Ranking of Kings
Bojji è un principe sordo e senza poteri che non riesce neanche a brandire una spada giocattolo. Essendo il primogenito, sogna di diventare il più grande re del mondo, ma molte persone sparlano di lui alle sue spalle, dicendo che è un buono a nulla e che non potrà mai essere un re. Bojji fa allora amicizia con un'ombra di nome Kage, che in qualche modo lo capisce molto bene. Kage è l’unico membro sopravvissuto di un clan di assassini, quasi del tutto spazzato via. Non più un assassino, ora continua a vivere rubando. La storia segue così la crescita di Bojji, mentre incontra diverse persone nella sua vita, a partire dal fatidico incontro con l'ombra.
Immaginate di imbattervi per puro caso in “Ranking of Kings”, leggerne la trama, così come riportata dal sito, notarne lo stile d’animazione fiabesco, quasi infantile, e iniziarlo, nella diffidenza più totale, perché magari un qualche vostro amico ve ne ha parlato bene e qualche consiglio, ogni tanto, è bene ascoltarlo, come è capitato a me. Partendo da queste premesse, probabilmente vi aspettereste un’opera mediocre, con qualche alto, ma troppi bassi. Condita di quel fanservice che piace troppo ai Giapponesi. Per farla breve, l’ennesima tra le tante. Ma invece, andando avanti, puntata dopo puntata, scoprite di avere a che fare con un anime maturo, molto più di tanta roba che si vede in giro, in grado di farvi provare emozioni fortissime, come non succedeva da tempo. A questo punto, dopo ventitré puntate, non potrete far altro che pensare ad una sola cosa: “È proprio vero che l’abito non fa il monaco!”
Già, perché a dispetto delle apparenze “Ranking of Kings” nasconde un lato maturo e sensibile e dei personaggi, a modo loro, carismatici, destinati ad entrare nel cuore dello spettatore, come Bojji e Kage. Dietro un finto velo di semplicità, quest’opera cela quella maturità necessaria a trattare temi come diversità, disabilità, amicizia e crescita personale, che negli ultimi tempi ho riscontrato solamente in “Koe no Katachi”, anche conosciuto col titolo inglese di “A Silent Voice”, con cui “Ranking of Kings” condivide più di qualche tematica. Innanzitutto, quella della disabilità, che diventa diversità. Bojji è il figlio di uno dei re più forti in vita, le cui gesta verranno ricordate in eterno. Il principe è il discendente della stirpe dei giganti, primogenito del re Bosse e, per questo, destinato ad indossare la corona reale. Bojji, però, è sordomuto, e questo, chiaramente, fa storcere il naso al popolo, che in alcun modo crede che lui possa diventare un buon sovrano. D’altronde, come potrebbe, essendo sia sordo che muto? Le persone parlano male di lui, consapevoli del fatto che non possono essere sentite, mentre invece il piccolo Bojji capisce tutto, perché col tempo ha imparato molto bene a leggere il labiale delle persone. Sa bene di essere schernito da tutti, ma, nonostante ciò, va in giro a testa alta, anche quando indossa solamente un paio di mutande. Il coraggio di certo non gli manca, ma il peso da portare sulle spalle è troppo per lui, sordomuto senza alcuna particolare abilità nel combattimento. Ecco, dunque, che quando arriva il momento della successione, gli viene preferito il fratello più giovane, Daida. In questo frangente, matura l’idea di partire per un viaggio, in compagnia del suo amico Kage.
Il viaggio permette al principe Bojji di fare nuove conoscenze e viene usato come espediente per la crescita personale a cui va incontro. Ancora convinto di poter, un giorno, diventare re e seguire le orme del padre, al principe non resta che seguire uno speciale addestramento, per migliorare l’abilità nel combattimento, in cui palesa le sue più grandi lacune. Ma occhio a pensare che la sua crescita si limiti solo a questo. Bojji, col passare del tempo, acquisisce sempre maggior consapevolezza dei propri mezzi. Impara certamente a combattere, ideando uno stile tutto suo, che sfrutta la velocità dei riflessi, addestrati in anni e anni di letture del labiale (debolezza che si tramuta in forza), ma soprattutto viene plasmato a diventare un buon re, magnanimo e gentile, come il suo modo di essere, seppur manchevole di un pizzico di autorità. La crescita a cui va incontro è esponenziale e vederlo sedere sul trono, dopo aver affrontato numerose peripezie, non può che emozionare lo spettatore. Lui, sordomuto dalla nascita, senza alcuna abilità nel combattimento, che diventa re. Lui, a cui nessuno avrebbe dato un soldo, perseguitato dalle maldicenze del popolo, come il suo migliore amico, Kage. Una storia di crescita e riscatto che, ancora una volta, ci insegna che nella vita nulla è impossibile.
Lo stesso discorso fatto per il principe, infine, lo si potrebbe estendere a Kage. Ultimo sopravvissuto del clan delle ombre, conosciute per essere grandi assassini, costretto a subire le peggiori delle angherie e degli abusi, che lo hanno trasformato in un ladruncolo da quattro soldi. Disprezzato da tutti e destinato a vivere una vita di solitudine e insoddisfazione, almeno fino a quando non incontra Bojji. Per un motivo a noi sconosciuto, Kage riesce a capirlo, e in breve tempo i due stringono uno stretto sodalizio. Il sordomuto e l’ombra, una accoppiata a dir poco stramba. Eppure, i due si completano perfettamente. Bojji trova finalmente qualcuno con cui comunicare liberamente e una spalla su cui contare nei momenti di difficoltà. Kage trova l’amico mai avuto e a lungo cercato, che gli permette di ritornare l’ombra dolce e gentile che era un tempo. L’amicizia tra i due è solidissima e, come ci mostra il finale, va ben oltre il potere e la ricchezza, ribadendo un concetto molto conosciuto, ovvero che chi trova un amico, trova un tesoro.
Queste tematiche, trattate con la maturità delle grandi opere, contribuiscono a rendere “Ranking of Kings” un piccolo capolavoro, di certo non privo di imperfezioni. È pensiero comune che verso il terzo quarto di stagione, l’opera viva un leggero calo, dovuto alla costante ricerca del colpo di scena, che alla lunga avrebbe rischiato di rovinare tutto. Così come è innegabile la mancanza di un certo realismo e, quindi, di drammaticità, che avrebbe reso l’opera ancora migliore. Ma, nonostante tutto, il finale alla vissero per sempre felici e contenti riesce sempre a mettere d’accordo tutti. Per il resto, Wit Studio non ha praticamente sbagliato nulla. Le animazioni, seppur nella loro infantilità, si adattano benissimo alla storia raccontata, che con il fiabesco condivide più di qualche elemento. Le musiche sono stupende, come testimoniano le due opening, più che orecchiabili e ricche di significato. Ottimo il character design, semplice ma efficace. Perfetto il doppiaggio, sia quello giapponese, che quello italiano, con l’immancabile Renato Novara. In entrambi i casi, ho apprezzato molto il lavoro, per nulla semplice, fatto per la voce di Bojji.
Per concludere, vi consiglio di mettere da parte lo scetticismo e di iniziare “Ranking of Kings”, perché non ne resterete delusi.
Immaginate di imbattervi per puro caso in “Ranking of Kings”, leggerne la trama, così come riportata dal sito, notarne lo stile d’animazione fiabesco, quasi infantile, e iniziarlo, nella diffidenza più totale, perché magari un qualche vostro amico ve ne ha parlato bene e qualche consiglio, ogni tanto, è bene ascoltarlo, come è capitato a me. Partendo da queste premesse, probabilmente vi aspettereste un’opera mediocre, con qualche alto, ma troppi bassi. Condita di quel fanservice che piace troppo ai Giapponesi. Per farla breve, l’ennesima tra le tante. Ma invece, andando avanti, puntata dopo puntata, scoprite di avere a che fare con un anime maturo, molto più di tanta roba che si vede in giro, in grado di farvi provare emozioni fortissime, come non succedeva da tempo. A questo punto, dopo ventitré puntate, non potrete far altro che pensare ad una sola cosa: “È proprio vero che l’abito non fa il monaco!”
Già, perché a dispetto delle apparenze “Ranking of Kings” nasconde un lato maturo e sensibile e dei personaggi, a modo loro, carismatici, destinati ad entrare nel cuore dello spettatore, come Bojji e Kage. Dietro un finto velo di semplicità, quest’opera cela quella maturità necessaria a trattare temi come diversità, disabilità, amicizia e crescita personale, che negli ultimi tempi ho riscontrato solamente in “Koe no Katachi”, anche conosciuto col titolo inglese di “A Silent Voice”, con cui “Ranking of Kings” condivide più di qualche tematica. Innanzitutto, quella della disabilità, che diventa diversità. Bojji è il figlio di uno dei re più forti in vita, le cui gesta verranno ricordate in eterno. Il principe è il discendente della stirpe dei giganti, primogenito del re Bosse e, per questo, destinato ad indossare la corona reale. Bojji, però, è sordomuto, e questo, chiaramente, fa storcere il naso al popolo, che in alcun modo crede che lui possa diventare un buon sovrano. D’altronde, come potrebbe, essendo sia sordo che muto? Le persone parlano male di lui, consapevoli del fatto che non possono essere sentite, mentre invece il piccolo Bojji capisce tutto, perché col tempo ha imparato molto bene a leggere il labiale delle persone. Sa bene di essere schernito da tutti, ma, nonostante ciò, va in giro a testa alta, anche quando indossa solamente un paio di mutande. Il coraggio di certo non gli manca, ma il peso da portare sulle spalle è troppo per lui, sordomuto senza alcuna particolare abilità nel combattimento. Ecco, dunque, che quando arriva il momento della successione, gli viene preferito il fratello più giovane, Daida. In questo frangente, matura l’idea di partire per un viaggio, in compagnia del suo amico Kage.
Il viaggio permette al principe Bojji di fare nuove conoscenze e viene usato come espediente per la crescita personale a cui va incontro. Ancora convinto di poter, un giorno, diventare re e seguire le orme del padre, al principe non resta che seguire uno speciale addestramento, per migliorare l’abilità nel combattimento, in cui palesa le sue più grandi lacune. Ma occhio a pensare che la sua crescita si limiti solo a questo. Bojji, col passare del tempo, acquisisce sempre maggior consapevolezza dei propri mezzi. Impara certamente a combattere, ideando uno stile tutto suo, che sfrutta la velocità dei riflessi, addestrati in anni e anni di letture del labiale (debolezza che si tramuta in forza), ma soprattutto viene plasmato a diventare un buon re, magnanimo e gentile, come il suo modo di essere, seppur manchevole di un pizzico di autorità. La crescita a cui va incontro è esponenziale e vederlo sedere sul trono, dopo aver affrontato numerose peripezie, non può che emozionare lo spettatore. Lui, sordomuto dalla nascita, senza alcuna abilità nel combattimento, che diventa re. Lui, a cui nessuno avrebbe dato un soldo, perseguitato dalle maldicenze del popolo, come il suo migliore amico, Kage. Una storia di crescita e riscatto che, ancora una volta, ci insegna che nella vita nulla è impossibile.
Lo stesso discorso fatto per il principe, infine, lo si potrebbe estendere a Kage. Ultimo sopravvissuto del clan delle ombre, conosciute per essere grandi assassini, costretto a subire le peggiori delle angherie e degli abusi, che lo hanno trasformato in un ladruncolo da quattro soldi. Disprezzato da tutti e destinato a vivere una vita di solitudine e insoddisfazione, almeno fino a quando non incontra Bojji. Per un motivo a noi sconosciuto, Kage riesce a capirlo, e in breve tempo i due stringono uno stretto sodalizio. Il sordomuto e l’ombra, una accoppiata a dir poco stramba. Eppure, i due si completano perfettamente. Bojji trova finalmente qualcuno con cui comunicare liberamente e una spalla su cui contare nei momenti di difficoltà. Kage trova l’amico mai avuto e a lungo cercato, che gli permette di ritornare l’ombra dolce e gentile che era un tempo. L’amicizia tra i due è solidissima e, come ci mostra il finale, va ben oltre il potere e la ricchezza, ribadendo un concetto molto conosciuto, ovvero che chi trova un amico, trova un tesoro.
Queste tematiche, trattate con la maturità delle grandi opere, contribuiscono a rendere “Ranking of Kings” un piccolo capolavoro, di certo non privo di imperfezioni. È pensiero comune che verso il terzo quarto di stagione, l’opera viva un leggero calo, dovuto alla costante ricerca del colpo di scena, che alla lunga avrebbe rischiato di rovinare tutto. Così come è innegabile la mancanza di un certo realismo e, quindi, di drammaticità, che avrebbe reso l’opera ancora migliore. Ma, nonostante tutto, il finale alla vissero per sempre felici e contenti riesce sempre a mettere d’accordo tutti. Per il resto, Wit Studio non ha praticamente sbagliato nulla. Le animazioni, seppur nella loro infantilità, si adattano benissimo alla storia raccontata, che con il fiabesco condivide più di qualche elemento. Le musiche sono stupende, come testimoniano le due opening, più che orecchiabili e ricche di significato. Ottimo il character design, semplice ma efficace. Perfetto il doppiaggio, sia quello giapponese, che quello italiano, con l’immancabile Renato Novara. In entrambi i casi, ho apprezzato molto il lavoro, per nulla semplice, fatto per la voce di Bojji.
Per concludere, vi consiglio di mettere da parte lo scetticismo e di iniziare “Ranking of Kings”, perché non ne resterete delusi.
“Ranking of kings” gioca molto sui contrasti, ma ci marcia un po’ troppo.
L’idea di mettere un bambino sordomuto, ingenuo e paffutello, che si presenta con un sorriso stampato sul volto, in situazioni difficili e cruente, sicuramente fa presa sullo spettatore, ma alla lunga diviene irritante (e poi non è che il soggetto sia così tanto originale). Buona è l’alchimia che si forma tra il protagonista Bojji e la creatura del clan delle ombre Kage, i quali diventano quasi simbiotici; interessante la storia “prequel”, che viene raccontata grazie a una serie di flashback; discreto l’epilogo, ma tutto lo sviluppo della narrazione, che conduce a quel finale, è praticamente un disastro.
Devo dire che la storia parte bene , perché ha un’ambientazione simile alla “Il trono di spade” (dal quale scopiazza un po’ di personaggi e situazioni) e i primi episodi mettono in scena una serie trame e intrighi, che fanno sperare di trovarsi di fronte a un’opera di ampio respiro (il cui manga è ancora in corso), con uno sviluppo complesso, ma avvincente, con un intreccio ricco di misteri da svelare e colpi di scena da vivere e in grado di coprire con maestria interi archi narrativi, e instilla quindi nello spettatore l’aspettativa di trovarsi di fronte a una nuova epopea fantasy. Purtroppo, dopo pochi episodi, queste speranze si dimostrano solo delle mere illusioni, che inevitabilmente conducono a una grande delusione.
Le cospirazioni e le sotto-trame si rivelano effimere, poiché nascono e si esauriscono nell’arco di un paio di puntate, e sembrano avere il solo scopo di allungare la storia. Gli intrighi, poi, non avvengono in luoghi oscuri, lontano da occhi indiscreti o tramite missive dove il portatore rischia la vita, ma alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, utilizzando una tecnica tanto arcaica quanto arcana, e cioè... parlandosi nelle orecchie.
Diciamocelo chiaramente, le opere fantasy e sci-fi consentono a un autore di avere numerose licenze rispetto alle leggi della natura e della logica, tuttavia l’abilità di chi le scrive sta nel saperle gestire e soprattutto renderle plausibili, in quello che è l’universo che egli stesso ha creato, perché queste ambientazioni non possono diventare la scusa per buttarci dentro la prima idea che può passarti per la testa, presa magari dai cartoni animati visti durante la propria infanzia o da quelli più famosi del momento. In “Ranking of Kings” ci sono delle cose che sono spiegate bene (e sono quelle che ti illudono), ma altre cose che sono assolutamente prive di senso.
Il motivo per cui il protagonista sia così piccolo e debole rispetto ai genitori, per quanto apparentemente assurdo, è invece ben motivato e “reso” plausibile dalla narrazione, ma di contro l’abilità di Bonji di schivare i colpi con la stessa velocità di Goku di “Dragon Ball” o Pegasus de “I Cavalieri dello Zodiaco” (scegliete voi chi più vi aggrada) viene giustificata dal fatto che il bambino, in quanto sordo, sia diventato veloce per riuscire a leggere la labbra (elementare, Watson!).
I comportamenti di alcuni personaggi secondari sono totalmente assurdi che si spiegano come una serie di goffi tentativi, da parte dell’autore, di creare dei colpi di scena, che dovrebbero far sobbalzare lo spettatore dalla sorpresa, ma che invece lo lasciano semplicemente interdetto. C’è sicuramente un chiaro tentativo da parte dello sceneggiatore di evidenziare il conflitto tra “necessità”, “doveri”, “sentimenti” ed “etica” che alberga in molti dei coprotagonisti (non in Bojji, che è sempre coerente con sé stesso), ma il modo in cui ciò avviene è totalmente confusionario e arruffato, perché è un continuo “agire”, “pentirsi di aver agito”, “pentirsi di essersi pentiti di aver agito”. Si assiste così ad esecuzioni che vengono commissionate e poi sospese, senza un intervento esterno e senza una vera motivazione; alleanze che si fanno e disfano nell’arco di qualche minuto; traditori che tradiscono, ma poi aiutano i traditi, pur rimanendo alleati con i cospiratori; personaggi che vengono feriti durante la battaglia, e, appena recuperano, invece di riprendere lo scontro, vanno a fare un po’ di casino nel villaggio; eroi esanimi, a cui manca solo il colpo di grazia, che vengono graziati, perché l’avversario scopre di aver altro da fare...
In questo anime si rovesciano con disinvoltura fiumi e fiumi di lacrime e sangue, poiché vi si alternano scene crude che coinvolgono anche il protagonista ad altre toccanti. Tuttavia, più si va avanti con la narrazione e più aumenta la percezione che tali scene siano forzate, e in alcune di esse si intravede anche il tentativo di farle diventare “iconiche” (e spendibili anche a livello di marketing), in una sorta di fanservice “emotivo”. È anche difficile capire a quale target di pubblico sia indirizzata quest’opera, visto che la struttura da fiaba, con tutte le incongruenze annesse e connesse, può renderla sì adatta alla fascia dei più giovani, ma anche lasciare perplessi i più grandi. Di contro, tutta quella truculenza non la rende di certo ideale per i più piccoli.
La storia è divisa in due parti, piuttosto diverse tra di esse.
La prima è incentrata tutta sulla ben assortita coppia Bojji/Kage: entrambi emarginati, uno a causa dei suoi problemi fisici, l’altro perché appartenente a una razza reietta, i due svilupperanno inizialmente un insano rapporto “preda/predatore”, che renderà ancora più difficile la vita del principe, ma presto Kage diverrà “guardia del corpo”, “voce”, “fido scudiero” e quindi “compagno di avventure” del piccolo reale.
Una delle più grandi pecche di questa prima parte è che, in ogni puntata, non manca una scena in cui il protagonista non pianga. C’è addirittura un motivetto che parte un attimo prima che i suoi occhi comincino a diventare lucidi. Non so quale sia il suo nome di questo jingle nella OST, però potrebbe tranquillamente chiamarsi “Le lacrime del principino”. Il problema di queste scene è che, dopo qualche episodio, cominciano a sembrare cosi artificiose, da portare alla mente un cabarettista che, a fine serata, inizia a chiamare l’applauso a un pubblico ormai stanco di sentire la stessa battuta.
Nella seconda parte la coppia Bojji/Kage viene un po’ accantonata, a tutto vantaggio della storia “prequel” (che è la migliore), e acquistano più visibilità altri personaggi secondari. In questo passaggio di testimone, non manca comunque il passaggio del “lacrimone”.
Visto che il più grande difetto della serie risiede proprio nei collegamenti, tra un arco narrativo e l’altro, e tra il principio e la fine, l’essenzialità dei flashback, di cui è ricca la seconda parte, rende quest’ultima molto più comprensibile e scorrevole, e in qualche modo salva il finale.
Dato che Bojji parla solo per mezzo di Kage, e visto che ci è precluso il suo monologo interiore, si forma un curioso paradosso per cui, invece di vedere la realtà dal punto di vista del protagonista, cosa che è la norma in ogni racconto, ci troviamo a vederla da un punto di vista invertito (sappiamo più come il mondo vede lui, che non viceversa), tuttavia c’è un momento dove, finalmente, la prospettiva si ribalta e, per pochi fotogrammi, osserviamo come il bambino “sente” tutto ciò che lo circonda.
Questa è una bella trovata, ma poteva essere usata molto meglio e in un contesto meno marginale.
Come già accennato in precedenza, tantissimi e un po’ spropositati sono i rifermenti a serie e animazioni fantasy più o meno recenti, dei quali sono degni di nota: uno scontro con la tecnica del “movimento tridimensionale” usata contro un gigante (va beh, dai, fatta dalla studio WIT ci può stare) e la versione rossa del drago Shenron.
Il comparto sonoro è discreto, di cui la seconda opening ottima. La componente grafica è peculiare, molto probabilmente disegnata per ricordare le illustrazioni dei libri per l’infanzia, e presenta fondali essenziali e piatti (che quasi cancellano la profondità), assieme ai quali gli stessi personaggi tendono a fondersi. Anche il design di Kage gioca su questo “contrasto/fusione” (dovrebbe chiamarsi sincretismo) bi-tri dimensionale, magari c’è un motivo particolare, magari no.
Per concludere, “Ranking of Kings” è un anime fatto di ombre (molte) e luci (alcune anche buone), e, al di là di tutta una serie di difetti narrativi e sovra-drammatizzazioni, riesce a far nascere una certa empatia verso i due protagonisti; non manca inoltre qualche momento umoristico (alcuni dei quali totalmente involontari), che rende più piacevole la visione. Alla fine il mio voto supera la sufficienza.
L’idea di mettere un bambino sordomuto, ingenuo e paffutello, che si presenta con un sorriso stampato sul volto, in situazioni difficili e cruente, sicuramente fa presa sullo spettatore, ma alla lunga diviene irritante (e poi non è che il soggetto sia così tanto originale). Buona è l’alchimia che si forma tra il protagonista Bojji e la creatura del clan delle ombre Kage, i quali diventano quasi simbiotici; interessante la storia “prequel”, che viene raccontata grazie a una serie di flashback; discreto l’epilogo, ma tutto lo sviluppo della narrazione, che conduce a quel finale, è praticamente un disastro.
Devo dire che la storia parte bene , perché ha un’ambientazione simile alla “Il trono di spade” (dal quale scopiazza un po’ di personaggi e situazioni) e i primi episodi mettono in scena una serie trame e intrighi, che fanno sperare di trovarsi di fronte a un’opera di ampio respiro (il cui manga è ancora in corso), con uno sviluppo complesso, ma avvincente, con un intreccio ricco di misteri da svelare e colpi di scena da vivere e in grado di coprire con maestria interi archi narrativi, e instilla quindi nello spettatore l’aspettativa di trovarsi di fronte a una nuova epopea fantasy. Purtroppo, dopo pochi episodi, queste speranze si dimostrano solo delle mere illusioni, che inevitabilmente conducono a una grande delusione.
Le cospirazioni e le sotto-trame si rivelano effimere, poiché nascono e si esauriscono nell’arco di un paio di puntate, e sembrano avere il solo scopo di allungare la storia. Gli intrighi, poi, non avvengono in luoghi oscuri, lontano da occhi indiscreti o tramite missive dove il portatore rischia la vita, ma alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, utilizzando una tecnica tanto arcaica quanto arcana, e cioè... parlandosi nelle orecchie.
Diciamocelo chiaramente, le opere fantasy e sci-fi consentono a un autore di avere numerose licenze rispetto alle leggi della natura e della logica, tuttavia l’abilità di chi le scrive sta nel saperle gestire e soprattutto renderle plausibili, in quello che è l’universo che egli stesso ha creato, perché queste ambientazioni non possono diventare la scusa per buttarci dentro la prima idea che può passarti per la testa, presa magari dai cartoni animati visti durante la propria infanzia o da quelli più famosi del momento. In “Ranking of Kings” ci sono delle cose che sono spiegate bene (e sono quelle che ti illudono), ma altre cose che sono assolutamente prive di senso.
Il motivo per cui il protagonista sia così piccolo e debole rispetto ai genitori, per quanto apparentemente assurdo, è invece ben motivato e “reso” plausibile dalla narrazione, ma di contro l’abilità di Bonji di schivare i colpi con la stessa velocità di Goku di “Dragon Ball” o Pegasus de “I Cavalieri dello Zodiaco” (scegliete voi chi più vi aggrada) viene giustificata dal fatto che il bambino, in quanto sordo, sia diventato veloce per riuscire a leggere la labbra (elementare, Watson!).
I comportamenti di alcuni personaggi secondari sono totalmente assurdi che si spiegano come una serie di goffi tentativi, da parte dell’autore, di creare dei colpi di scena, che dovrebbero far sobbalzare lo spettatore dalla sorpresa, ma che invece lo lasciano semplicemente interdetto. C’è sicuramente un chiaro tentativo da parte dello sceneggiatore di evidenziare il conflitto tra “necessità”, “doveri”, “sentimenti” ed “etica” che alberga in molti dei coprotagonisti (non in Bojji, che è sempre coerente con sé stesso), ma il modo in cui ciò avviene è totalmente confusionario e arruffato, perché è un continuo “agire”, “pentirsi di aver agito”, “pentirsi di essersi pentiti di aver agito”. Si assiste così ad esecuzioni che vengono commissionate e poi sospese, senza un intervento esterno e senza una vera motivazione; alleanze che si fanno e disfano nell’arco di qualche minuto; traditori che tradiscono, ma poi aiutano i traditi, pur rimanendo alleati con i cospiratori; personaggi che vengono feriti durante la battaglia, e, appena recuperano, invece di riprendere lo scontro, vanno a fare un po’ di casino nel villaggio; eroi esanimi, a cui manca solo il colpo di grazia, che vengono graziati, perché l’avversario scopre di aver altro da fare...
In questo anime si rovesciano con disinvoltura fiumi e fiumi di lacrime e sangue, poiché vi si alternano scene crude che coinvolgono anche il protagonista ad altre toccanti. Tuttavia, più si va avanti con la narrazione e più aumenta la percezione che tali scene siano forzate, e in alcune di esse si intravede anche il tentativo di farle diventare “iconiche” (e spendibili anche a livello di marketing), in una sorta di fanservice “emotivo”. È anche difficile capire a quale target di pubblico sia indirizzata quest’opera, visto che la struttura da fiaba, con tutte le incongruenze annesse e connesse, può renderla sì adatta alla fascia dei più giovani, ma anche lasciare perplessi i più grandi. Di contro, tutta quella truculenza non la rende di certo ideale per i più piccoli.
La storia è divisa in due parti, piuttosto diverse tra di esse.
La prima è incentrata tutta sulla ben assortita coppia Bojji/Kage: entrambi emarginati, uno a causa dei suoi problemi fisici, l’altro perché appartenente a una razza reietta, i due svilupperanno inizialmente un insano rapporto “preda/predatore”, che renderà ancora più difficile la vita del principe, ma presto Kage diverrà “guardia del corpo”, “voce”, “fido scudiero” e quindi “compagno di avventure” del piccolo reale.
Una delle più grandi pecche di questa prima parte è che, in ogni puntata, non manca una scena in cui il protagonista non pianga. C’è addirittura un motivetto che parte un attimo prima che i suoi occhi comincino a diventare lucidi. Non so quale sia il suo nome di questo jingle nella OST, però potrebbe tranquillamente chiamarsi “Le lacrime del principino”. Il problema di queste scene è che, dopo qualche episodio, cominciano a sembrare cosi artificiose, da portare alla mente un cabarettista che, a fine serata, inizia a chiamare l’applauso a un pubblico ormai stanco di sentire la stessa battuta.
Nella seconda parte la coppia Bojji/Kage viene un po’ accantonata, a tutto vantaggio della storia “prequel” (che è la migliore), e acquistano più visibilità altri personaggi secondari. In questo passaggio di testimone, non manca comunque il passaggio del “lacrimone”.
Visto che il più grande difetto della serie risiede proprio nei collegamenti, tra un arco narrativo e l’altro, e tra il principio e la fine, l’essenzialità dei flashback, di cui è ricca la seconda parte, rende quest’ultima molto più comprensibile e scorrevole, e in qualche modo salva il finale.
Dato che Bojji parla solo per mezzo di Kage, e visto che ci è precluso il suo monologo interiore, si forma un curioso paradosso per cui, invece di vedere la realtà dal punto di vista del protagonista, cosa che è la norma in ogni racconto, ci troviamo a vederla da un punto di vista invertito (sappiamo più come il mondo vede lui, che non viceversa), tuttavia c’è un momento dove, finalmente, la prospettiva si ribalta e, per pochi fotogrammi, osserviamo come il bambino “sente” tutto ciò che lo circonda.
Questa è una bella trovata, ma poteva essere usata molto meglio e in un contesto meno marginale.
Come già accennato in precedenza, tantissimi e un po’ spropositati sono i rifermenti a serie e animazioni fantasy più o meno recenti, dei quali sono degni di nota: uno scontro con la tecnica del “movimento tridimensionale” usata contro un gigante (va beh, dai, fatta dalla studio WIT ci può stare) e la versione rossa del drago Shenron.
Il comparto sonoro è discreto, di cui la seconda opening ottima. La componente grafica è peculiare, molto probabilmente disegnata per ricordare le illustrazioni dei libri per l’infanzia, e presenta fondali essenziali e piatti (che quasi cancellano la profondità), assieme ai quali gli stessi personaggi tendono a fondersi. Anche il design di Kage gioca su questo “contrasto/fusione” (dovrebbe chiamarsi sincretismo) bi-tri dimensionale, magari c’è un motivo particolare, magari no.
Per concludere, “Ranking of Kings” è un anime fatto di ombre (molte) e luci (alcune anche buone), e, al di là di tutta una serie di difetti narrativi e sovra-drammatizzazioni, riesce a far nascere una certa empatia verso i due protagonisti; non manca inoltre qualche momento umoristico (alcuni dei quali totalmente involontari), che rende più piacevole la visione. Alla fine il mio voto supera la sufficienza.
Reso famoso dall’anime de “L’attacco dei giganti”, delle cui prime stagioni si è occupato, lo studio Wit ha fatto uscire serie più o meno famose. Lo scorso anno è uscito questo anime, che possiamo definire una fiaba.
Premetto che le favole e le fiabe non sono roba solo per bambini, anche se sono racconti nati oralmente per far crescere le persone. Il finale nelle opere più antiche spesso e volentieri non è a lieto fine: il lupo si mangia l’agnello nella famosa favola, o nelle varie versioni delle fiabe tutti vissero felici e contenti tranne i cattivi, i quali fanno una brutta fine. Per esempio, in “Cenerentola” la matrigna e le sorellastre finiscono bollite nella pece.
Purtroppo quest’opera è studiata per non irritare i genitori e, se fino a un certo punto si poteva sperare di poterla definire come “adulta”, il finale con un lieto fine a tutti i costi rovina in parte la narrazione.
La storia di questo principe sordomuto è molto carina, e niente è come sembra: la matrigna non è cattiva e il papà non è così buono. Miranjio è cattiva ma recuperabile come Daida, che da presuntuoso e arrogante finisce per scoprirsi buono dopo un po’ di solitudine.
Ci sono anche altri personaggi, uno più interessante dell’altro: buoni, cattivi, così così. Kage, per esempio, o Despa.
Il finale lascia intendere che ci saranno altre avventure. Ho sempre detto che non si possono vivere due volte gli stessi sogni, quindi dovranno inventare qualcosa di nuovo: io attenderò.
Voto? Complessivamente storia, musiche e animazione meritano un otto.
Premetto che le favole e le fiabe non sono roba solo per bambini, anche se sono racconti nati oralmente per far crescere le persone. Il finale nelle opere più antiche spesso e volentieri non è a lieto fine: il lupo si mangia l’agnello nella famosa favola, o nelle varie versioni delle fiabe tutti vissero felici e contenti tranne i cattivi, i quali fanno una brutta fine. Per esempio, in “Cenerentola” la matrigna e le sorellastre finiscono bollite nella pece.
Purtroppo quest’opera è studiata per non irritare i genitori e, se fino a un certo punto si poteva sperare di poterla definire come “adulta”, il finale con un lieto fine a tutti i costi rovina in parte la narrazione.
La storia di questo principe sordomuto è molto carina, e niente è come sembra: la matrigna non è cattiva e il papà non è così buono. Miranjio è cattiva ma recuperabile come Daida, che da presuntuoso e arrogante finisce per scoprirsi buono dopo un po’ di solitudine.
Ci sono anche altri personaggi, uno più interessante dell’altro: buoni, cattivi, così così. Kage, per esempio, o Despa.
Il finale lascia intendere che ci saranno altre avventure. Ho sempre detto che non si possono vivere due volte gli stessi sogni, quindi dovranno inventare qualcosa di nuovo: io attenderò.
Voto? Complessivamente storia, musiche e animazione meritano un otto.
"Ousama Ranking" è un'epifania, il rendersi conto di quanto la qualità e la passione dietro un prodotto d'animazione possano ancora, in un mercato piuttosto saturo, risvegliare emozioni sincere nello spettatore. Dietro a un'estetica fiabesca e apparentemente infantile, si nascondono infatti messaggi e concetti che bucano lo schermo, che premieranno chi deciderà di godersi la pregiata direzione artistica e la sapiente costruzione di personaggi che nascono come topoi, sagome che sembrano semplici da comprendere e che si evolvono in un caleidoscopio di sfaccettature.
Il mio consiglio è di abbandonare ogni tentativo di voler osservare il semplice dato oggettivo: le azioni e le peripezie di Bojji sono sì una meravigliosa storia fantasy dotata di un world-building che ha solamente iniziato in questi ventitré episodi a meravigliare e stupire lo spettatore, ma sono soprattutto le tappe del processo di crescita, di cosa significhi essere un figlio, un genitore o, in generale, una persona migliori. Un colpo di spada non rappresenta un mero strumento di offesa, ma qualcosa di molto più elevato. È la scelta di come si voglia portare avanti la propria esistenza: è più importante essere migliori del prossimo o tendergli la mano con la gentilezza di una stoccata che non ferisce?
E ogni singola azione o figura che si pareranno di fronte al nostro eroe saranno portatori di messaggi; proverò ad esaminarne alcuni, ovviamente questa è una mia probabilmente fallace e personalissima interpretazione, ma, se anche dovesse aiutare qualcuno ad approcciare questo anime con un piglio diverso, allora sarà valsa la pena scrivere questa recensione. A partire da questo punto saranno presenti alcuni spoiler (seppur difficili da comprendere senza contesto), consiglio vivamente la lettura solo a chi ha portato a termine la visione.
Partirei con la figura di Daida, borioso e tremendamente ambizioso nella prima sezione dell'anime. Possiamo interpretare la sua presenza come quella del classico antieroe che corrisponde alle aspettative della società molto più dello sventurato protagonista. Ma il peso di tutto ciò farà scomparire totalmente la volontà di Daida, relegato in un universo interiore imposto dal padre, Bosse. La proiezione del genitore, della sua volontà, finirà per far scomparire totalmente la persona che voleva assomigliargli di più. Una dimensione in cui è facile rispecchiarsi: il fatto che Daida perda il controllo del suo corpo indica un processo di redenzione, accettare che la vita ci appartiene, che nulla è stabilito e designato sin dalla nascita e che il prossimo non è uno strumento per raggiungere un obiettivo, ma l'oggetto della nostra crescita. Dalla più cupa disperazione, nasce quello che è forse il personaggio che muta di più nella serie, rimanendo però coerente alla sua personalità: la dichiarazione a Miranjo è sempre un atto ambizioso, quello di attuare il massimo perdono, di comprendere chi ha influenzato le visioni della persona a cui lui aspirava e di essere quello che il padre non è riuscito a diventare, l'uomo che sarebbe riuscito a rendere felice chi ha toccato il baratro e ha assaporato più da vicino il sapore della morte.
Il concetto della crescita vede nelle figure adulte molteplici sfaccettature: in Bebin e Mitsumata il calore inaspettato della gratitudine, figure celate che danno il loro apporto quando meno lo si aspetta. Una sorta di rappresentazione della diversità delle manifestazioni d'amore, ma che scaldano allo stesso modo quando si impara a comprenderle. In Hiling, invece, la capacità di amare incondizionatamente anche all'infuori dei legami di sangue, a rimarcare che il concetto di famiglia è sempre in costruzione e quest'ultima è composta da chi, in effetti, tiene veramente a te. È un affetto rigido, protettivo, che vuole evitare ogni male ai propri pargoli e servitori. E assume un valore immenso l'ultimo episodio, dove dopo diverse concessioni di piccola entità ai suoi due figli compie il sacrificio che molti genitori non vorrebbero mai compiere: lasciare andare, cedere la libertà e l'autoaffermazione a Bojji. Ma sono ancora tanti altri i messaggi perpetrati: la fedeltà ma anche la capacità di discernimento fra bene e male di Apeas, il più umano nei suoi struggimenti morali, Despa e la disponibilità ad agire per il bene comune, anche quando sembra così lontano dagli interessi personali, oppure Domas, pronto a tutto per espiare i suoi peccati.
In ultima battuta, un appunto su Kage, sineddoche degli ultimi come motore e vera anima del mondo. Una delle ultime battute della serie dice: "Come può un essere del genere essere così luminoso?"; e allo spettatore riesce molto semplice formulare una risposta: "Perché non c'è persona più importante nella vita di una persona che un amico sincero, disposto a tutto per la nostra felicità". Non importa che aspetto abbia, che status sociale occupi o che oscuro passato lo perseguiti, non è questo a sancire il suo valore. Kage incarna alla perfezione tutto ciò, e nel toccante epilogo tutti quanti possono rivedersi in lui, così come in ogni manifestazione di affetto e in ogni complimento fatto a Bojji.
Un accenno sull'aspetto tecnico e le musiche: la grafica sprizza qualità in ogni scena, con sezioni suggestive, movimenti di camera ispiratissimi, e in generale l'animazione rimane quasi sempre di qualità e direzione eccelse. Il contrasto fra nitidezza delle figure e degli sfondi e la truculenza (fisica e morale) della storia funziona alla grande e aumenta notevolmente l'impatto emotivo di diversi istanti. Un plauso alle opening e alle ending, con una particolare menzione alla seconda sigla d'apertura: "Hadaka no Yuusha" di Vaundy, senza paura di esagerare in questo caso, rappresenta uno dei punti più alti di questo secolo d'animazione. Musica e immagini si sposano alla perfezione, con uno storytelling che in un minuto e trenta secondi riesce a fare un sunto perfetto del secondo arco narrativo.
Consiglio vivamente "Ousama Ranking", perché trasuda qualità e passione in ogni ambito, il che è una vera e propria rarità. In questi ventitré episodi crescerà Bojji, ma garantisco che, in qualche modo, un pezzetto di qualche personaggio rimarrà per sempre con voi e vi accompagnerà nella vostra avventura o, molto più banalmente, nella vostra vita.
Il mio consiglio è di abbandonare ogni tentativo di voler osservare il semplice dato oggettivo: le azioni e le peripezie di Bojji sono sì una meravigliosa storia fantasy dotata di un world-building che ha solamente iniziato in questi ventitré episodi a meravigliare e stupire lo spettatore, ma sono soprattutto le tappe del processo di crescita, di cosa significhi essere un figlio, un genitore o, in generale, una persona migliori. Un colpo di spada non rappresenta un mero strumento di offesa, ma qualcosa di molto più elevato. È la scelta di come si voglia portare avanti la propria esistenza: è più importante essere migliori del prossimo o tendergli la mano con la gentilezza di una stoccata che non ferisce?
E ogni singola azione o figura che si pareranno di fronte al nostro eroe saranno portatori di messaggi; proverò ad esaminarne alcuni, ovviamente questa è una mia probabilmente fallace e personalissima interpretazione, ma, se anche dovesse aiutare qualcuno ad approcciare questo anime con un piglio diverso, allora sarà valsa la pena scrivere questa recensione. A partire da questo punto saranno presenti alcuni spoiler (seppur difficili da comprendere senza contesto), consiglio vivamente la lettura solo a chi ha portato a termine la visione.
Partirei con la figura di Daida, borioso e tremendamente ambizioso nella prima sezione dell'anime. Possiamo interpretare la sua presenza come quella del classico antieroe che corrisponde alle aspettative della società molto più dello sventurato protagonista. Ma il peso di tutto ciò farà scomparire totalmente la volontà di Daida, relegato in un universo interiore imposto dal padre, Bosse. La proiezione del genitore, della sua volontà, finirà per far scomparire totalmente la persona che voleva assomigliargli di più. Una dimensione in cui è facile rispecchiarsi: il fatto che Daida perda il controllo del suo corpo indica un processo di redenzione, accettare che la vita ci appartiene, che nulla è stabilito e designato sin dalla nascita e che il prossimo non è uno strumento per raggiungere un obiettivo, ma l'oggetto della nostra crescita. Dalla più cupa disperazione, nasce quello che è forse il personaggio che muta di più nella serie, rimanendo però coerente alla sua personalità: la dichiarazione a Miranjo è sempre un atto ambizioso, quello di attuare il massimo perdono, di comprendere chi ha influenzato le visioni della persona a cui lui aspirava e di essere quello che il padre non è riuscito a diventare, l'uomo che sarebbe riuscito a rendere felice chi ha toccato il baratro e ha assaporato più da vicino il sapore della morte.
Il concetto della crescita vede nelle figure adulte molteplici sfaccettature: in Bebin e Mitsumata il calore inaspettato della gratitudine, figure celate che danno il loro apporto quando meno lo si aspetta. Una sorta di rappresentazione della diversità delle manifestazioni d'amore, ma che scaldano allo stesso modo quando si impara a comprenderle. In Hiling, invece, la capacità di amare incondizionatamente anche all'infuori dei legami di sangue, a rimarcare che il concetto di famiglia è sempre in costruzione e quest'ultima è composta da chi, in effetti, tiene veramente a te. È un affetto rigido, protettivo, che vuole evitare ogni male ai propri pargoli e servitori. E assume un valore immenso l'ultimo episodio, dove dopo diverse concessioni di piccola entità ai suoi due figli compie il sacrificio che molti genitori non vorrebbero mai compiere: lasciare andare, cedere la libertà e l'autoaffermazione a Bojji. Ma sono ancora tanti altri i messaggi perpetrati: la fedeltà ma anche la capacità di discernimento fra bene e male di Apeas, il più umano nei suoi struggimenti morali, Despa e la disponibilità ad agire per il bene comune, anche quando sembra così lontano dagli interessi personali, oppure Domas, pronto a tutto per espiare i suoi peccati.
In ultima battuta, un appunto su Kage, sineddoche degli ultimi come motore e vera anima del mondo. Una delle ultime battute della serie dice: "Come può un essere del genere essere così luminoso?"; e allo spettatore riesce molto semplice formulare una risposta: "Perché non c'è persona più importante nella vita di una persona che un amico sincero, disposto a tutto per la nostra felicità". Non importa che aspetto abbia, che status sociale occupi o che oscuro passato lo perseguiti, non è questo a sancire il suo valore. Kage incarna alla perfezione tutto ciò, e nel toccante epilogo tutti quanti possono rivedersi in lui, così come in ogni manifestazione di affetto e in ogni complimento fatto a Bojji.
Un accenno sull'aspetto tecnico e le musiche: la grafica sprizza qualità in ogni scena, con sezioni suggestive, movimenti di camera ispiratissimi, e in generale l'animazione rimane quasi sempre di qualità e direzione eccelse. Il contrasto fra nitidezza delle figure e degli sfondi e la truculenza (fisica e morale) della storia funziona alla grande e aumenta notevolmente l'impatto emotivo di diversi istanti. Un plauso alle opening e alle ending, con una particolare menzione alla seconda sigla d'apertura: "Hadaka no Yuusha" di Vaundy, senza paura di esagerare in questo caso, rappresenta uno dei punti più alti di questo secolo d'animazione. Musica e immagini si sposano alla perfezione, con uno storytelling che in un minuto e trenta secondi riesce a fare un sunto perfetto del secondo arco narrativo.
Consiglio vivamente "Ousama Ranking", perché trasuda qualità e passione in ogni ambito, il che è una vera e propria rarità. In questi ventitré episodi crescerà Bojji, ma garantisco che, in qualche modo, un pezzetto di qualche personaggio rimarrà per sempre con voi e vi accompagnerà nella vostra avventura o, molto più banalmente, nella vostra vita.