giovanissimo aiutante in una miniera di carbone e stagno, che una sera vede letteralmente piovere dal cielo una ragazza (probabilmente) coetanea, priva di sensi, capace di cadere lentamente come se stesse planando, ignorando la forza di gravità!
Il suo nome è Sheeta, graziosa fanciulla dalle lunghe trecce castane in fuga sia dall’esercito che da una banda di pirati tanto squinternata da ricordare il mitologico trio Drombo (e che ispirerà Grandis & compagnia in “Nadia of Blue Seas”); le forze in gioco, quindi, si ritrovano a caccia della ragazzina che al collo porta un antico e portentoso oggetto chiamato “aeropietra”, capace di far levitare nei cieli chi la indossi, contro le leggi della fisica.
La giovane, in compagnia del suo nuovo amichetto, come nelle più classiche epopee fantastiche intraprenderà così più una fuga che un vero e proprio viaggio, attraversando miniere arcaiche scavate in luoghi tanto antichi quanto consapevoli, lungo pendii scoscesi, fra nuvole di tempesta, fino a raggiungere luoghi leggendari che si pensavano perduti.

È un racconto di vuoti sterminati e cieli immensi, confusi in sfumature di azzurri audaci e indaco, riempiti da vapore, leggende terribili e lontane, nuvole infinite e strizzatine d’occhio alle mirabolanti invenzioni di Leonardo Da Vinci (l’ornitottero, l’uomo volante!), macchinari ad elica e similari. Si accenna addirittura ai viaggi di Gulliver e a un ipotetico mondo andato (poiché Laputa viene davvero citata nei celebri racconti di Jonathan Swift), ma le reali cause del declino delle civiltà precedenti sono invero ignote, mai narrate chiaramente, e il viaggio dei due giovanissimi avventurieri necessita di altre risposte.
Laputa è quindi il prototipo animato dell’agognata chimera atlantidea, la famosa, misteriosa città da qualche parte lassù nei cieli al di sopra di una terra desertica, devastata, che Pazu, figlio di un aviatore deceduto, cerca con tutte le sue forze per realizzare il sogno perduto del padre esploratore: un’eredità inevitabile e quasi spilberghiana che si rifà ai più canonici “Indiana Jones” o alle adolescenziali avventure in perfetto stile anni ’80 che hanno colorato l’infanzia di molti di noi. In questo scenario a metà fra concreto e astratto, oltre ai protagonisti al centro dell’azione e dell’evolversi della trama, menzioni particolari vanno senza dubbio a taluni personaggi secondari di un certo spessore come nonno Pom, decano minatore, colui che comprende più di ogni altro la pietra in quanto tale e i suoi poteri quasi sovrannaturali, esploratore e portatore d’antichi segreti che aiuterà i due ragazzi all’inizio dell’ardua epopea; ma, più di altri, saranno Dola e la sua cricca di aeropirati a tingere vividamente la tela di “Laputa”, character formidabili che rimarranno nel cuore degli spettatori per sempre.

Dalle animazioni all’attento studio dei fondali e dei paesaggi, ogni elemento di quest’opera d’arte rivela una grande qualità e minuziosità di rappresentazione, decisamente incredibili per l’epoca (alcune sequenze animate appaiono a dir poco superbe, tre spanne sopra la media animata del periodo e che non sfigurano neanche oggi), una vera gioia per gli occhi.
La storia, verso la parte finale, prende il volo in tutti i sensi, decolla all’indirizzo d’un ultimo terzo animato davvero favoloso, emotivamente intenso e accompagnato da una colonna sonora che nella sua interezza non è niente di eccezionale, ma, a sostegno del lungo, malinconico epilogo, regala comunque il meglio di sé, prendendo a braccetto scene memorabili e valorizzandole con note indimenticabili, da pelle d’oca, fino alla catarsi di un finale dolceamaro, non stupefacente bensì severo, eppure di grande impatto emotivo: un finale “giusto”, corretto, trasognante, una lezione di saggezza macchiata dalla sempiterna avidità umana.
Provate a godervelo in lingua originale sottotitolata, evitando accuratamente il demoniaco adattamento di Cannarsi: ne vale davvero la pena.
Tanti anni sono passati, ma i capolavori, se ancora servissero delle prove, rimangono immortali.