La storia della Principessa Splendente
Attenzione: la recensione contiene spoiler
“La storia della principessa splendente” è l’ultimo film creato dal regista Isao Takahata (morto nel 2018): è un film interessante per alcuni versi ma con alcune criticità.
Per lo studio Ghibli è stata una faticaccia, ci sono voluti otto anni di lavoro per realizzarlo e, si dice, trentacinque milioni di dollari, forse neppure recuperati nel primo anno di distribuzione, nonostante la nomination agli Oscar. Takahata, conosciuto per essere un perfezionista, era però abituato ai flop di botteghino. Era successo già con “Una tomba per le lucciole”, dove oltre le perdite si guadagnò l’odio dei genitori che avevano visto i loro bambini scioccati per quel film. Anche questo film, nonostante il parere di adulti entusiasti, è adatto secondo me ai bambini di oggi: la storia è lenta, e sebbene le decisioni stilistiche di Takahata la facciano sembrare una favola, di fatto mi sa di veramente povero - poveri i fondali e brutto il character design, sebbene qualcheduno possa definirli (a torto) ricercati.
La storia è tratta da un classico della letteratura giapponese, “La storia del tagliatore di bambù”, dove un anziano tagliatore di bambù vede spuntare un bambù che contiene un essere vivente: la principessa che dà il nome al film. Cresce rapidamente questa fanciulla e si diverte in montagna con i ragazzi poveri della zona, che la chiamano ‘gemma di bambù’. Arrivati a un certo punto, il tagliatore trova dell’oro e si trasferisce in città, educandola come una nobildonna: quanta tristezza per lei che era abituata alla libertà questa nuova vita di obblighi! Suo padre adottivo la vuole dare in sposa a un nobile, e ben cinque si dichiarano, ma alla fine la “desiderano” perché sanno che è bella, ma non l’hanno mai vista né conosciuta.
Come in “Genji Monogatari”, le persone qui si innamorano per un nonnulla: infatti, non potendo vedere le ragazze prima del matrimonio o del momento dell’atto sessuale, possono solo immaginarsi che una dama sia bella perché ha una bella voce o suona bene uno strumento o ha una bella calligrafia... Questi cortigiani si dimostrano in buona fine parolai e falsi, ma non è migliore il mikado (l’imperatore di origine divina), il quale la brama come una proprietà e non una persona. Lei vuole evadere, ma diventa sempre più difficile, la fine è desolante: un Buddha, invece di darle la felicità riportandola a Sutemaru e ad una vita agreste, povera ma libera, la riporta sulla Luna, dandole l’oblio e facendola fuggire da un padre che lei ama, ma che non la capisce e la tratta anche lui con amore ma non con rispetto.
Ho trovato molto suggestive le musiche del sempre bravo Joe Hisaishi, ma non mi è piaciuto che le canzoni, cantate dai personaggi durante il film, non abbiano avuto i sottotitoli, in quanto ciò mi ha impedito di comprenderne l’impatto sugli stessi personaggi.
Credo inoltre che, per essere stato in lavorazione per otto anni, il risultato sia mediocre e che Takahata sia sopravvalutato, in quanto non riesce a darsi dei limiti di professionalità: il fatto di criticare in continuazione ciò che è fatto dagli altri infatti non sempre è indice di genio, ma a volte può essere un grave limite.
“La storia della principessa splendente” è l’ultimo film creato dal regista Isao Takahata (morto nel 2018): è un film interessante per alcuni versi ma con alcune criticità.
Per lo studio Ghibli è stata una faticaccia, ci sono voluti otto anni di lavoro per realizzarlo e, si dice, trentacinque milioni di dollari, forse neppure recuperati nel primo anno di distribuzione, nonostante la nomination agli Oscar. Takahata, conosciuto per essere un perfezionista, era però abituato ai flop di botteghino. Era successo già con “Una tomba per le lucciole”, dove oltre le perdite si guadagnò l’odio dei genitori che avevano visto i loro bambini scioccati per quel film. Anche questo film, nonostante il parere di adulti entusiasti, è adatto secondo me ai bambini di oggi: la storia è lenta, e sebbene le decisioni stilistiche di Takahata la facciano sembrare una favola, di fatto mi sa di veramente povero - poveri i fondali e brutto il character design, sebbene qualcheduno possa definirli (a torto) ricercati.
La storia è tratta da un classico della letteratura giapponese, “La storia del tagliatore di bambù”, dove un anziano tagliatore di bambù vede spuntare un bambù che contiene un essere vivente: la principessa che dà il nome al film. Cresce rapidamente questa fanciulla e si diverte in montagna con i ragazzi poveri della zona, che la chiamano ‘gemma di bambù’. Arrivati a un certo punto, il tagliatore trova dell’oro e si trasferisce in città, educandola come una nobildonna: quanta tristezza per lei che era abituata alla libertà questa nuova vita di obblighi! Suo padre adottivo la vuole dare in sposa a un nobile, e ben cinque si dichiarano, ma alla fine la “desiderano” perché sanno che è bella, ma non l’hanno mai vista né conosciuta.
Come in “Genji Monogatari”, le persone qui si innamorano per un nonnulla: infatti, non potendo vedere le ragazze prima del matrimonio o del momento dell’atto sessuale, possono solo immaginarsi che una dama sia bella perché ha una bella voce o suona bene uno strumento o ha una bella calligrafia... Questi cortigiani si dimostrano in buona fine parolai e falsi, ma non è migliore il mikado (l’imperatore di origine divina), il quale la brama come una proprietà e non una persona. Lei vuole evadere, ma diventa sempre più difficile, la fine è desolante: un Buddha, invece di darle la felicità riportandola a Sutemaru e ad una vita agreste, povera ma libera, la riporta sulla Luna, dandole l’oblio e facendola fuggire da un padre che lei ama, ma che non la capisce e la tratta anche lui con amore ma non con rispetto.
Ho trovato molto suggestive le musiche del sempre bravo Joe Hisaishi, ma non mi è piaciuto che le canzoni, cantate dai personaggi durante il film, non abbiano avuto i sottotitoli, in quanto ciò mi ha impedito di comprenderne l’impatto sugli stessi personaggi.
Credo inoltre che, per essere stato in lavorazione per otto anni, il risultato sia mediocre e che Takahata sia sopravvalutato, in quanto non riesce a darsi dei limiti di professionalità: il fatto di criticare in continuazione ciò che è fatto dagli altri infatti non sempre è indice di genio, ma a volte può essere un grave limite.
“A scuola mi chiesero cosa volessi diventare da grande, ed io risposi “felice”. Mi dissero che non avevo capito l’esercizio, ma io dissi loro che non avevano capito la vita.”
- John Lennon
“Che si sarebbe arrivati a questo, mai l’avrei potuto pensare. È colpa mia, e del falso che sono.”
Antefatto: è comune abitudine considerare la propria vita come un susseguirsi di banali consuetudini e noiosa routine - tranne, ovviamente, rari e sporadici casi. Spesso, invece, quando veniamo a conoscenza dei variegati accadimenti che costellano le esistenze di lontani sconosciuti o vicini conoscenti, finiamo spesso per pensare: “Pazzesco, che storia assurda” oppure “Se dovesse accadere a me, non so cosa farei, ma... tanto, non potrà mai succedermi”.
Curioso, perché, se potessimo osservarci da fuori esattamente come osserviamo chi ci circonda, scopriremmo che di codeste situazioni la nostra vita ne è sempre stata piena: forse non ai nostri occhi, ma sicuramente a quelli di chi ci conosce più o meno a fondo (percependoci in modo ben differente).
Ebbene, io credo che, fra tali situazioni, ve ne sia una decisamente sottovalutata: quella dell’illusione di vivere in una realtà che ci siamo convinti di ritenere ideale, agendo in funzione di chi ci circonda, andando così a trascurare i nostri personali desideri; è inevitabile che, presto o tardi, essi finiranno per ridestarsi, andando a invigorire la nostra insoddisfazione. Non possiamo artefare la realtà, fingendo di essere chi, intimamente, non siamo né potremmo mai essere. C’è qualcosa che, intimamente, ogni essere umano sa molto bene: possiamo mentire a chiunque, ma non a noi stessi. Non a lungo, non completamente, non davvero. Farlo eccessivamente significherebbe negarci serenità, onestà intellettuale e quindi felicità, perché, proprio come nel basilare pensiero di John Lennon, non è forse la felicità l’elemento più importante di ogni vita umana?
Ordunque, questo semplice ma incisivo ragionamento può benissimo racchiudere il significato più profondo de “La principessa splendente”. Elementare, spontaneo, fisiologico, complementare all’esistenza.
Due ore indimenticabili che mi hanno fatto pensare: “C’è dell’animazione, in questa poesia”.
Titoli di testa su carta anticata, vecchie pergamene color pastello granulato che rimembrano coriandoli di feste esotiche e sale grosso frantumato, profumo ancestrale di campagna dimenticata, angoli d’infanzia e raggi di sole che ci abbracciano come una madre dolce e protettiva.
Sin dalle prime battute possiamo assaporare essenze andate di tempi che furono, irresistibili esche che ci condurranno all’interno di una vera e propria magia animata.
Capiamo di essere di fronte a qualcosa di unico, coraggiosamente sperimentale nella sua superba intuizione artistica, fiabescamente semplice tanto quanto involontariamente iconico, un lungometraggio costantemente accompagnato da una colonna sonora orchestrale sontuosa, frizzante, movimentata, capace di trovare le note e gli strumenti pertinenti per ogni frangente raccontato, dai flauti allegri o tristi, i violini e i tamburi severi, l’orchestra intera a contemplare una meraviglia inaspettata.
Ciò che da subito colpisce è un concept minimale, talvolta semplici, indefiniti schizzi che permettono d’intuire ciò che accade, così come i fondali, spesso accennati - talvolta inesistenti - tranne quando risultano necessari e funzionali agli avvenimenti. Si ha davvero l’impressione di essere catapultati in una vecchia storia tramandata attorno al fuoco dei paesini di campagna dell’entroterra giapponese, una fabula dolce e malinconica di cui saremo astanti, tanto potente quanto commovente, una di quelle leggende che ci si sussurra di generazione in generazione, proiettata ai margini delle civiltà moderne, lontana dal traffico di metallo e petrolio, ancora intrisa di magia e di un raro misticismo così radioso da trascendere i secoli.
Attraverso il velo di alcune dolci, malinconiche note pizzicate si viene così introdotti alla vicenda ambientata in una locazione rurale, antichissima, di campi coltivati e natura selvaggia.
Un vecchio taglialegna intento a raccogliere fusti e tronchi, nel fitto del bosco, s’imbatte in un virgulto di bambù differente, sospetto, circondato d’un bagliore luminoso davvero strabiliante.
L’uomo gli si avvicina, curioso e intimorito, e il fusto prende a illuminarsi d’immenso, dando vita al più prezioso dei germogli: schiudendosi, palesa una minuscola bambina in vesti regali... alta non più di trenta centimetri! Non sembra una neonata vera e propria, bensì una principessina in miniatura, qualcosa di inspiegabilmente dolce e decisamente assurdo, simile a una bambolina animata. L’uomo, sebbene spaventato, raccoglie la minuscola creatura che immantinente crolla, addormentandosi nel palmo della sua mano, e la porta a casa, dalla moglie.
I primi minuti sono talmente surreali da volare via, rapendo lo spettatore e trasportandolo in un racconto di stregoneria e credenze popolari, come si fosse all’interno di un antico dipinto del periodo Muromachi, confuso e strabiliante, pacato ma ricercatissimo.
La principessina in miniatura diviene lesta neonata, senza preavviso, e la coppia di contadini ne rimane basita, ma non hanno alternative: saranno loro a prendersi cura della misteriosa orfanella! In fondo, non è una figlia ciò che hanno sempre desiderato?
I colori acquarellati, gli sfondi vaghi e incompleti, ogni elemento interrotto o semplicemente suggerito fanno da teatro a un miracolo sovrannaturale. Lo svezzamento si compie, ben più velocemente che nei tempi consueti, tanto da stupire i nuovi genitori. Il padre chiama la bimba “Hime”, ovvero Principessa, poiché non potrebbe essere altrimenti, e sarà proprio all’ombra delle grandi querce che torreggiano su crinali scoscesi, ricchi di grilli, cavallette e fitto grano, che Hime presto si farà i primi amici, una banda di ragazzini vivaci con i quali vivrà le prime, spensierate avventure.
Il tempo passa, gli anni scorrono, e diventa impossibile non notare il misterioso “dono” della principessina: la bimba sembra crescere molto più velocemente rispetto al consueto orologio biologico, tant’è che nel giro di qualche anno si ritrova già in fase pre-adolescenziale. A cosa è dovuto tutto questo? Quale disegno ha per lei il destino? Da dove viene esattamente?
I genitori adottivi si pongono spesso queste domande, ma mettono davanti a tutto la felicità della figlia. È questo il vero significato dell’amore, e sarebbe splendido se ovunque funzionasse in codesto modo. Ma non sempre amare significa comprendere, e l’amore può avere molte forme.
Così giunge l’età della spensieratezza, l’età dei ricordi più dolci e delle prime esperienze; le giornate di sole sembrano non finire mai, le estati memorabili tanto da riempire il cuore, ogni giorno una nuova avventura: molti di noi potrebbero ricordare la propria adolescenza in maniera similare. Gli amici di Hime però non sono soliti chiamarla tale, bensì Takenoko, ovvero “Bocciolo di bambù”, segno che, in qualche modo, il vicinato campagnolo conosce la sua singolare storia, almeno a grandi linee.
Ma Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.
Chi è, esattamente, Hime? Cosa vuole rappresentare e cosa significa la sua venuta?
Tanti sono i quesiti, e altrettante potrebbero essere le ipotesi, tuttavia, la più semplice, senza dubbio, è anche quella più preziosa: lei non è altro che la metafora della nostra esistenza. Sì, l’avatar della traccia delle nostre vite, tanto banali quanto uniche e inimitabili. Viene spontaneo rispecchiarsi nei momenti più dolci e toccanti, ancor più se nel cuore si custodiscono ricordi simili, a maggior ragione da tanto tempo.
A riprova di ciò, la prima parte del film risulta solida, intensa e commovente, a tratti ilare, gioviale, solare; ci mostra (anche) piccole gioie che solo chi è genitore può capire appieno, ricche di intensissimi sentimenti e meraviglie scoperte giorno dopo giorno: il miracolo della vita e di ciò che ne concerne.
L’opera è un ossimoro: narrata lentamente con ritmo eterogeneo, di norma blandissimo, brucia tuttavia le tappe esistenziali di una fiaba che, di fatto, il tempo lo trascende. Nella sua lentezza ritroviamo la poesia del tempo che fu, la cadenza di una riflessività e d’una saggezza di stampo prettamente orientale, il tutto amalgamato al ritmo compassato che scandisce ogni momento. Si affrontano tematiche importanti spesso in chiave metaforica, con l’espediente delle fasi della vita e del suo mutare in base alle esigenze familiari: cambiare dimora lasciandosi alle spalle la vita precedente e le proprie origini, il dualismo campagna-metropoli, lo stravolgimento della quotidianità da semplice contadina a nobile damigella.
Eh già, perché la vita di Hime sarà sconvolta da un colpo di scena inaspettato che la porterà a cambiare totalmente stile di vita, abbandonando a malincuore i luoghi e le persone che le hanno permesso di identificarsi in quanto tale. Cogito, ergo sum, anche e soprattutto per merito di chi abbiamo accanto.
Inevitabilmente, lo sfarzo e la vita di città muteranno radicalmente le cose.
La parte centrale del racconto è la più lenta, ma non annoia mai; trasuda tradizione nipponica imperiale, antiche sfumature nobiliari, abitudini millenarie intrecciate al fascino degli antichi angoli di palazzi curati e preziosi, circondati da caratteristici giardini e laghetti ricchi di pesci, flebili lanterne e lunghe passeggiate al tramonto. Merito di una colonna sonora magica, minimale in alcuni tratti, estremamente toccante in altri, pertinente e coinvolgente, ogni frangente risulta piacevole, pagine insostituibili di un racconto che si completa minuto dopo minuto.
Tuttavia, come s’era già inteso, le cose per la nostra giovane protagonista non saranno affatto né semplici né spensierate, e le difficoltà cominceranno a spuntare una dopo l’altra. Le animazioni, nei momenti critici, come per necessità, muteranno in veri e propri schizzi dinamici capaci di stordire e lasciare a bocca aperta lo spettatore, inaspettatamente sconvolgenti, aggressivamente profondi, scuri, quasi spaventosi, freghi violenti, carichi d’ira e dolore in contrasto al tratto gentile che fino a quel punto aveva rappresentato l’opera.
Hime continua ad intonare quella canzone. La conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.
Possiamo tranquillamente asserire che “La principessa splendente” è una grande, profondissima, commovente metafora della vita.
La parte finale è forse la più bella: fra sogno e realtà, la vicenda si avvia verso una conclusione quasi straziante nella sua triste dolcezza, scivolando in qualcosa di simbolicamente onirico, trascendendo la logica terrena e rivelando completamente quel lato sovrannaturale appena accennato per tutta la storia; gli autori riescono nella difficile impresa di valicare i confini di un misticismo mitologico, affascinante, tuttavia quieto e ineluttabile.
E se “La principessa splendente” è davvero la metafora della vita di ognuno di noi, è inevitabile rimembrare che è proprio la vita la più dura delle insegnanti: Oscar Wilde diceva che essa è terribile, poiché prima ti fa l’esame, poi ti insegna la lezione.
Niente di più calzante: l’epilogo colpisce piano, ma inesorabile affonda la lama dell’emotività nel cuore dello spettatore. Attraverso il filtro delle similitudini, si possono cogliere aspetti duri e dolorosi della vita stessa (l’accettazione dell’addio è forse la più atroce che ci verrà messa di fronte).
Il saper guardare oltre, il distacco dal focolare e il “guardare avanti”, lasciando la mano di chi ci ha cresciuto: tutte esperienze che sono state o saranno pressoché inevitabili per ognuno di noi, che ci hanno segnati (o ci segneranno) per sempre, ma che potremo accettare solo e soltanto quando riusciremo a metabolizzare totalmente la bellezza e la crudeltà di questa nostra esistenza, splendente e spietata nella sua mutevole interezza.
“Questo mondo è crudele, ma è qui che sono nato ed è qui che voglio vivere, anche per le persone a cui voglio bene”, recitava Eren Yaeger ne “L’attacco dei giganti”: strano citarlo ora, ma altrettanto pertinente, poiché, se la vita è questo dannato percorso irto di difficoltà, sta a noi cogliere, passo dopo passo, ogni attimo di meritata, giusta felicità, e fare di tutto per far sì che questa perduri.
Come accennato poc’anzi, il finale è incredibilmente intenso.
Scivola via fra le dita come sabbia fine, rischia di riempire gli occhi di lacrime, il cuore di malinconia e la testa di pensieri affollati, tanto tristi quanto lieti. La morale, potentissima e sincera, raggiunge il centro del nostro io: mentire a noi stessi credendo di fare la cosa “giusta” non ci renderà mai felici. Solo ascoltando sinceramente e onestamente i nostri desideri, al di là di etichette, formalità e doveri, potremo sperare di trovare la vera felicità, perché prevaricando il nostro bisogno di libertà e appartenenza faremmo solo un grande torto a noi stessi. Saper accettare i cambiamenti della vita non è mai facile, ma avere il coraggio di rispettarci e capire chi siamo e cosa desideriamo davvero, quello sì che è davvero complicato. E il bello di questo lungometraggio è proprio il modo in cui riesce a ricordarci che in ognuno di noi risiedono tristezza, gioia, rabbia, allegria, un’intera gamma di sentimenti, amalgama inesplicabile e meraviglioso del nostro essere che dona colore alle nostre giornate: diamo la giusta importanza ad ognuna di queste sfumature e, forse, potremo davvero trovare la serenità. Proviamo a valorizzare ogni attimo che passiamo assieme ai nostri cari, perché sono momenti che non torneranno mai più.
Così, come ben sappiamo, che, un giorno, tutto avrà fine.
La piccola Hime, col suo fare spensierato e ribelle, si permette di rammentarci che, nel bene e nel male, lasciandoci alle spalle lacrime e sorrisi, è sempre meglio esserci stati, gioendo e soffrendo, che non esserci stati affatto.
Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava.
Parole di una notte al chiaro di luna.
E la Luna, che quelle parole le ha ascoltate per tutto questo tempo, presto risponderà.
Mai e poi mai avrei immaginato che uno dei migliori film dello Studio Ghibli fosse quello più atipico, meno classico, tanto incantevole da andare oltre i canoni consueti e conosciuti: una grande, profondissima riflessione sulla vita e su ciò che diamo per scontato ogni giorno, fin quando non giunge il cambiamento, e il presente diviene passato.
Un vero e proprio capolavoro, poesia animata che non potete né dovete perdervi.
- John Lennon
“Che si sarebbe arrivati a questo, mai l’avrei potuto pensare. È colpa mia, e del falso che sono.”
Antefatto: è comune abitudine considerare la propria vita come un susseguirsi di banali consuetudini e noiosa routine - tranne, ovviamente, rari e sporadici casi. Spesso, invece, quando veniamo a conoscenza dei variegati accadimenti che costellano le esistenze di lontani sconosciuti o vicini conoscenti, finiamo spesso per pensare: “Pazzesco, che storia assurda” oppure “Se dovesse accadere a me, non so cosa farei, ma... tanto, non potrà mai succedermi”.
Curioso, perché, se potessimo osservarci da fuori esattamente come osserviamo chi ci circonda, scopriremmo che di codeste situazioni la nostra vita ne è sempre stata piena: forse non ai nostri occhi, ma sicuramente a quelli di chi ci conosce più o meno a fondo (percependoci in modo ben differente).
Ebbene, io credo che, fra tali situazioni, ve ne sia una decisamente sottovalutata: quella dell’illusione di vivere in una realtà che ci siamo convinti di ritenere ideale, agendo in funzione di chi ci circonda, andando così a trascurare i nostri personali desideri; è inevitabile che, presto o tardi, essi finiranno per ridestarsi, andando a invigorire la nostra insoddisfazione. Non possiamo artefare la realtà, fingendo di essere chi, intimamente, non siamo né potremmo mai essere. C’è qualcosa che, intimamente, ogni essere umano sa molto bene: possiamo mentire a chiunque, ma non a noi stessi. Non a lungo, non completamente, non davvero. Farlo eccessivamente significherebbe negarci serenità, onestà intellettuale e quindi felicità, perché, proprio come nel basilare pensiero di John Lennon, non è forse la felicità l’elemento più importante di ogni vita umana?
Ordunque, questo semplice ma incisivo ragionamento può benissimo racchiudere il significato più profondo de “La principessa splendente”. Elementare, spontaneo, fisiologico, complementare all’esistenza.
Due ore indimenticabili che mi hanno fatto pensare: “C’è dell’animazione, in questa poesia”.
Titoli di testa su carta anticata, vecchie pergamene color pastello granulato che rimembrano coriandoli di feste esotiche e sale grosso frantumato, profumo ancestrale di campagna dimenticata, angoli d’infanzia e raggi di sole che ci abbracciano come una madre dolce e protettiva.
Sin dalle prime battute possiamo assaporare essenze andate di tempi che furono, irresistibili esche che ci condurranno all’interno di una vera e propria magia animata.
Capiamo di essere di fronte a qualcosa di unico, coraggiosamente sperimentale nella sua superba intuizione artistica, fiabescamente semplice tanto quanto involontariamente iconico, un lungometraggio costantemente accompagnato da una colonna sonora orchestrale sontuosa, frizzante, movimentata, capace di trovare le note e gli strumenti pertinenti per ogni frangente raccontato, dai flauti allegri o tristi, i violini e i tamburi severi, l’orchestra intera a contemplare una meraviglia inaspettata.
Ciò che da subito colpisce è un concept minimale, talvolta semplici, indefiniti schizzi che permettono d’intuire ciò che accade, così come i fondali, spesso accennati - talvolta inesistenti - tranne quando risultano necessari e funzionali agli avvenimenti. Si ha davvero l’impressione di essere catapultati in una vecchia storia tramandata attorno al fuoco dei paesini di campagna dell’entroterra giapponese, una fabula dolce e malinconica di cui saremo astanti, tanto potente quanto commovente, una di quelle leggende che ci si sussurra di generazione in generazione, proiettata ai margini delle civiltà moderne, lontana dal traffico di metallo e petrolio, ancora intrisa di magia e di un raro misticismo così radioso da trascendere i secoli.
Attraverso il velo di alcune dolci, malinconiche note pizzicate si viene così introdotti alla vicenda ambientata in una locazione rurale, antichissima, di campi coltivati e natura selvaggia.
Un vecchio taglialegna intento a raccogliere fusti e tronchi, nel fitto del bosco, s’imbatte in un virgulto di bambù differente, sospetto, circondato d’un bagliore luminoso davvero strabiliante.
L’uomo gli si avvicina, curioso e intimorito, e il fusto prende a illuminarsi d’immenso, dando vita al più prezioso dei germogli: schiudendosi, palesa una minuscola bambina in vesti regali... alta non più di trenta centimetri! Non sembra una neonata vera e propria, bensì una principessina in miniatura, qualcosa di inspiegabilmente dolce e decisamente assurdo, simile a una bambolina animata. L’uomo, sebbene spaventato, raccoglie la minuscola creatura che immantinente crolla, addormentandosi nel palmo della sua mano, e la porta a casa, dalla moglie.
I primi minuti sono talmente surreali da volare via, rapendo lo spettatore e trasportandolo in un racconto di stregoneria e credenze popolari, come si fosse all’interno di un antico dipinto del periodo Muromachi, confuso e strabiliante, pacato ma ricercatissimo.
La principessina in miniatura diviene lesta neonata, senza preavviso, e la coppia di contadini ne rimane basita, ma non hanno alternative: saranno loro a prendersi cura della misteriosa orfanella! In fondo, non è una figlia ciò che hanno sempre desiderato?
I colori acquarellati, gli sfondi vaghi e incompleti, ogni elemento interrotto o semplicemente suggerito fanno da teatro a un miracolo sovrannaturale. Lo svezzamento si compie, ben più velocemente che nei tempi consueti, tanto da stupire i nuovi genitori. Il padre chiama la bimba “Hime”, ovvero Principessa, poiché non potrebbe essere altrimenti, e sarà proprio all’ombra delle grandi querce che torreggiano su crinali scoscesi, ricchi di grilli, cavallette e fitto grano, che Hime presto si farà i primi amici, una banda di ragazzini vivaci con i quali vivrà le prime, spensierate avventure.
Il tempo passa, gli anni scorrono, e diventa impossibile non notare il misterioso “dono” della principessina: la bimba sembra crescere molto più velocemente rispetto al consueto orologio biologico, tant’è che nel giro di qualche anno si ritrova già in fase pre-adolescenziale. A cosa è dovuto tutto questo? Quale disegno ha per lei il destino? Da dove viene esattamente?
I genitori adottivi si pongono spesso queste domande, ma mettono davanti a tutto la felicità della figlia. È questo il vero significato dell’amore, e sarebbe splendido se ovunque funzionasse in codesto modo. Ma non sempre amare significa comprendere, e l’amore può avere molte forme.
Così giunge l’età della spensieratezza, l’età dei ricordi più dolci e delle prime esperienze; le giornate di sole sembrano non finire mai, le estati memorabili tanto da riempire il cuore, ogni giorno una nuova avventura: molti di noi potrebbero ricordare la propria adolescenza in maniera similare. Gli amici di Hime però non sono soliti chiamarla tale, bensì Takenoko, ovvero “Bocciolo di bambù”, segno che, in qualche modo, il vicinato campagnolo conosce la sua singolare storia, almeno a grandi linee.
Ma Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.
Chi è, esattamente, Hime? Cosa vuole rappresentare e cosa significa la sua venuta?
Tanti sono i quesiti, e altrettante potrebbero essere le ipotesi, tuttavia, la più semplice, senza dubbio, è anche quella più preziosa: lei non è altro che la metafora della nostra esistenza. Sì, l’avatar della traccia delle nostre vite, tanto banali quanto uniche e inimitabili. Viene spontaneo rispecchiarsi nei momenti più dolci e toccanti, ancor più se nel cuore si custodiscono ricordi simili, a maggior ragione da tanto tempo.
A riprova di ciò, la prima parte del film risulta solida, intensa e commovente, a tratti ilare, gioviale, solare; ci mostra (anche) piccole gioie che solo chi è genitore può capire appieno, ricche di intensissimi sentimenti e meraviglie scoperte giorno dopo giorno: il miracolo della vita e di ciò che ne concerne.
L’opera è un ossimoro: narrata lentamente con ritmo eterogeneo, di norma blandissimo, brucia tuttavia le tappe esistenziali di una fiaba che, di fatto, il tempo lo trascende. Nella sua lentezza ritroviamo la poesia del tempo che fu, la cadenza di una riflessività e d’una saggezza di stampo prettamente orientale, il tutto amalgamato al ritmo compassato che scandisce ogni momento. Si affrontano tematiche importanti spesso in chiave metaforica, con l’espediente delle fasi della vita e del suo mutare in base alle esigenze familiari: cambiare dimora lasciandosi alle spalle la vita precedente e le proprie origini, il dualismo campagna-metropoli, lo stravolgimento della quotidianità da semplice contadina a nobile damigella.
Eh già, perché la vita di Hime sarà sconvolta da un colpo di scena inaspettato che la porterà a cambiare totalmente stile di vita, abbandonando a malincuore i luoghi e le persone che le hanno permesso di identificarsi in quanto tale. Cogito, ergo sum, anche e soprattutto per merito di chi abbiamo accanto.
Inevitabilmente, lo sfarzo e la vita di città muteranno radicalmente le cose.
La parte centrale del racconto è la più lenta, ma non annoia mai; trasuda tradizione nipponica imperiale, antiche sfumature nobiliari, abitudini millenarie intrecciate al fascino degli antichi angoli di palazzi curati e preziosi, circondati da caratteristici giardini e laghetti ricchi di pesci, flebili lanterne e lunghe passeggiate al tramonto. Merito di una colonna sonora magica, minimale in alcuni tratti, estremamente toccante in altri, pertinente e coinvolgente, ogni frangente risulta piacevole, pagine insostituibili di un racconto che si completa minuto dopo minuto.
Tuttavia, come s’era già inteso, le cose per la nostra giovane protagonista non saranno affatto né semplici né spensierate, e le difficoltà cominceranno a spuntare una dopo l’altra. Le animazioni, nei momenti critici, come per necessità, muteranno in veri e propri schizzi dinamici capaci di stordire e lasciare a bocca aperta lo spettatore, inaspettatamente sconvolgenti, aggressivamente profondi, scuri, quasi spaventosi, freghi violenti, carichi d’ira e dolore in contrasto al tratto gentile che fino a quel punto aveva rappresentato l’opera.
Hime continua ad intonare quella canzone. La conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.
Possiamo tranquillamente asserire che “La principessa splendente” è una grande, profondissima, commovente metafora della vita.
La parte finale è forse la più bella: fra sogno e realtà, la vicenda si avvia verso una conclusione quasi straziante nella sua triste dolcezza, scivolando in qualcosa di simbolicamente onirico, trascendendo la logica terrena e rivelando completamente quel lato sovrannaturale appena accennato per tutta la storia; gli autori riescono nella difficile impresa di valicare i confini di un misticismo mitologico, affascinante, tuttavia quieto e ineluttabile.
E se “La principessa splendente” è davvero la metafora della vita di ognuno di noi, è inevitabile rimembrare che è proprio la vita la più dura delle insegnanti: Oscar Wilde diceva che essa è terribile, poiché prima ti fa l’esame, poi ti insegna la lezione.
Niente di più calzante: l’epilogo colpisce piano, ma inesorabile affonda la lama dell’emotività nel cuore dello spettatore. Attraverso il filtro delle similitudini, si possono cogliere aspetti duri e dolorosi della vita stessa (l’accettazione dell’addio è forse la più atroce che ci verrà messa di fronte).
Il saper guardare oltre, il distacco dal focolare e il “guardare avanti”, lasciando la mano di chi ci ha cresciuto: tutte esperienze che sono state o saranno pressoché inevitabili per ognuno di noi, che ci hanno segnati (o ci segneranno) per sempre, ma che potremo accettare solo e soltanto quando riusciremo a metabolizzare totalmente la bellezza e la crudeltà di questa nostra esistenza, splendente e spietata nella sua mutevole interezza.
“Questo mondo è crudele, ma è qui che sono nato ed è qui che voglio vivere, anche per le persone a cui voglio bene”, recitava Eren Yaeger ne “L’attacco dei giganti”: strano citarlo ora, ma altrettanto pertinente, poiché, se la vita è questo dannato percorso irto di difficoltà, sta a noi cogliere, passo dopo passo, ogni attimo di meritata, giusta felicità, e fare di tutto per far sì che questa perduri.
Come accennato poc’anzi, il finale è incredibilmente intenso.
Scivola via fra le dita come sabbia fine, rischia di riempire gli occhi di lacrime, il cuore di malinconia e la testa di pensieri affollati, tanto tristi quanto lieti. La morale, potentissima e sincera, raggiunge il centro del nostro io: mentire a noi stessi credendo di fare la cosa “giusta” non ci renderà mai felici. Solo ascoltando sinceramente e onestamente i nostri desideri, al di là di etichette, formalità e doveri, potremo sperare di trovare la vera felicità, perché prevaricando il nostro bisogno di libertà e appartenenza faremmo solo un grande torto a noi stessi. Saper accettare i cambiamenti della vita non è mai facile, ma avere il coraggio di rispettarci e capire chi siamo e cosa desideriamo davvero, quello sì che è davvero complicato. E il bello di questo lungometraggio è proprio il modo in cui riesce a ricordarci che in ognuno di noi risiedono tristezza, gioia, rabbia, allegria, un’intera gamma di sentimenti, amalgama inesplicabile e meraviglioso del nostro essere che dona colore alle nostre giornate: diamo la giusta importanza ad ognuna di queste sfumature e, forse, potremo davvero trovare la serenità. Proviamo a valorizzare ogni attimo che passiamo assieme ai nostri cari, perché sono momenti che non torneranno mai più.
Così, come ben sappiamo, che, un giorno, tutto avrà fine.
La piccola Hime, col suo fare spensierato e ribelle, si permette di rammentarci che, nel bene e nel male, lasciandoci alle spalle lacrime e sorrisi, è sempre meglio esserci stati, gioendo e soffrendo, che non esserci stati affatto.
Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava.
Parole di una notte al chiaro di luna.
E la Luna, che quelle parole le ha ascoltate per tutto questo tempo, presto risponderà.
Mai e poi mai avrei immaginato che uno dei migliori film dello Studio Ghibli fosse quello più atipico, meno classico, tanto incantevole da andare oltre i canoni consueti e conosciuti: una grande, profondissima riflessione sulla vita e su ciò che diamo per scontato ogni giorno, fin quando non giunge il cambiamento, e il presente diviene passato.
Un vero e proprio capolavoro, poesia animata che non potete né dovete perdervi.
Attenzione: la recensione contiene spoiler
Sapete, spesso si dice che le certezze della vita siano poche, alcuni addirittura asseriscono che ve ne sia una sola, la morte. Ebbene, a queste persone dico che si sbagliano, perché probabilmente non hanno mai avuto il piacere di conoscere lo Studio Ghibli (poveri loro!). Da quando ho iniziato a guardare anime, mai sono rimasto deluso dopo la visione di un Ghibli. Ogni film è riuscito nell’intento di destare la mia attenzione e curiosità per qualche motivo o particolare, e lo stesso è accaduto per “La storia della principessa splendente”, l’ultimo grande sforzo di Isao Takahata, icona dell’animazione giapponese, che ha lavorato a capolavori conosciuti in tutto il mondo come “Heidi” e “Conan, il ragazzo del futuro”.
Se film come “La città incantata” e “Il castello errante di Howl” mi hanno colpito per la loro storia sospesa tra il fiabesco e il reale, in grado di rapirmi sin dalle prime battute, “La storia della principessa splendente” mi ha colpito sin da subito per lo stile e le musiche. Uomo di altri tempi, Takahata decide di puntare su uno stile all’antica, tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, che nella maggior parte dei casi si tingono di colori vivaci, come quelli della campagna o dei vestiti di Principessa. Il tutto contribuisce a creare degli effetti speciali di rara fattura, che raggiungono l’apice nelle scene di esplosività dinamica, come quella della fuga di Principessa da palazzo. A questo stile spettacolare, si affianca un comparto musicale sublime, che beneficia della presenza di un mostro sacro come Joe Hisaishi. Non stupisce, dunque, che alcune delle musiche mi abbiano ricordato “La città incantata”. Sonorità dolci, mai stonate e sempre adeguate alle scene proposte, insomma, goduria visiva e uditiva totali.
Però, anche i grandi capolavori hanno qualche punto debole o, se preferite, meno forte. In questo caso, stranamente, è la storia. In un piccolo villaggio di campagna vive una felice coppia di anziani. Un giorno, mentre il marito taglia tronchi di bambù nella foresta, ne vede uno che emana una strana luce. Si avvicina e lo taglia: al suo interno, c’è quella che a primo acchito sembrerebbe essere una bambola, ma che in realtà si scoprirà essere una neonata. I due anziani decidono di accoglierla nella propria dimora e di crescerla come se fosse la loro figlia. Ecco, dunque, che la bambina inizia a crescere, giocando in compagnia dei suoi amici. Essendo stata chiamata Principessa, però, il padre pensa che la vita di campagna non si addica a lei, quindi, con le pepite d’oro trovate dentro lo stesso luminoso tronco di bambù, fa costruire nella capitale una corte immensa dove, un giorno neanche troppo lontano, la figlia sarebbe andata a vivere e sarebbe stata trattata come una vera e propria principessa.
È pensiero comune, che la storia risulti lenta e compassata, ma non si può negare il fatto che affronti temi interessanti e senza tempo, seppur triti e ritriti, come quello della felicità. La ragazza, cresciuta nella semplicità della vita di campagna che i due vecchi le hanno potuto offrire, non ha mai mostrato segni di sofferenza, e la presenza di ragazzi della sua età le ha fatto amare ancora di più quella dimora semplice, ma che perfettamente si addiceva al suo modo di essere. Inoltre, come accade nelle belle storie, i genitori le hanno donato tutto il loro amore incondizionato. Eppure, sappiamo bene che spesso per amore si commettono degli errori fatali. La decisione dell’anziano padre di portare Principessa nella capitale le cambierà radicalmente la vita, e in peggio. Dalla semplicità della casa di campagna si passa alla sfarzosità della vita di corte. Finisce il tempo delle corse in lungo e in largo per i boschi in compagnia degli amici e arriva il momento di vestire e assumere l’atteggiamento di una donna di alto rango che, presto o tardi, dovrà contrarre matrimonio con un uomo dell’alta nobiltà. Un padre, per la propria figlia, non potrebbe ambire a nulla di meglio, difatti l’anziano uomo sprizza felicità da tutti i pori. Eppure, come abbiamo sentito dire parecchie volte, non è tutto oro quel che luccica. Principessa, per rendere felice il padre, cerca di adattarsi alla vita di corte, nonostante lo sforzo che richiede un cambiamento del genere, ma si snatura del tutto e della fanciulla felice e sorridente che scorrazzava per la campagna non resta più nulla. Quindi, è proprio vero che la felicità spesso la si trova nelle piccole cose della nostra quotidianità, ma, forse, è ancora più vero che, in preda all’ira, siamo portati a prendere decisioni avventate, come nel caso di Principessa, che alla fine, su sua richiesta, abbandonerà il nostro piccolo mondo per tornare sulla Luna, dove, dopo aver perso la memoria, non avrà più nessun ricordo dei bei momenti passati sulla Terra e del sogno che aveva fatto...
[...] Così la donna cannone, quell′enorme mistero volò,
E tutta sola verso un cielo nero s′incamminò.
Tutti chiusero gli occhi nell'attimo esatto in cui sparì,
Altri giurarono e spergiurarono che non erano mai stati lì. [...]
Sapete, spesso si dice che le certezze della vita siano poche, alcuni addirittura asseriscono che ve ne sia una sola, la morte. Ebbene, a queste persone dico che si sbagliano, perché probabilmente non hanno mai avuto il piacere di conoscere lo Studio Ghibli (poveri loro!). Da quando ho iniziato a guardare anime, mai sono rimasto deluso dopo la visione di un Ghibli. Ogni film è riuscito nell’intento di destare la mia attenzione e curiosità per qualche motivo o particolare, e lo stesso è accaduto per “La storia della principessa splendente”, l’ultimo grande sforzo di Isao Takahata, icona dell’animazione giapponese, che ha lavorato a capolavori conosciuti in tutto il mondo come “Heidi” e “Conan, il ragazzo del futuro”.
Se film come “La città incantata” e “Il castello errante di Howl” mi hanno colpito per la loro storia sospesa tra il fiabesco e il reale, in grado di rapirmi sin dalle prime battute, “La storia della principessa splendente” mi ha colpito sin da subito per lo stile e le musiche. Uomo di altri tempi, Takahata decide di puntare su uno stile all’antica, tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, che nella maggior parte dei casi si tingono di colori vivaci, come quelli della campagna o dei vestiti di Principessa. Il tutto contribuisce a creare degli effetti speciali di rara fattura, che raggiungono l’apice nelle scene di esplosività dinamica, come quella della fuga di Principessa da palazzo. A questo stile spettacolare, si affianca un comparto musicale sublime, che beneficia della presenza di un mostro sacro come Joe Hisaishi. Non stupisce, dunque, che alcune delle musiche mi abbiano ricordato “La città incantata”. Sonorità dolci, mai stonate e sempre adeguate alle scene proposte, insomma, goduria visiva e uditiva totali.
Però, anche i grandi capolavori hanno qualche punto debole o, se preferite, meno forte. In questo caso, stranamente, è la storia. In un piccolo villaggio di campagna vive una felice coppia di anziani. Un giorno, mentre il marito taglia tronchi di bambù nella foresta, ne vede uno che emana una strana luce. Si avvicina e lo taglia: al suo interno, c’è quella che a primo acchito sembrerebbe essere una bambola, ma che in realtà si scoprirà essere una neonata. I due anziani decidono di accoglierla nella propria dimora e di crescerla come se fosse la loro figlia. Ecco, dunque, che la bambina inizia a crescere, giocando in compagnia dei suoi amici. Essendo stata chiamata Principessa, però, il padre pensa che la vita di campagna non si addica a lei, quindi, con le pepite d’oro trovate dentro lo stesso luminoso tronco di bambù, fa costruire nella capitale una corte immensa dove, un giorno neanche troppo lontano, la figlia sarebbe andata a vivere e sarebbe stata trattata come una vera e propria principessa.
È pensiero comune, che la storia risulti lenta e compassata, ma non si può negare il fatto che affronti temi interessanti e senza tempo, seppur triti e ritriti, come quello della felicità. La ragazza, cresciuta nella semplicità della vita di campagna che i due vecchi le hanno potuto offrire, non ha mai mostrato segni di sofferenza, e la presenza di ragazzi della sua età le ha fatto amare ancora di più quella dimora semplice, ma che perfettamente si addiceva al suo modo di essere. Inoltre, come accade nelle belle storie, i genitori le hanno donato tutto il loro amore incondizionato. Eppure, sappiamo bene che spesso per amore si commettono degli errori fatali. La decisione dell’anziano padre di portare Principessa nella capitale le cambierà radicalmente la vita, e in peggio. Dalla semplicità della casa di campagna si passa alla sfarzosità della vita di corte. Finisce il tempo delle corse in lungo e in largo per i boschi in compagnia degli amici e arriva il momento di vestire e assumere l’atteggiamento di una donna di alto rango che, presto o tardi, dovrà contrarre matrimonio con un uomo dell’alta nobiltà. Un padre, per la propria figlia, non potrebbe ambire a nulla di meglio, difatti l’anziano uomo sprizza felicità da tutti i pori. Eppure, come abbiamo sentito dire parecchie volte, non è tutto oro quel che luccica. Principessa, per rendere felice il padre, cerca di adattarsi alla vita di corte, nonostante lo sforzo che richiede un cambiamento del genere, ma si snatura del tutto e della fanciulla felice e sorridente che scorrazzava per la campagna non resta più nulla. Quindi, è proprio vero che la felicità spesso la si trova nelle piccole cose della nostra quotidianità, ma, forse, è ancora più vero che, in preda all’ira, siamo portati a prendere decisioni avventate, come nel caso di Principessa, che alla fine, su sua richiesta, abbandonerà il nostro piccolo mondo per tornare sulla Luna, dove, dopo aver perso la memoria, non avrà più nessun ricordo dei bei momenti passati sulla Terra e del sogno che aveva fatto...
[...] Così la donna cannone, quell′enorme mistero volò,
E tutta sola verso un cielo nero s′incamminò.
Tutti chiusero gli occhi nell'attimo esatto in cui sparì,
Altri giurarono e spergiurarono che non erano mai stati lì. [...]
"La storia della Principessa Splendente" è un film che se possibile va oltre lo straordinario, per quanto mi riguarda è forse il miglior film marchiato Ghibli in assoluto, e molto probabilmente il più bel titolo cinematografico che io abbia mai visto ad oggi. Come realizzare un film che trasuda Giappone da ogni minimo dettaglio, ma riuscire a renderlo ugualmente universale: questa è la manifestazione definitiva del genio di Isao Takahata.
Dal punto di vista grafico si tratta di animazione disegnata a mano e colorata digitalmente, dando l'impressione di un pastello sia nei lineamenti dei personaggi che nelle loro tinte. La produzione di questo film è difatti costata un'enormità di denaro, il che forse spiega uno dei motivi per cui una grandissima fetta di animazione odierna è ormai costituita dai pupazzetti tridimensionali in computer grafica. Con la tecnologia del resto è tutto più semplice e meno dispendioso, ma a vederla così si rischia anche di rendere tutto molto più spersonalizzato e anonimo, è la morte dello stile. Ragion per cui questo film è invece vita all'ennesima potenza. Alcune delle scene più movimentate sono volutamente grezze, sporche e rapide, a tratti in un modo che ricorda un po' lo Yoshihiro Togashi degli ultimi capitoli di "Yu degli Spettri". In qualche caso le animazioni appaiono in puro stile stop motion.
Le musiche di Joe Hisashi si rivelano altrettanto geniali in questo contesto, all'occorrenza cupe e malinconiche, vivaci e luminose, con sprazzi di tensione, o tappeti sonori meditativi. È una colonna sonora dove gli stati d'animo espressi lungo il film sono tradotti nel minimo dettaglio.
Kaguya è uno di quei personaggi al quale non sarà mai possibile rendere giustizia con le parole. Una principessa che vive di conflitti devastanti e di sensi di colpa. Il personaggio subisce una frammentazione del proprio io: la prigione di un mondo dove sei obbligato a essere quello che non sei, e la perdita di fiducia in te stesso. Molte scene contengono pochi dialoghi, perché non ne servono di più: quel che accade nel mondo interiore di Kaguya si coglie spesso senza che venga spiegato verbalmente. Sembra una donna proveniente dalla dolce innocenza di un mondo matriarcale, calata all'interno di un patriarcato feroce. Del resto la luna, che è pressoché onnipresente all'interno del film, è un simbolo femminile. Ma in più, la luna rappresenta il distacco dalle passioni terrene, causa di tormento e sofferenza, ma delle quali la vita sulla Terra non può fare a meno.
Di azione ce n'è pochissima in "Kaguya-hime no Monogatari", ma il dispiegarsi della vicenda è talmente tagliente che non se ne sente per nulla la mancanza.
Guardare questo film non è facile per me, perché è uno di quelli che mi ha provato di più emotivamente, ma lo considero a tutti gli effetti un momento di apice assoluto nella storia del cinema.
Dal punto di vista grafico si tratta di animazione disegnata a mano e colorata digitalmente, dando l'impressione di un pastello sia nei lineamenti dei personaggi che nelle loro tinte. La produzione di questo film è difatti costata un'enormità di denaro, il che forse spiega uno dei motivi per cui una grandissima fetta di animazione odierna è ormai costituita dai pupazzetti tridimensionali in computer grafica. Con la tecnologia del resto è tutto più semplice e meno dispendioso, ma a vederla così si rischia anche di rendere tutto molto più spersonalizzato e anonimo, è la morte dello stile. Ragion per cui questo film è invece vita all'ennesima potenza. Alcune delle scene più movimentate sono volutamente grezze, sporche e rapide, a tratti in un modo che ricorda un po' lo Yoshihiro Togashi degli ultimi capitoli di "Yu degli Spettri". In qualche caso le animazioni appaiono in puro stile stop motion.
Le musiche di Joe Hisashi si rivelano altrettanto geniali in questo contesto, all'occorrenza cupe e malinconiche, vivaci e luminose, con sprazzi di tensione, o tappeti sonori meditativi. È una colonna sonora dove gli stati d'animo espressi lungo il film sono tradotti nel minimo dettaglio.
Kaguya è uno di quei personaggi al quale non sarà mai possibile rendere giustizia con le parole. Una principessa che vive di conflitti devastanti e di sensi di colpa. Il personaggio subisce una frammentazione del proprio io: la prigione di un mondo dove sei obbligato a essere quello che non sei, e la perdita di fiducia in te stesso. Molte scene contengono pochi dialoghi, perché non ne servono di più: quel che accade nel mondo interiore di Kaguya si coglie spesso senza che venga spiegato verbalmente. Sembra una donna proveniente dalla dolce innocenza di un mondo matriarcale, calata all'interno di un patriarcato feroce. Del resto la luna, che è pressoché onnipresente all'interno del film, è un simbolo femminile. Ma in più, la luna rappresenta il distacco dalle passioni terrene, causa di tormento e sofferenza, ma delle quali la vita sulla Terra non può fare a meno.
Di azione ce n'è pochissima in "Kaguya-hime no Monogatari", ma il dispiegarsi della vicenda è talmente tagliente che non se ne sente per nulla la mancanza.
Guardare questo film non è facile per me, perché è uno di quelli che mi ha provato di più emotivamente, ma lo considero a tutti gli effetti un momento di apice assoluto nella storia del cinema.
Il sublime canto del cigno di Isao Takahata
Isao Takahata, storico co-fondatore dello Studio Ghibli, è stato un leggendario perfezionista che ha rinnovato il linguaggio animato sin dalla sua prima regia cinematografica, nel lontano 1968, con “La grande avventura del principe Valiant”, opera visionaria e pionieristica divenuta un cult per gli anime fan e un punto di riferimento per le nuove generazioni di animatori, ma fu impresa totalmente fallimentare dal punto di vista commerciale. Il suo meraviglioso e straziante ultimo film, “La storia della Principessa Splendente” (“Kaguya-hime no Monogatari”), in un certo senso chiude quel ciclo e per molti versi rappresenta l’ennesima sfida ai colossi del cinema da box office e all’animazione standardizzata.
Costato oltre 35 milioni di dollari per otto anni di produzione, il film incassa al botteghino molto meno di quanto investito, ma ne esce in qualche modo a testa alta, unendo critica e pubblico di appassionati in un coro unanime di consensi, e riuscendo anche ad ottenere una piccola ma simbolica vittoria con la nomination agli Oscar per il miglior film d'animazione (battuto in finale dal mediocre “Big Hero 6”). Viene presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes del 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. In Italia viene proiettato in anteprima nazionale al Lucca Comics & Games del 2014 e distribuito nelle sale cinematografiche da Lucky Red.
Liberamente tratto dal racconto popolare del X secolo “Storia di un tagliabambù” - “Taketori Monogatari” (che già aveva ispirato il cinema live con “La Principessa della luna”, 1987, di Kon Ichikawa), “La storia della Principessa Splendente” è una delle opere più personali di Takahata, un vero e proprio atto d'amore per il cinema e per l'immaginario favolistico antico.
Sulle montagne del Giappone, in una giornata di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova, nel germoglio di una pianta, una creatura minuscola, luminosa e con le sembianze di una principessa. L'uomo porta il piccolo essere dalla moglie e la creatura si trasforma all'improvviso in una neonata. I due anziani, che non hanno figli, sono ben contenti di adottarla e la bambina cresce di giorno in giorno a un ritmo sorprendente, riuscendo presto a gattonare, camminare e infine a parlare. Lo sviluppo prodigioso della bambina, che i ragazzi del villaggio hanno ribattezzato Gemma di bambù, non è solo fisico ma anche intellettivo, psicologico e caratteriale, tanto da diventare presto una splendida ragazza. La sua presenza porta anche una certa fortuna economica all’anziano padre, che perciò decide di strapparla alla sua vita campestre e ai suoi amici contadini per condurla in città, affinché venga educata come una vera principessa e quindi destinata a un pretendente di rango adeguato. Ma la Principessa Splendente, come ora viene chiamata, ha nostalgia della libertà e dei suoi paesaggi rurali ed appare evidente che il suo sogno non è esattamente quello di contrarre un matrimonio combinato.
A un primo sguardo distratto, il titolo potrebbe suggerire qualcosa di simile a una fiaba Disney, e in effetti la protagonista dallo spirito libero che si ribella ai vincoli sociali e genitoriali, risulterà familiare a chiunque abbia visto “La sirenetta” o “Mulan”. Agli occhi degli spettatori più smaliziati invece, la creatura di Takahata apparirà più affine a certa animazione sperimentale della scena franco/belga di autori come Michel Ocelot e Sylvain Chomet. Di certo, gli appassionati di anime della prima ora riconosceranno in Kaguya-hime alcune reminiscenze dei personaggi storici dello stesso Takahata: in primis “Heidi”, la delicata epopea pastorale che aveva conquistato il pubblico italiano nel 1978; ma anche “Anna dai capelli rossi”, soprattutto si sente l’eco di quest’ultima nelle scene dell'adolescenza spensierata di Kaguya; per giungere infine al disincanto della maturità di Saeko in “Pioggia di ricordi”, con il suo nostalgico memoir. “La storia della Principessa Splendente” unisce tutte queste anime in un racconto antico e insieme moderno, aderente all’estetica tutta giapponese del mono no aware, quel particolare sentimento di tristezza legato alla caducità delle cose terrene. Qualcuno vi ha intravisto una sottesa riflessione sulla morte, poiché la velocità con cui l'esistenza della ragazza si svolge offre empaticamente il dolore per la nostra impermanenza.
Il racconto si ambienta in un passato mitico che potremmo collocare all'incirca nel periodo Heian del “Genji Monogatari”, quando per le donne è pratica estetica depilarsi le sopracciglia e annerirsi i denti. Due prospettive alquanto sgradevoli per Kaguya, che è insofferente alle cerimonie e all’etichetta, e finisce per cadere in preda alla nostalgia del suo villaggio, riproponendo l’antica dicotomia campagna/città già evidenziata in “Heidi”. Senza sopracciglia il sudore cade negli occhi e con i denti tinti di nero non si può ridere liberamente, inoltre infagottati negli scomodi vestiti alla moda è impossibile correre senza inciampare: “Che senso ha tutto questo?”, chiede la protagonista alla sua arcigna istitutrice (novella Rottenmeier), riflettendo sull’inutilità delle convenzioni che soffocano la sua gioia di vivere. Al contrario, alcuni piaceri genuini come mangiare un cocomero fresco o danzare sotto un ciliegio in fiore, assaporandone la fuggevole bellezza, rappresentano tesori inestimabili. L’equilibrio della natura nel ripetersi delle stagioni (come recita la filastrocca cantata dai bambini del villaggio) e la meraviglia del creato sono la chiave di tutto, l’origine di una felicità più pregnante e sostanziale.
Poi c’è il potere trascendente dell’amore, il motivo per cui una creatura soprannaturale decide di reincarnarsi per provare gioie e dolori dell’esperienza terrena. Nella grande città i rapporti sono regolati da gerarchie sociali e norme di comportamento che privilegiano la forma più che la sostanza, l’avere più che l’essere. Qui è impossibile un rapporto sincero ed empatico e la protagonista lo scopre a sue spese, quando finalmente fa il suo debutto in società con un grande ricevimento, al quale però non può partecipare per tradizione, ma solo ascoltare da dietro a un paravento. Proprio dopo aver ascoltato le parole meschine di un gruppo di invitati, la giovane ha uno scatto rabbioso in una delle scene più toccanti del film, destinata a passare alla storia dell'animazione: la corsa sfrenata di Kaguya che ad ogni passo ne cambia la fisionomia fino a trasformarla in un groviglio furioso e indistinto di linee nere, suggestivo del tumulto interiore del personaggio. Una scena di una potenza visiva straordinaria in cui ricorre lo sfogo liberatorio (già frequentato in “Heidi” e successivamente in “Pom Poko”) dello spogliarsi dei vestiti cittadini.
Il rapporto di Kaguya con Sotemaru è puro e idealizzato, non ha la minima connotazione passionale, e ricorda ancora una volta quello tra Heidi e Peter. Il loro fugace incontro casuale per le vie della città fa ripiombare la ragazza in una crisi esistenziale. Riesce a trovare un po’ di conforto nel piccolo angolo di giardino dove può tornare a essere Gemma di bambù, o durante una scampagnata con la frenetica danza sotto il ciliegio fiorito. A dispetto della sua natura magica, Kaguya dimostra un carattere molto umano e le sue vicissitudini sono molto concrete. Anche quando decide di assecondare il volere paterno e di adempiere agli obblighi da nobildonna coltiva in segreto la speranza di un futuro incontro con Sotemaru, mentre al contempo riceve i suoi pretendenti. Sono tutti cortigiani pieni di sé, falsi e inconsistenti, fino al mikado che reputa le sue concubine come sua proprietà. Questa sarebbe la felicità? Status sociale, beni materiali e poco altro? Non per Kaguya, che in un momento di ribrezzo e disperazione, per sfuggire alla violenza del mikado, invoca dal profondo del suo cuore il ritorno al Regno della Luna.
L’epilogo metafisico è qualcosa di totalmente elegiaco, una conclusione celestiale di proporzioni cosmiche che chiude idealmente il cerchio con le vicende terrene della Principessa Splendente. Sospesa tra Terra e Luna, l’eroina di Takahata ci mostra tutta l’evanescenza delle cose materiali che fanno perdere di vista ciò che veramente conta. Quando il corteo selenita giunge infine a reclamarla, la ragazza volge un ultimo sguardo verso la terra pensando al tempo perduto della fanciullezza e rimpiangendo tutto ciò che avrebbe potuto essere se non fosse stata strappata dalle montagne che tanto amava. Qui, i contadini sono tornati, compreso Sutemaru, con cui sarebbe potuta essere felice! Per qualche istante i due s’incontrano e volano in alto nel cielo, dove solo l’amore può portare, oltre i prati in fiore e i boschetti di bambù. Ma si tratta solo di un sogno: il ragazzo ormai ha una sua famiglia e Kaguya non può sfuggire al suo destino sulla luna, dove gli spiriti vivono un’esistenza di atarassica serenità priva di memoria.
Il ritmo suadente e il tempo dilatato del racconto, che supera le due ore in un tour de force visionario, potrebbero non avere lo stesso immediato ascendente su un pubblico abituato a certi standard hollywoodiani saturi di scene clue e gag fulminanti. In particolare la parte centrale del film unisce la generale lentezza alla ciclicità narrativa degli incontri con i vari pretendenti di turno, passaggio strumentale nel punteggiare le tappe del percorso di Kaguya. Vero motore dell’azione rimane l’aspirazione della nostra eroina a tornare a una vita semplice e il tema dominante è quello nostalgico del rimpianto, legato all'incanto estatico della natura e al messaggio ecologista che ha da sempre caratterizzato tanta produzione dello Studio Ghibli.
Una trattazione a parte la meritano i disegni e le animazioni, a prima vista abbozzati, ma che si rivelano di una finezza e di una qualità sublimi. Con tutte le idiosincrasie culturali dell’ambientazione, che attinge a una tradizione iconografica specificamente giapponese, i fotogrammi de “La storia della Principessa Splendente” si susseguono in una sorprendente galleria di piccoli quadri in divenire, spesso volutamente lasciati galleggiare nel vuoto zen della pagina bianca.
Stilisticamente più vicino al minimalismo de “I miei vicini Yamada” (notevole già di per sé nel portare sullo schermo l'essenzialità della striscia yonkoma), qui però ulteriormente raffinato da un character design molto variegato, il mondo di Kaguya-hime è un tripudio di delicati toni pastello di gusto cromaticamente impressionista, con la stesura pittorica a macchie di colore che si esalta nei giochi di luce/ombra, nei tessuti pregiati, nella natura lussureggiante. I personaggi invece sono caratterizzati dal tratto netto ed espressionista del carboncino che ne cambia i contorni a seconda degli stati d’animo e ne porta alla luce con forza i moti interiori. Combinando passato e innovazione, l’effetto complessivo è quello di un antico rotolo disegnato o di un’incisione ukyo-e che prende magicamente vita davanti ai nostri occhi: si può vedere la grana ruvida della carta da acquerello impregnarsi di colore sotto le guizzanti pennellate degli artisti, i quali operano orgogliosamente a mano, sotto la direzione esperta dello storico collaboratore Kazuo Oga, quest’ultimo già art director de “Il mio vicino Totoro”, “Pioggia di ricordi”, “Pom Poko” e “Mononoke Hime”.
Il world building iper-dettagliato a cui ci ha abituati lo Studio Ghibli qui lascia il posto a uno scenario sì rigoglioso, ma reso con apparente semplicità, altrettanto immersivo e sospeso in una dimensione seducente come una favola d’altri tempi. Particolare cura viene destinata alla descrizione della natura, colta nella sua più intima essenza dalla tecnica degli animatori che catturano il più lieve movimento degli insetti e degli uccelli, il gonfiarsi delle nuvole temporalesche che diventano draghi, i ciliegi in fiore mossi dal vento. L’indicibile bellezza della stessa Kaguya è lasciata tanto all'immaginazione quanto all'illustrazione, che si limita ad accennare con pochi tratti essenziali i lineamenti del volto, non per questo privo di espressività sottile. C'è qualcosa dell'elusività metamorfica di Ponyo nello sviluppo fisico di questa figlia della luna, una vaghezza che consente ai suoi tratti anatomici di passare quasi impercettibilmente dallo stato di un minuscolo “Pollicino”, all’età neonatale e fanciullezza, fino allo sbocciare della maturità, il tutto nell’arco di poche mirabili sequenze, come quella iniziale in cui si può apprezzare il complesso studio sui movimenti infantili, dallo strisciare al gattonare, fino al saltellare come una rana!
Alla meraviglia di questo film, unico sotto ogni punto di vista, contribuisce anche la colonna sonora di un Joe Hisaishi in stato di grazia, alla sua prima composizione per un film di Takahata. I vari temi che la compongono sono piccole perle musicali che offrono momenti di calma meditativa, con l’uso del solo koto (lo strumento a corda suonato da Kaguya) in “Melody of the Beautiful Koto”, oppure brevi intermezzi briosi e divertiti, come “Lil' Bamboo” e “Spring Waltz”, che omaggiano il classico “Pierino e il Lupo” con i leitmotiv che seguono i movimenti dei personaggi, ognuno abbinato a uno strumento musicale di volta in volta diverso (i trilli e gli svolazzamenti del flauto per gli uccellini, l'incedere saltellante degli archi per la piccola Kaguya, etc.). Non mancano abissi di malinconia con “Dispair” e “Memories of the Village”, mentre la struggente canzone finale di rito, “Memory of Life”, è affidata alla soave vocalità di Kazumi Nikaido, che ne compone anche il testo. Particolarmente toccante infine la filastrocca cantata da Kaguya e dai suoi amici, composta dallo stesso Isao Takahata.
Disegnato a mano nella migliore tradizione degli inchiostratori nipponici, animato con somma maestria e coerente fino all’ultimo fotogramma con la filosofia dello Studio Ghibli, “La storia della principessa splendente” non è solo un testamento spirituale ma anche un manifesto artistico in cui si concentra la quintessenza del cinema di Isao Takahata, il punto di arrivo dei tanti sentieri battuti nell’arco di oltre mezzo secolo di animazione: lo sperimentalismo e il folklore de “La grande avventura del principe Valiant”; l’elegia bucolica di “Heidi” e “Anna dai capelli rossi”; i fondali pittorici di “Goshu il violoncellista”; il senso di morte di “Una tomba per le lucciole”; l’istanza ecologista e la naturalità di “Pom Poko”; l’essenzialità stilistica de “I miei vicini Yamada”; l’afflato nostalgico di “Pioggia di ricordi”. Il lungo addio della principessa Kaguya nel suo viaggio verso la luna sembra rivolto non solo alla terra e alle persone amate, ma idealmente agli stessi spettatori e alla settima arte, quel cinema che Isao Takahata ha arricchito con la sua profonda sensibilità e il suo modo unico di fare animazione.
Isao Takahata, storico co-fondatore dello Studio Ghibli, è stato un leggendario perfezionista che ha rinnovato il linguaggio animato sin dalla sua prima regia cinematografica, nel lontano 1968, con “La grande avventura del principe Valiant”, opera visionaria e pionieristica divenuta un cult per gli anime fan e un punto di riferimento per le nuove generazioni di animatori, ma fu impresa totalmente fallimentare dal punto di vista commerciale. Il suo meraviglioso e straziante ultimo film, “La storia della Principessa Splendente” (“Kaguya-hime no Monogatari”), in un certo senso chiude quel ciclo e per molti versi rappresenta l’ennesima sfida ai colossi del cinema da box office e all’animazione standardizzata.
Costato oltre 35 milioni di dollari per otto anni di produzione, il film incassa al botteghino molto meno di quanto investito, ma ne esce in qualche modo a testa alta, unendo critica e pubblico di appassionati in un coro unanime di consensi, e riuscendo anche ad ottenere una piccola ma simbolica vittoria con la nomination agli Oscar per il miglior film d'animazione (battuto in finale dal mediocre “Big Hero 6”). Viene presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes del 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. In Italia viene proiettato in anteprima nazionale al Lucca Comics & Games del 2014 e distribuito nelle sale cinematografiche da Lucky Red.
Liberamente tratto dal racconto popolare del X secolo “Storia di un tagliabambù” - “Taketori Monogatari” (che già aveva ispirato il cinema live con “La Principessa della luna”, 1987, di Kon Ichikawa), “La storia della Principessa Splendente” è una delle opere più personali di Takahata, un vero e proprio atto d'amore per il cinema e per l'immaginario favolistico antico.
Sulle montagne del Giappone, in una giornata di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova, nel germoglio di una pianta, una creatura minuscola, luminosa e con le sembianze di una principessa. L'uomo porta il piccolo essere dalla moglie e la creatura si trasforma all'improvviso in una neonata. I due anziani, che non hanno figli, sono ben contenti di adottarla e la bambina cresce di giorno in giorno a un ritmo sorprendente, riuscendo presto a gattonare, camminare e infine a parlare. Lo sviluppo prodigioso della bambina, che i ragazzi del villaggio hanno ribattezzato Gemma di bambù, non è solo fisico ma anche intellettivo, psicologico e caratteriale, tanto da diventare presto una splendida ragazza. La sua presenza porta anche una certa fortuna economica all’anziano padre, che perciò decide di strapparla alla sua vita campestre e ai suoi amici contadini per condurla in città, affinché venga educata come una vera principessa e quindi destinata a un pretendente di rango adeguato. Ma la Principessa Splendente, come ora viene chiamata, ha nostalgia della libertà e dei suoi paesaggi rurali ed appare evidente che il suo sogno non è esattamente quello di contrarre un matrimonio combinato.
A un primo sguardo distratto, il titolo potrebbe suggerire qualcosa di simile a una fiaba Disney, e in effetti la protagonista dallo spirito libero che si ribella ai vincoli sociali e genitoriali, risulterà familiare a chiunque abbia visto “La sirenetta” o “Mulan”. Agli occhi degli spettatori più smaliziati invece, la creatura di Takahata apparirà più affine a certa animazione sperimentale della scena franco/belga di autori come Michel Ocelot e Sylvain Chomet. Di certo, gli appassionati di anime della prima ora riconosceranno in Kaguya-hime alcune reminiscenze dei personaggi storici dello stesso Takahata: in primis “Heidi”, la delicata epopea pastorale che aveva conquistato il pubblico italiano nel 1978; ma anche “Anna dai capelli rossi”, soprattutto si sente l’eco di quest’ultima nelle scene dell'adolescenza spensierata di Kaguya; per giungere infine al disincanto della maturità di Saeko in “Pioggia di ricordi”, con il suo nostalgico memoir. “La storia della Principessa Splendente” unisce tutte queste anime in un racconto antico e insieme moderno, aderente all’estetica tutta giapponese del mono no aware, quel particolare sentimento di tristezza legato alla caducità delle cose terrene. Qualcuno vi ha intravisto una sottesa riflessione sulla morte, poiché la velocità con cui l'esistenza della ragazza si svolge offre empaticamente il dolore per la nostra impermanenza.
Il racconto si ambienta in un passato mitico che potremmo collocare all'incirca nel periodo Heian del “Genji Monogatari”, quando per le donne è pratica estetica depilarsi le sopracciglia e annerirsi i denti. Due prospettive alquanto sgradevoli per Kaguya, che è insofferente alle cerimonie e all’etichetta, e finisce per cadere in preda alla nostalgia del suo villaggio, riproponendo l’antica dicotomia campagna/città già evidenziata in “Heidi”. Senza sopracciglia il sudore cade negli occhi e con i denti tinti di nero non si può ridere liberamente, inoltre infagottati negli scomodi vestiti alla moda è impossibile correre senza inciampare: “Che senso ha tutto questo?”, chiede la protagonista alla sua arcigna istitutrice (novella Rottenmeier), riflettendo sull’inutilità delle convenzioni che soffocano la sua gioia di vivere. Al contrario, alcuni piaceri genuini come mangiare un cocomero fresco o danzare sotto un ciliegio in fiore, assaporandone la fuggevole bellezza, rappresentano tesori inestimabili. L’equilibrio della natura nel ripetersi delle stagioni (come recita la filastrocca cantata dai bambini del villaggio) e la meraviglia del creato sono la chiave di tutto, l’origine di una felicità più pregnante e sostanziale.
Poi c’è il potere trascendente dell’amore, il motivo per cui una creatura soprannaturale decide di reincarnarsi per provare gioie e dolori dell’esperienza terrena. Nella grande città i rapporti sono regolati da gerarchie sociali e norme di comportamento che privilegiano la forma più che la sostanza, l’avere più che l’essere. Qui è impossibile un rapporto sincero ed empatico e la protagonista lo scopre a sue spese, quando finalmente fa il suo debutto in società con un grande ricevimento, al quale però non può partecipare per tradizione, ma solo ascoltare da dietro a un paravento. Proprio dopo aver ascoltato le parole meschine di un gruppo di invitati, la giovane ha uno scatto rabbioso in una delle scene più toccanti del film, destinata a passare alla storia dell'animazione: la corsa sfrenata di Kaguya che ad ogni passo ne cambia la fisionomia fino a trasformarla in un groviglio furioso e indistinto di linee nere, suggestivo del tumulto interiore del personaggio. Una scena di una potenza visiva straordinaria in cui ricorre lo sfogo liberatorio (già frequentato in “Heidi” e successivamente in “Pom Poko”) dello spogliarsi dei vestiti cittadini.
Il rapporto di Kaguya con Sotemaru è puro e idealizzato, non ha la minima connotazione passionale, e ricorda ancora una volta quello tra Heidi e Peter. Il loro fugace incontro casuale per le vie della città fa ripiombare la ragazza in una crisi esistenziale. Riesce a trovare un po’ di conforto nel piccolo angolo di giardino dove può tornare a essere Gemma di bambù, o durante una scampagnata con la frenetica danza sotto il ciliegio fiorito. A dispetto della sua natura magica, Kaguya dimostra un carattere molto umano e le sue vicissitudini sono molto concrete. Anche quando decide di assecondare il volere paterno e di adempiere agli obblighi da nobildonna coltiva in segreto la speranza di un futuro incontro con Sotemaru, mentre al contempo riceve i suoi pretendenti. Sono tutti cortigiani pieni di sé, falsi e inconsistenti, fino al mikado che reputa le sue concubine come sua proprietà. Questa sarebbe la felicità? Status sociale, beni materiali e poco altro? Non per Kaguya, che in un momento di ribrezzo e disperazione, per sfuggire alla violenza del mikado, invoca dal profondo del suo cuore il ritorno al Regno della Luna.
L’epilogo metafisico è qualcosa di totalmente elegiaco, una conclusione celestiale di proporzioni cosmiche che chiude idealmente il cerchio con le vicende terrene della Principessa Splendente. Sospesa tra Terra e Luna, l’eroina di Takahata ci mostra tutta l’evanescenza delle cose materiali che fanno perdere di vista ciò che veramente conta. Quando il corteo selenita giunge infine a reclamarla, la ragazza volge un ultimo sguardo verso la terra pensando al tempo perduto della fanciullezza e rimpiangendo tutto ciò che avrebbe potuto essere se non fosse stata strappata dalle montagne che tanto amava. Qui, i contadini sono tornati, compreso Sutemaru, con cui sarebbe potuta essere felice! Per qualche istante i due s’incontrano e volano in alto nel cielo, dove solo l’amore può portare, oltre i prati in fiore e i boschetti di bambù. Ma si tratta solo di un sogno: il ragazzo ormai ha una sua famiglia e Kaguya non può sfuggire al suo destino sulla luna, dove gli spiriti vivono un’esistenza di atarassica serenità priva di memoria.
Il ritmo suadente e il tempo dilatato del racconto, che supera le due ore in un tour de force visionario, potrebbero non avere lo stesso immediato ascendente su un pubblico abituato a certi standard hollywoodiani saturi di scene clue e gag fulminanti. In particolare la parte centrale del film unisce la generale lentezza alla ciclicità narrativa degli incontri con i vari pretendenti di turno, passaggio strumentale nel punteggiare le tappe del percorso di Kaguya. Vero motore dell’azione rimane l’aspirazione della nostra eroina a tornare a una vita semplice e il tema dominante è quello nostalgico del rimpianto, legato all'incanto estatico della natura e al messaggio ecologista che ha da sempre caratterizzato tanta produzione dello Studio Ghibli.
Una trattazione a parte la meritano i disegni e le animazioni, a prima vista abbozzati, ma che si rivelano di una finezza e di una qualità sublimi. Con tutte le idiosincrasie culturali dell’ambientazione, che attinge a una tradizione iconografica specificamente giapponese, i fotogrammi de “La storia della Principessa Splendente” si susseguono in una sorprendente galleria di piccoli quadri in divenire, spesso volutamente lasciati galleggiare nel vuoto zen della pagina bianca.
Stilisticamente più vicino al minimalismo de “I miei vicini Yamada” (notevole già di per sé nel portare sullo schermo l'essenzialità della striscia yonkoma), qui però ulteriormente raffinato da un character design molto variegato, il mondo di Kaguya-hime è un tripudio di delicati toni pastello di gusto cromaticamente impressionista, con la stesura pittorica a macchie di colore che si esalta nei giochi di luce/ombra, nei tessuti pregiati, nella natura lussureggiante. I personaggi invece sono caratterizzati dal tratto netto ed espressionista del carboncino che ne cambia i contorni a seconda degli stati d’animo e ne porta alla luce con forza i moti interiori. Combinando passato e innovazione, l’effetto complessivo è quello di un antico rotolo disegnato o di un’incisione ukyo-e che prende magicamente vita davanti ai nostri occhi: si può vedere la grana ruvida della carta da acquerello impregnarsi di colore sotto le guizzanti pennellate degli artisti, i quali operano orgogliosamente a mano, sotto la direzione esperta dello storico collaboratore Kazuo Oga, quest’ultimo già art director de “Il mio vicino Totoro”, “Pioggia di ricordi”, “Pom Poko” e “Mononoke Hime”.
Il world building iper-dettagliato a cui ci ha abituati lo Studio Ghibli qui lascia il posto a uno scenario sì rigoglioso, ma reso con apparente semplicità, altrettanto immersivo e sospeso in una dimensione seducente come una favola d’altri tempi. Particolare cura viene destinata alla descrizione della natura, colta nella sua più intima essenza dalla tecnica degli animatori che catturano il più lieve movimento degli insetti e degli uccelli, il gonfiarsi delle nuvole temporalesche che diventano draghi, i ciliegi in fiore mossi dal vento. L’indicibile bellezza della stessa Kaguya è lasciata tanto all'immaginazione quanto all'illustrazione, che si limita ad accennare con pochi tratti essenziali i lineamenti del volto, non per questo privo di espressività sottile. C'è qualcosa dell'elusività metamorfica di Ponyo nello sviluppo fisico di questa figlia della luna, una vaghezza che consente ai suoi tratti anatomici di passare quasi impercettibilmente dallo stato di un minuscolo “Pollicino”, all’età neonatale e fanciullezza, fino allo sbocciare della maturità, il tutto nell’arco di poche mirabili sequenze, come quella iniziale in cui si può apprezzare il complesso studio sui movimenti infantili, dallo strisciare al gattonare, fino al saltellare come una rana!
Alla meraviglia di questo film, unico sotto ogni punto di vista, contribuisce anche la colonna sonora di un Joe Hisaishi in stato di grazia, alla sua prima composizione per un film di Takahata. I vari temi che la compongono sono piccole perle musicali che offrono momenti di calma meditativa, con l’uso del solo koto (lo strumento a corda suonato da Kaguya) in “Melody of the Beautiful Koto”, oppure brevi intermezzi briosi e divertiti, come “Lil' Bamboo” e “Spring Waltz”, che omaggiano il classico “Pierino e il Lupo” con i leitmotiv che seguono i movimenti dei personaggi, ognuno abbinato a uno strumento musicale di volta in volta diverso (i trilli e gli svolazzamenti del flauto per gli uccellini, l'incedere saltellante degli archi per la piccola Kaguya, etc.). Non mancano abissi di malinconia con “Dispair” e “Memories of the Village”, mentre la struggente canzone finale di rito, “Memory of Life”, è affidata alla soave vocalità di Kazumi Nikaido, che ne compone anche il testo. Particolarmente toccante infine la filastrocca cantata da Kaguya e dai suoi amici, composta dallo stesso Isao Takahata.
Disegnato a mano nella migliore tradizione degli inchiostratori nipponici, animato con somma maestria e coerente fino all’ultimo fotogramma con la filosofia dello Studio Ghibli, “La storia della principessa splendente” non è solo un testamento spirituale ma anche un manifesto artistico in cui si concentra la quintessenza del cinema di Isao Takahata, il punto di arrivo dei tanti sentieri battuti nell’arco di oltre mezzo secolo di animazione: lo sperimentalismo e il folklore de “La grande avventura del principe Valiant”; l’elegia bucolica di “Heidi” e “Anna dai capelli rossi”; i fondali pittorici di “Goshu il violoncellista”; il senso di morte di “Una tomba per le lucciole”; l’istanza ecologista e la naturalità di “Pom Poko”; l’essenzialità stilistica de “I miei vicini Yamada”; l’afflato nostalgico di “Pioggia di ricordi”. Il lungo addio della principessa Kaguya nel suo viaggio verso la luna sembra rivolto non solo alla terra e alle persone amate, ma idealmente agli stessi spettatori e alla settima arte, quel cinema che Isao Takahata ha arricchito con la sua profonda sensibilità e il suo modo unico di fare animazione.
Attenzione: la recensione contiene spoiler
È un dolcissimo film, delicato, che, partendo da un racconto, narra la storia di Kaguya-hime, la principessa splendente.
I disegni sono quasi degli acquarelli bellissimi, la storia è un racconto, appunto, ma pregno di significati, come l'affetto famigliare, la vita rurale, l'ambizione, la vita pomposa e altolocata di città, e infine quanto la fanciullezza può essere strappata via dalle proprie radici a causa della sete di potere e di possesso, specialmente per la femminilità. Ciò porterà la nostra principessa, che fino ad allora agiva volendo il bene del padre, a desiderare "la morte" e tornare sulla Luna (su cui in realtà è la sua vera origine). Solo allora lui capirà quanto abbia sofferto la povera creatura e quanto invece lei abbia, per volere di lui, abbandonato l'amore del fratellone Sutemaru.
È un racconto che narra l'infanzia gioiosa e l'avvento dell'età fertile e matura di una ragazza ormai donna e che ha nostalgia di quel tempo spensierato... la perdita dell'innocenza.
Mi sono dilungata molto, ma vi prego di guardarlo, e noterete in più punti quanto queste emozioni traspaiono dai volti dei personaggi e quanto le musiche che le accompagnano sono adatte.
Da vedere assolutamente, un'opera del compianto Takahata che vi lascerà con una lacrima in viso e una stretta al cuore.
È un dolcissimo film, delicato, che, partendo da un racconto, narra la storia di Kaguya-hime, la principessa splendente.
I disegni sono quasi degli acquarelli bellissimi, la storia è un racconto, appunto, ma pregno di significati, come l'affetto famigliare, la vita rurale, l'ambizione, la vita pomposa e altolocata di città, e infine quanto la fanciullezza può essere strappata via dalle proprie radici a causa della sete di potere e di possesso, specialmente per la femminilità. Ciò porterà la nostra principessa, che fino ad allora agiva volendo il bene del padre, a desiderare "la morte" e tornare sulla Luna (su cui in realtà è la sua vera origine). Solo allora lui capirà quanto abbia sofferto la povera creatura e quanto invece lei abbia, per volere di lui, abbandonato l'amore del fratellone Sutemaru.
È un racconto che narra l'infanzia gioiosa e l'avvento dell'età fertile e matura di una ragazza ormai donna e che ha nostalgia di quel tempo spensierato... la perdita dell'innocenza.
Mi sono dilungata molto, ma vi prego di guardarlo, e noterete in più punti quanto queste emozioni traspaiono dai volti dei personaggi e quanto le musiche che le accompagnano sono adatte.
Da vedere assolutamente, un'opera del compianto Takahata che vi lascerà con una lacrima in viso e una stretta al cuore.
Questo bellissimo anime si ambienta nel passato giapponese, all'epoca dei samurai e dei signori feudali.
Un anziano e povero raccoglitore di bambù riceve in dono dal cielo una bambina bellissima. L'anziano crescerà questa bambina assieme a sua moglie. Questa bambina speciale crescerà più rapidamente di una bambina normale, e sarà bellissima e piena di vita. Il cielo farà avere al raccoglitore di bambù anche oro e abiti preziosi, al fine di consentire l'ascesa sociale della bambina, la quale, però, avrà sempre nostalgia del suo passato di campagna, semplicità, povertà, e degli amici di infanzia.
Questo anime, come vedrete, ha una storia molto dolce e sensibile, senza mai scendere nel mieloso o nel patetico. Ha una sensibilità che io chiamo profonda, intelligente, cosciente. Colpisce il cuore dall'inizio alla fine. La storia si svolge in maniera molto piacevole, con diversi momenti di comicità, ma anche di commozione, per non dire di sublime poesia, come spesso ci hanno abituato lo scomparso e compianto autore, e Miyazaki, suo omologo.
L'animazione è fatta veramente bene, e i disegni in stile acquarello sono bellissimi. Anche le musiche, pur se non troppo varie (c'è un solo motivo davvero ricorrente) sono piacevoli.
L'unica sbavatura io la vedo nel finale, che a mio avviso è troppo frettoloso e un po' confuso.
E' un anime comunque molto molto bello, che rasenta la perfezione, e la cui visione è consigliatissima a tutta la famiglia.
Un anziano e povero raccoglitore di bambù riceve in dono dal cielo una bambina bellissima. L'anziano crescerà questa bambina assieme a sua moglie. Questa bambina speciale crescerà più rapidamente di una bambina normale, e sarà bellissima e piena di vita. Il cielo farà avere al raccoglitore di bambù anche oro e abiti preziosi, al fine di consentire l'ascesa sociale della bambina, la quale, però, avrà sempre nostalgia del suo passato di campagna, semplicità, povertà, e degli amici di infanzia.
Questo anime, come vedrete, ha una storia molto dolce e sensibile, senza mai scendere nel mieloso o nel patetico. Ha una sensibilità che io chiamo profonda, intelligente, cosciente. Colpisce il cuore dall'inizio alla fine. La storia si svolge in maniera molto piacevole, con diversi momenti di comicità, ma anche di commozione, per non dire di sublime poesia, come spesso ci hanno abituato lo scomparso e compianto autore, e Miyazaki, suo omologo.
L'animazione è fatta veramente bene, e i disegni in stile acquarello sono bellissimi. Anche le musiche, pur se non troppo varie (c'è un solo motivo davvero ricorrente) sono piacevoli.
L'unica sbavatura io la vedo nel finale, che a mio avviso è troppo frettoloso e un po' confuso.
E' un anime comunque molto molto bello, che rasenta la perfezione, e la cui visione è consigliatissima a tutta la famiglia.
Per quanto Takahata abbia deciso di sfruttare la "favola del tagliatore di bambù" il più possibile, adeguandosi non solo a quanto le varie versioni più accreditate narrano, ma anche a come visivamente la storia è stata percepita dagli uomini più prossimi ad essa - più vicini non solo temporalmente, ma anche filosoficamente -, per quanto il regista si sia ben attenuto a tutto ciò, ha deciso comunque di imprimere la propria orma e suggellare il film con qualche dettaglio che rende bene la sua idea, diciamo, anti-urbana o tendenzialmente anti-moderna, mista a una specie di pessimismo nei confronti dell'umana natura.
La forte attrazione che Kaguya, la protagonista, prova per la natura circostante, per la vita semplice e agreste, sorge vieppiù forte nel momento in cui il padre, preso da avidità, decide di abbandonare il mondo georgico per dirigersi in città. Questo particolare non è presente nella novella antica, che narra meramente del conseguente arricchimento dei due contadini con il conseguente miglioramento delle loro condizioni di vita in loco. Usando il topos del viaggio verso l'urbs, Takahata ci permette di osservare il cambiamento nel carattere della protagonista, continuamente vessata dal mondo cortese che la circonda, dalle regole, dai taboo, dalle tradizioni estetiche e comportamentali. La necessità dell'ohaguro, dell'hikimayu e dell'oshiroi (rispettivamente l'annerimento dei denti con colorante, la rimozione delle sopracciglia e l'imbiancamento della faccia) vengono recepiti dalla giovanetta come una imposizione inconcepibile, anche a causa di una 'governante' stereotipata. L'interesse principale di tutto ciò è, comunque, che il regista aggiunge questi particolari storico-culturali ovviamente non presenti (perché sottintesi) nella storia originale per sottolineare un enorme divario fra la pura vita non-urbana e la fittizia vita urbana. Tutto diviene fittizio, persino le relazioni sociali, persino il giardino, ultimo miraggio del mondo naturale. L'urbs riesce a creare il bello dove non c'è, ma sempre con inganno. Nella narrazione primeva i cinque nobiluomini che si avvicinano a Kaguya per rendere palese il loro interesse, recandosi loro in campagna da lei, subiscono loro stessi da lei l'affronto di dover andare a cercare cinque artefatti mitici impossibili da scoprire. Il regista, invece, trasforma ciò in una comica scenetta di lotta retorica tra gli spasimanti, che giocano a chi la spara più grossa. Ognuno di essi assicura a Kaguya di amarla tanto quanto si può amare questo o quel magnifico e mitologico oggetto, mostrando come non si tratti altro che di pura sofistica, di finzione di un amore per qualcheduno che oltretutto mai si è visto in faccia. Persino l'Imperatore, che dovrebbe rappresentare il miglior essere umano in Giappone, addirittura di discendenza divina, non fa altro che bramarla per mera passione fisica, non rispettando i suoi spazi, i suoi tempi e le sue volontà. L'amore urbano e cortese, così mascherato rispetto all'amore puro e fanciullesco che Kaguya provava per Sutemaru, un povero ragazzo del villaggio, costretto a muoversi qui e lì per raccogliere legna e altri vegetali. Persino il giardino costruito e curato da Kaguya nella nuova corte cittadina, con lo scopo di renderlo simile, in 'miniatura', al suo mondo rurale precedente, è solo apparenza, è un miraggio estivo nella calura e nel torpore della città. Questi importanti particolari e l'aggiunta del giardinetto sono importanti indizi per comprendere quale sia l'umore di Takahata nel pensare il dualismo città-campagna, un umore che tendenzialmente riprende un atavico amore dell'essere umano per la natura, evidenziato dal similare "Il topo di città e il topo di campagna" di Esopo.
Il finale, così amaro, riprende anche visivamente disegni cinque-seicenteschi rappresentanti questa grossa nube semovente accompagnante una Divinità lunare (assieme a una banda musicale di nuova invenzione), ma è reso ulteriormente più triste non solo dalla mancata corrispondenza epistolare che nella favola originale Kaguya intrattenne con l'Imperatore fino agli ultimi istanti di coscienza sulla nube (evidente elogio al capo dell'Impero), ma da quel sogno-illusione di Sutemaru che, ritornando dopo diversi anni nelle terre natie, immagina, sogna, si illude o spera di avere lì, dinnanzi a sé una Kaguya pronta a scappare con lui da qualsiasi tentazione maligna urbana, vivendo nella miseria, ma nella purezza e nella felicità.
La forte attrazione che Kaguya, la protagonista, prova per la natura circostante, per la vita semplice e agreste, sorge vieppiù forte nel momento in cui il padre, preso da avidità, decide di abbandonare il mondo georgico per dirigersi in città. Questo particolare non è presente nella novella antica, che narra meramente del conseguente arricchimento dei due contadini con il conseguente miglioramento delle loro condizioni di vita in loco. Usando il topos del viaggio verso l'urbs, Takahata ci permette di osservare il cambiamento nel carattere della protagonista, continuamente vessata dal mondo cortese che la circonda, dalle regole, dai taboo, dalle tradizioni estetiche e comportamentali. La necessità dell'ohaguro, dell'hikimayu e dell'oshiroi (rispettivamente l'annerimento dei denti con colorante, la rimozione delle sopracciglia e l'imbiancamento della faccia) vengono recepiti dalla giovanetta come una imposizione inconcepibile, anche a causa di una 'governante' stereotipata. L'interesse principale di tutto ciò è, comunque, che il regista aggiunge questi particolari storico-culturali ovviamente non presenti (perché sottintesi) nella storia originale per sottolineare un enorme divario fra la pura vita non-urbana e la fittizia vita urbana. Tutto diviene fittizio, persino le relazioni sociali, persino il giardino, ultimo miraggio del mondo naturale. L'urbs riesce a creare il bello dove non c'è, ma sempre con inganno. Nella narrazione primeva i cinque nobiluomini che si avvicinano a Kaguya per rendere palese il loro interesse, recandosi loro in campagna da lei, subiscono loro stessi da lei l'affronto di dover andare a cercare cinque artefatti mitici impossibili da scoprire. Il regista, invece, trasforma ciò in una comica scenetta di lotta retorica tra gli spasimanti, che giocano a chi la spara più grossa. Ognuno di essi assicura a Kaguya di amarla tanto quanto si può amare questo o quel magnifico e mitologico oggetto, mostrando come non si tratti altro che di pura sofistica, di finzione di un amore per qualcheduno che oltretutto mai si è visto in faccia. Persino l'Imperatore, che dovrebbe rappresentare il miglior essere umano in Giappone, addirittura di discendenza divina, non fa altro che bramarla per mera passione fisica, non rispettando i suoi spazi, i suoi tempi e le sue volontà. L'amore urbano e cortese, così mascherato rispetto all'amore puro e fanciullesco che Kaguya provava per Sutemaru, un povero ragazzo del villaggio, costretto a muoversi qui e lì per raccogliere legna e altri vegetali. Persino il giardino costruito e curato da Kaguya nella nuova corte cittadina, con lo scopo di renderlo simile, in 'miniatura', al suo mondo rurale precedente, è solo apparenza, è un miraggio estivo nella calura e nel torpore della città. Questi importanti particolari e l'aggiunta del giardinetto sono importanti indizi per comprendere quale sia l'umore di Takahata nel pensare il dualismo città-campagna, un umore che tendenzialmente riprende un atavico amore dell'essere umano per la natura, evidenziato dal similare "Il topo di città e il topo di campagna" di Esopo.
Il finale, così amaro, riprende anche visivamente disegni cinque-seicenteschi rappresentanti questa grossa nube semovente accompagnante una Divinità lunare (assieme a una banda musicale di nuova invenzione), ma è reso ulteriormente più triste non solo dalla mancata corrispondenza epistolare che nella favola originale Kaguya intrattenne con l'Imperatore fino agli ultimi istanti di coscienza sulla nube (evidente elogio al capo dell'Impero), ma da quel sogno-illusione di Sutemaru che, ritornando dopo diversi anni nelle terre natie, immagina, sogna, si illude o spera di avere lì, dinnanzi a sé una Kaguya pronta a scappare con lui da qualsiasi tentazione maligna urbana, vivendo nella miseria, ma nella purezza e nella felicità.
Sono stata attratta dallo stile di disegno particolare che questo film ci presenta, ritenendolo affascinante sin dal principio; una volta completata la visione, posso affermare che lo stile scelto si adatta al narrare delle vicende. Ho apprezzato la storia fiabesca, che racconta la vita della principessa protagonista dalla prima infanzia, in maniera semplice ma efficace.
Si tratta per certo di un film modesto e originale, che si allontana dallo schema classico dello studio Ghibli, ma non per questo sgradevole. Consiglio caldamente la visione.
Si tratta per certo di un film modesto e originale, che si allontana dallo schema classico dello studio Ghibli, ma non per questo sgradevole. Consiglio caldamente la visione.
Attenzione: la recensione contiene spoiler
Devo ammettere che mi sono approcciato a questo film dello Studio Ghibli con un po' di diffidenza, in quanto lo stile visivo adottato è alquanto differente dal resto della produzione dello studio, inoltre, non conoscendo bene il racconto da cui è stato tratto, temevo di non poter apprezzare l'opera. Logicamente mi sbagliavo: Isao Takahata forse non è Miyazaki, ma è comunque un più che valido regista (come ha potuto dimostrare ne "La tomba delle lucciole"), e il character design adottato per questo lungometraggio è una gioia per gli occhi. Ogni fotogramma infatti pare essere tratto da un dipinto ad acquarello, non ci sono colori sgargianti o animazioni iper-cinetiche, ma appare tutto "soft", tutto appare piuttosto "ovattato", ma non per questo non ci sono colori che predominano, ad esempio il verde della natura nelle scene in campagna o i colori accesi (ma senza esagerare) delle vesti nelle scene in città. Gli incarnati invece sono in genere pallidi, monocromi, tendenti quasi al bianco/grigio delle stampe ukiyo-e. Uno stile pittorico che insomma ben si adatta ad illustrare (in tutti i sensi) un'antica leggenda giapponese, suppongo molto conosciuta e molto amata dal popolo nipponico, visto che il personaggio di "Kaguya-hime" è apparso o ha ispirato diversi anime e manga.
La storia di questo film comincia come molte fiabe/favole occidentali: una coppia di anziani senza figli riceve miracolosamente in dono una piccola bambina che si trovava all'interno di una canna di bambù. La minuscola creatura si trasforma in una neonata, e comincia a crescere in maniera sorprendente, tanto che dopo pochi giorni è già in grado di camminare, e dopo qualche mese è già diventata grande come una bambina di sei-otto anni. Ancora più sorprendentemente il padre adottivo un giorno trova oro e tessuti preziosi all'interno di altre canne di bambù che stava tagliando, e comprende che è un segno del cielo: decide allora di trasferirsi nella capitale con tutta la famiglia, per poter dare alla figlioletta un futuro migliore di quello che potrebbe avere in campagna. La ragazza cresce ancora, e raggiunge l'età da marito. Senza troppa fatica le storie sulla straordinaria bellezza della principessa splendente si fanno strada nella capitale, e i pretendenti di alto rango non mancano. Si fanno avanti in cinque, che con molta spavalderia paragonano Kaguya-hime ai più favolosi tesori di cui hanno sentito parlare. Kaguya allora dice loro che si offrirà in sposa all'uomo che le porterà uno di quei tesori. Chiaramente, le cose si fanno difficili per i pretendenti, in quanto i tesori da loro citati o sono mitologici o sono quasi impossibili da ottenere. Alcuni cercano di imbrogliare la principessa portandole dei falsi, altri quasi rischiano di perdere la vita, e l'ultimo quasi la convince con delle belle parole (ma alla fine fallisce). La principessa, nonostante sia riuscita a scampare al matrimonio, non è per nulla felice, e non aiuta il fatto che l'imperatore pare essere interessato ad averla nella sua corte (senza successo). Nel finale scopriamo la vera natura di Kaguya-hime e il suo (se vogliamo) triste destino.
Una fiaba senza lieto fine, insomma? Ebbene sì, non muore nessuno, ma il finale è senza dubbio poco allegro.
Un finale metaforico/allegorico? Probabilmente, anche se non sono sicuro di aver capito bene il messaggio nascosto.
Un racconto con finalità pedagogiche di qualche tipo? Forse no, non mi sembra qualcosa tipo "Cappuccetto Rosso" o altre fiabe che pretendono di insegnare ai bambini qualcosa. In ogni caso dubito ci sia una morale da imparare in una storia come questa, a parte forse accontentarsi di quello che si ha senza cercare per forza una felicità ipotetica altrove: l'anziano padre adottivo di Kaguya decide di trasferirsi con tutta la famiglia nella grande città, credendo di far felice la figlia, ma alla fine invece l'ha solo resa infelice, e ha finito con il rendere infelice invece tutta la famiglia e pure i servitori!
Per concludere: consiglio caldamente la visione di questo film a tutti i fan dello studio Ghibli, ma anche a coloro a cui piace il folklore e i miti e leggende giapponesi (considerando però che ci sono alcune differenze tra questo film e il racconto da cui è stato tratto), film che però ha un difetto importante: dura un po' troppo, oltre due ore! Probabilmente avrebbe giovato tagliare un po' di scene inutili, per renderlo più scorrevole e adatto a un pubblico più giovane, ma resta comunque più che piacevole.
Devo ammettere che mi sono approcciato a questo film dello Studio Ghibli con un po' di diffidenza, in quanto lo stile visivo adottato è alquanto differente dal resto della produzione dello studio, inoltre, non conoscendo bene il racconto da cui è stato tratto, temevo di non poter apprezzare l'opera. Logicamente mi sbagliavo: Isao Takahata forse non è Miyazaki, ma è comunque un più che valido regista (come ha potuto dimostrare ne "La tomba delle lucciole"), e il character design adottato per questo lungometraggio è una gioia per gli occhi. Ogni fotogramma infatti pare essere tratto da un dipinto ad acquarello, non ci sono colori sgargianti o animazioni iper-cinetiche, ma appare tutto "soft", tutto appare piuttosto "ovattato", ma non per questo non ci sono colori che predominano, ad esempio il verde della natura nelle scene in campagna o i colori accesi (ma senza esagerare) delle vesti nelle scene in città. Gli incarnati invece sono in genere pallidi, monocromi, tendenti quasi al bianco/grigio delle stampe ukiyo-e. Uno stile pittorico che insomma ben si adatta ad illustrare (in tutti i sensi) un'antica leggenda giapponese, suppongo molto conosciuta e molto amata dal popolo nipponico, visto che il personaggio di "Kaguya-hime" è apparso o ha ispirato diversi anime e manga.
La storia di questo film comincia come molte fiabe/favole occidentali: una coppia di anziani senza figli riceve miracolosamente in dono una piccola bambina che si trovava all'interno di una canna di bambù. La minuscola creatura si trasforma in una neonata, e comincia a crescere in maniera sorprendente, tanto che dopo pochi giorni è già in grado di camminare, e dopo qualche mese è già diventata grande come una bambina di sei-otto anni. Ancora più sorprendentemente il padre adottivo un giorno trova oro e tessuti preziosi all'interno di altre canne di bambù che stava tagliando, e comprende che è un segno del cielo: decide allora di trasferirsi nella capitale con tutta la famiglia, per poter dare alla figlioletta un futuro migliore di quello che potrebbe avere in campagna. La ragazza cresce ancora, e raggiunge l'età da marito. Senza troppa fatica le storie sulla straordinaria bellezza della principessa splendente si fanno strada nella capitale, e i pretendenti di alto rango non mancano. Si fanno avanti in cinque, che con molta spavalderia paragonano Kaguya-hime ai più favolosi tesori di cui hanno sentito parlare. Kaguya allora dice loro che si offrirà in sposa all'uomo che le porterà uno di quei tesori. Chiaramente, le cose si fanno difficili per i pretendenti, in quanto i tesori da loro citati o sono mitologici o sono quasi impossibili da ottenere. Alcuni cercano di imbrogliare la principessa portandole dei falsi, altri quasi rischiano di perdere la vita, e l'ultimo quasi la convince con delle belle parole (ma alla fine fallisce). La principessa, nonostante sia riuscita a scampare al matrimonio, non è per nulla felice, e non aiuta il fatto che l'imperatore pare essere interessato ad averla nella sua corte (senza successo). Nel finale scopriamo la vera natura di Kaguya-hime e il suo (se vogliamo) triste destino.
Una fiaba senza lieto fine, insomma? Ebbene sì, non muore nessuno, ma il finale è senza dubbio poco allegro.
Un finale metaforico/allegorico? Probabilmente, anche se non sono sicuro di aver capito bene il messaggio nascosto.
Un racconto con finalità pedagogiche di qualche tipo? Forse no, non mi sembra qualcosa tipo "Cappuccetto Rosso" o altre fiabe che pretendono di insegnare ai bambini qualcosa. In ogni caso dubito ci sia una morale da imparare in una storia come questa, a parte forse accontentarsi di quello che si ha senza cercare per forza una felicità ipotetica altrove: l'anziano padre adottivo di Kaguya decide di trasferirsi con tutta la famiglia nella grande città, credendo di far felice la figlia, ma alla fine invece l'ha solo resa infelice, e ha finito con il rendere infelice invece tutta la famiglia e pure i servitori!
Per concludere: consiglio caldamente la visione di questo film a tutti i fan dello studio Ghibli, ma anche a coloro a cui piace il folklore e i miti e leggende giapponesi (considerando però che ci sono alcune differenze tra questo film e il racconto da cui è stato tratto), film che però ha un difetto importante: dura un po' troppo, oltre due ore! Probabilmente avrebbe giovato tagliare un po' di scene inutili, per renderlo più scorrevole e adatto a un pubblico più giovane, ma resta comunque più che piacevole.
"Kaguya Hime no Monogatari", tradotto "La Storia della Principessa Splendente", è un film d'animazione prodotto dallo studio Ghibli nel 2013, ispirato a un antico racconto popolare giapponese intitolato "Taketori Monogatari" (storia di un tagliabambù), e diretto dal rinomato Isao Takahata, che ritorna all'opera dopo quasi quindici anni di pausa.
Un giorno di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova nel bosco un piccolo essere luminoso dalle sembianze di una giovane donna. Convinto si tratti di una principessa pervenutagli dalla volontà dei cieli, l'anziano signore decide di portarla a casa e di accudirla al meglio delle proprie possibilità. D'un tratto, il piccolo essere luminoso si trasforma in un neonato e comincia a crescere con ritmi elevati, divenendo in poco tempo una ragazzina. In quel momento il padre adottivo decide di portarla nella capitale del regno, affinché essa venga trattata come una vera principessa merita.
Un'agiata vita principesca o una semplice vita da campagnola? Probabilmente in molti preferirebbero la prima opzione, più vantaggiosa sotto numerosi punti di vista, ma non è questo il caso di Gemma di Bambù (nome dato alla principessa dai bambini divenuti suoi amici), che trova la felicità solo in campagna, nel correre liberamente in lungo e in largo, e nell'essere circondata da persone che provano nei suoi confronti reali sentimenti di affetto. Una volta divenuta una dama in piena regola, grazie soprattutto all'insistenza del padre, per la protagonista inizierà una vita triste e monotona, che le causerà più sofferenza che altro.
Questa è una prima e più semplice riflessione che credo sorga spontanea dopo la visione dell'opera; Takahata ha particolarmente a cuore questa tematica, e dopo averla chiaramente mostrata in "Omohide Poro Poro", ventidue anni orsono, non manca di riproporla al giorno d'oggi, dove il livello di urbanizzazione è cresciuto a dismisura, e dove i vincoli imposti dalla società sono sempre maggiori e più restrittivi.
"Kaguya Hime no Monogatari" è un'opera particolare sotto tutti i punti di vista, e per questo risulta a mio avviso non essere adatta alla maggioranza degli spettatori. La trama si sviluppa molto bene, la storia in sé è intrigante e ricca di fascino, ma i tempi sono estremamente lenti, e in alcuni momenti la noia non tarderà a sopraggiungere, complice anche la lunga durata. Questo è sostanzialmente il principale difetto dell'opera.
E' un prodotto originale anche per il comparto grafico, che riesce attraverso un tratto semplice e indefinito a catturare pesantemente l'attenzione. I fondali, scarni di minuziosi dettagli ma colorati con gli acquerelli, ricreano un effetto unico e suggestivo, donando perfettamente l'idea di "fiaba d'altri tempi", e conducono lo spettatore in un mondo mistico dove si respirano atmosfere oniriche e surreali.
Altrettanto ottimo è il comparto sonoro, che si distingue per via di un elevatissimo numero di colonne sonore. Il doppiaggio italiano è più che adeguato.
Il finale è indubbiamente la parte migliore dell'opera, e per chi non avesse precedentemente letto la fiaba risulterà spiazzante e inaspettato. Un colpo di scena che accelera improvvisamente la narrazione, che dà voce a tutti i sentimenti dei protagonisti, fino a quel momento espressi solamente attraverso le loro azioni.
In conclusione, reputo "Kaguya Hime no Monogatari" la miglior creazione di Isao Takahata, un film intrigante e originale che però bisogna saper apprezzare. Come accennato all'inizio, non è una visione adatta a tutti, o perlomeno non è il classico film che ci si potrebbe aspettare visto il marchio di fabbrica.
Un giorno di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova nel bosco un piccolo essere luminoso dalle sembianze di una giovane donna. Convinto si tratti di una principessa pervenutagli dalla volontà dei cieli, l'anziano signore decide di portarla a casa e di accudirla al meglio delle proprie possibilità. D'un tratto, il piccolo essere luminoso si trasforma in un neonato e comincia a crescere con ritmi elevati, divenendo in poco tempo una ragazzina. In quel momento il padre adottivo decide di portarla nella capitale del regno, affinché essa venga trattata come una vera principessa merita.
Un'agiata vita principesca o una semplice vita da campagnola? Probabilmente in molti preferirebbero la prima opzione, più vantaggiosa sotto numerosi punti di vista, ma non è questo il caso di Gemma di Bambù (nome dato alla principessa dai bambini divenuti suoi amici), che trova la felicità solo in campagna, nel correre liberamente in lungo e in largo, e nell'essere circondata da persone che provano nei suoi confronti reali sentimenti di affetto. Una volta divenuta una dama in piena regola, grazie soprattutto all'insistenza del padre, per la protagonista inizierà una vita triste e monotona, che le causerà più sofferenza che altro.
Questa è una prima e più semplice riflessione che credo sorga spontanea dopo la visione dell'opera; Takahata ha particolarmente a cuore questa tematica, e dopo averla chiaramente mostrata in "Omohide Poro Poro", ventidue anni orsono, non manca di riproporla al giorno d'oggi, dove il livello di urbanizzazione è cresciuto a dismisura, e dove i vincoli imposti dalla società sono sempre maggiori e più restrittivi.
"Kaguya Hime no Monogatari" è un'opera particolare sotto tutti i punti di vista, e per questo risulta a mio avviso non essere adatta alla maggioranza degli spettatori. La trama si sviluppa molto bene, la storia in sé è intrigante e ricca di fascino, ma i tempi sono estremamente lenti, e in alcuni momenti la noia non tarderà a sopraggiungere, complice anche la lunga durata. Questo è sostanzialmente il principale difetto dell'opera.
E' un prodotto originale anche per il comparto grafico, che riesce attraverso un tratto semplice e indefinito a catturare pesantemente l'attenzione. I fondali, scarni di minuziosi dettagli ma colorati con gli acquerelli, ricreano un effetto unico e suggestivo, donando perfettamente l'idea di "fiaba d'altri tempi", e conducono lo spettatore in un mondo mistico dove si respirano atmosfere oniriche e surreali.
Altrettanto ottimo è il comparto sonoro, che si distingue per via di un elevatissimo numero di colonne sonore. Il doppiaggio italiano è più che adeguato.
Il finale è indubbiamente la parte migliore dell'opera, e per chi non avesse precedentemente letto la fiaba risulterà spiazzante e inaspettato. Un colpo di scena che accelera improvvisamente la narrazione, che dà voce a tutti i sentimenti dei protagonisti, fino a quel momento espressi solamente attraverso le loro azioni.
In conclusione, reputo "Kaguya Hime no Monogatari" la miglior creazione di Isao Takahata, un film intrigante e originale che però bisogna saper apprezzare. Come accennato all'inizio, non è una visione adatta a tutti, o perlomeno non è il classico film che ci si potrebbe aspettare visto il marchio di fabbrica.
<b>Attenzione: la recensione contiene spoiler</b>
"La storia della principessa splendente" è un film d'animazione di Takahata, basato su una famosa leggenda giapponese. Il racconto si apre con l'immagine di un anziano tagliatore di bambù che, in un giorno qualunque di lavoro nei boschi, viene attratto da una canna di bambù che inizia e risplendere e da cui sboccia un fiore in cui è racchiusa una piccola principessa (un po' come Pollicina); il vecchio tagliatore la prende tra le mani e la porta a casa sua, dove c'è la sua anziana moglie che è assolutamente incredula ma allo stesso tempo felice, poiché recepisce subito che quella creaturina dovrà crescerla come una figlia. Infatti, come la prende tra le mani, la piccola principessa si trasforma in un neonato, che non potevano non chiamare che Principessa, perché convinti che la bimba sia un principessa mandata sulla Terra per volere degli Dei.
La crescita della bambina è sorprendente e sembra crescere di minuto in minuto, e tutta la comunità del piccolo villaggio nel bosco se ne accorge, e i bambini si soffermano a guardare la bambina, sperando di vederla crescere ancora una volta come per magia; viene soprannominata Gemma di bambù. Principessa cresce felice nel bosco e immersa nella natura insieme agli altri bambini, capitanati da "fratellone" Sutemaro, un ragazzino di poco più grande degli altri. La vita scorre tranquilla, ma quando il tagliatore trova in altre canne di bambù delle pepite d'oro e sontuose vesti, inizia a pensare che gli Dei vogliano che Principessa conduca una vita più dignitosa; allora il vecchio e la famiglia si trasferiscono in città, dove fa costruire un meraviglioso castello per Principessa e le dona una educazione da nobildonna. Il suo nome da nobildonna sarà appunto Principessa Splendente. Ma la sua vita nel castello diventa sempre più triste e proibitiva: se prima ne entra come una fanciulla allegra e felice, questa la renderà una ragazza sola, triste e silenziosa.
La sua bellezza è ineguagliabile! E arriverà fino alle orecchie di nobili e principi che la vogliono in sposa, ma lei vorrà mantenere almeno quell'unica libertà che le resta. Da qui, nel castello ci saranno molte vicissitudini interessanti e un finale triste e sconvolgente, che di certo non faranno mai annoiare lo spettatore, che rimane sempre attivo e curioso nel seguire la trama.
Questo film d'animazione può essere definito quasi come una fiaba d'altri tempi.
Anche i disegni così diversi dal solito, che in alcuni tratti sembrano dei veri e propri schizzi fatti a mano, e insieme alla bellissima colonna sonora, riescono a dare il senso di libertà e solitudine che prova la protagonista. Quasi a trasmettere le sue emozioni solo con pochi tratti e poche note.
Penso che uno dei momenti più belli del film sia l'incontro con il "fratellone" Sutemaro, quando si capisce il sentimento che li unisce fin da bambini. E forse è per questo che non do un 10 pieno a "La storia della principessa splendente", perché una storia d'amore non c'è, si percepiscono dei sentimenti ma non avranno seguito, e il finale spezzerà il cuore e farà uscire qualche lacrima. Ecco, insomma, avrei gradito di più un lieto fine! Ma non si può avere tutto e si può dire che questo film è praticamente perfetto in tutto! Una trama avvincente e ben sviluppata, personaggi bellissimi e caratterizzati molto bene, anche solo dalle immagini.
Anche il significato non è da sottovalutare, o almeno i significati che comunemente possono essere recepiti anche dai non intenditori di cultura giapponese come me. Un significato molto importante per me è che i soldi e la ricchezza non fanno la felicità: Principessa era molto più felice nella sua casetta in campagna che nel bel castello, per dirla breve, poi la libertà che aveva in campagna non l'ha più, rinchiusa nel castello e isolata dal mondo. Tutto questo accade perché il padre pensa di far così il volere degli Dei, sbagliando tutto, e sarà poi questa la causa della perdita della sua amata figlia.
Un film che consiglio assolutamente e che piacerà anche ai più piccoli, perché è proprio una fiaba. Davvero molto bello! E credo che questo sia confermato anche dai numerosi premi vinti come miglior film d'animazione tra il 2013 e 2014.
"La storia della principessa splendente" è un film d'animazione di Takahata, basato su una famosa leggenda giapponese. Il racconto si apre con l'immagine di un anziano tagliatore di bambù che, in un giorno qualunque di lavoro nei boschi, viene attratto da una canna di bambù che inizia e risplendere e da cui sboccia un fiore in cui è racchiusa una piccola principessa (un po' come Pollicina); il vecchio tagliatore la prende tra le mani e la porta a casa sua, dove c'è la sua anziana moglie che è assolutamente incredula ma allo stesso tempo felice, poiché recepisce subito che quella creaturina dovrà crescerla come una figlia. Infatti, come la prende tra le mani, la piccola principessa si trasforma in un neonato, che non potevano non chiamare che Principessa, perché convinti che la bimba sia un principessa mandata sulla Terra per volere degli Dei.
La crescita della bambina è sorprendente e sembra crescere di minuto in minuto, e tutta la comunità del piccolo villaggio nel bosco se ne accorge, e i bambini si soffermano a guardare la bambina, sperando di vederla crescere ancora una volta come per magia; viene soprannominata Gemma di bambù. Principessa cresce felice nel bosco e immersa nella natura insieme agli altri bambini, capitanati da "fratellone" Sutemaro, un ragazzino di poco più grande degli altri. La vita scorre tranquilla, ma quando il tagliatore trova in altre canne di bambù delle pepite d'oro e sontuose vesti, inizia a pensare che gli Dei vogliano che Principessa conduca una vita più dignitosa; allora il vecchio e la famiglia si trasferiscono in città, dove fa costruire un meraviglioso castello per Principessa e le dona una educazione da nobildonna. Il suo nome da nobildonna sarà appunto Principessa Splendente. Ma la sua vita nel castello diventa sempre più triste e proibitiva: se prima ne entra come una fanciulla allegra e felice, questa la renderà una ragazza sola, triste e silenziosa.
La sua bellezza è ineguagliabile! E arriverà fino alle orecchie di nobili e principi che la vogliono in sposa, ma lei vorrà mantenere almeno quell'unica libertà che le resta. Da qui, nel castello ci saranno molte vicissitudini interessanti e un finale triste e sconvolgente, che di certo non faranno mai annoiare lo spettatore, che rimane sempre attivo e curioso nel seguire la trama.
Questo film d'animazione può essere definito quasi come una fiaba d'altri tempi.
Anche i disegni così diversi dal solito, che in alcuni tratti sembrano dei veri e propri schizzi fatti a mano, e insieme alla bellissima colonna sonora, riescono a dare il senso di libertà e solitudine che prova la protagonista. Quasi a trasmettere le sue emozioni solo con pochi tratti e poche note.
Penso che uno dei momenti più belli del film sia l'incontro con il "fratellone" Sutemaro, quando si capisce il sentimento che li unisce fin da bambini. E forse è per questo che non do un 10 pieno a "La storia della principessa splendente", perché una storia d'amore non c'è, si percepiscono dei sentimenti ma non avranno seguito, e il finale spezzerà il cuore e farà uscire qualche lacrima. Ecco, insomma, avrei gradito di più un lieto fine! Ma non si può avere tutto e si può dire che questo film è praticamente perfetto in tutto! Una trama avvincente e ben sviluppata, personaggi bellissimi e caratterizzati molto bene, anche solo dalle immagini.
Anche il significato non è da sottovalutare, o almeno i significati che comunemente possono essere recepiti anche dai non intenditori di cultura giapponese come me. Un significato molto importante per me è che i soldi e la ricchezza non fanno la felicità: Principessa era molto più felice nella sua casetta in campagna che nel bel castello, per dirla breve, poi la libertà che aveva in campagna non l'ha più, rinchiusa nel castello e isolata dal mondo. Tutto questo accade perché il padre pensa di far così il volere degli Dei, sbagliando tutto, e sarà poi questa la causa della perdita della sua amata figlia.
Un film che consiglio assolutamente e che piacerà anche ai più piccoli, perché è proprio una fiaba. Davvero molto bello! E credo che questo sia confermato anche dai numerosi premi vinti come miglior film d'animazione tra il 2013 e 2014.
Premessa: l'essere un conoscitore di anime e manga non implica automaticamente l'essere anche un fine conoscitore della storia e delle tradizioni giapponesi. Voler affermare questo sarebbe ridicolo: sarebbe un po' come se qualcuno ci dicesse di conoscere la nostra storia perché ha visto la Gioconda e il Colosseo oppure perché legge "Dylan Dog".
Mi rendo conto che questa è una constatazione piuttosto ovvia; ad essa, però, ne voglio aggiungere un'altra forse meno scontata: solo perché leggo manga e guardo anime non sono obbligato a informarmi sui miti e sulle leggende orientali che trovano spazio all'interno del lavoro che sto visionando. E' altresì chiaro che la mia comprensione del significato complessivo dell'opera risulterà carente; tuttavia, anche lo spingersi a fare commenti da intenditore dopo aver leggiucchiato qualche pagina di Wikipedia sull'argomento mi sembra poco credibile.
Queste riflessioni hanno tenuta occupata la mia mente nel momento in cui ho deciso di cominciare la recensione de "La storia della principessa splendente", un film di due ore circa in cui i riferimenti alle tradizioni e ai miti giapponesi si susseguono fotogramma dopo fotogramma; per cui mi sono chiesto: "Qual è in questi casi il compito del recensore? Deve per forza cercare di dare un senso a tutto oppure può semplicemente basarsi su quei contenuti universalmente recepibili?" A mio avviso tutte e due le possibilità sono corrette; e ovviamente io ho optato per la seconda opzione.
Mentre si dedicava, come suo solito, alla raccolta del bambù, un vecchio montanaro vede una strana luce provenire da uno di quegli alberi. Con suo grande stupore scopre che immersa in quel bagliore c'era una ragazza avente le dimensioni di una bambola; così, credendo si trattasse di un dono del cielo, il vecchio raccolse la ragazza e la portò nella sua casa dove, tra il suo stupore e quello della moglie, ella si trasformò in una bambina vera. Vera, ma un po' particolare, però: il suo ritmo di crescita era decisamente più veloce del normale.
Il film è allo stesso tempo semplice e profondo. In particolare sono due i temi che meritano maggiore attenzione: il confronto tra campagna e città, e l'interpretazione della volontà divina.
Quanto al primo punto vediamo che la principessa rimpiangerà sempre i giorni della sua infanzia, passati a giocare tra i campi con i suoi amici. La vita in campagna viene descritta povera ma libera, e si contrappone a quella di città che al contrario è ricca ma schiava di infiniti formalismi che costringono le persone (e le donne in particolare) a una innaturale solitudine. Unica via d'uscita per la principessa da questo stato delle cose è il matrimonio, ma lei rifiuta energicamente qualsiasi pretendente, in quanto riconosce in essi solo un nuovo padrone e nel matrimonio una nuova fonte di schiavitù. Questo suo rifiuto, a cui si contrappone il dolce ricordo di un suo povero compagno d'infanzia, va interpretato come il riconoscimento della vera ricchezza nella libertà e non nel denaro; e la libertà, in questo film, abita in campagna.
Quanto al secondo punto, il film ci mostra quanto possa risultare presuntuoso l'individuo che, da solo, ritiene di essere in grado di interpretare la realtà divina. Il vecchio, credendo di riuscire a interpretare i segni che gli venivano mandati, commette un errore dopo l'altro, fino ad arrivare a quella che per lui rappresenta la massima sventura. Quel che si nota è che pian piano la buona fede dell'individuo cede il passo alla sua ambizione personale, fino a far coincidere le sue aspirazioni con la supposta volontà divina. Soffocato dal proprio ego, il vecchio non riuscirà più a sentire la voce della sua diletta figliola e finirà per diventare il principale responsabile della sua perdita. E questo, a mio avviso, è un monito rivolto all'uomo che, troppo spesso, crede di essere nel giusto solo perché il suo concetto di giustizia coincide con le sue ambizioni o coi dettami della società che lo circonda.
In definitiva un ottimo film, l'ideale per chi è appassionato di cultura giapponese, ma che può essere apprezzato anche dal resto dell'utenza; personalmente mi sento di consigliarlo a tutti, specie a chi ha qualche bambino piccolo alla ricerca di qualche nuova favola.
Mi rendo conto che questa è una constatazione piuttosto ovvia; ad essa, però, ne voglio aggiungere un'altra forse meno scontata: solo perché leggo manga e guardo anime non sono obbligato a informarmi sui miti e sulle leggende orientali che trovano spazio all'interno del lavoro che sto visionando. E' altresì chiaro che la mia comprensione del significato complessivo dell'opera risulterà carente; tuttavia, anche lo spingersi a fare commenti da intenditore dopo aver leggiucchiato qualche pagina di Wikipedia sull'argomento mi sembra poco credibile.
Queste riflessioni hanno tenuta occupata la mia mente nel momento in cui ho deciso di cominciare la recensione de "La storia della principessa splendente", un film di due ore circa in cui i riferimenti alle tradizioni e ai miti giapponesi si susseguono fotogramma dopo fotogramma; per cui mi sono chiesto: "Qual è in questi casi il compito del recensore? Deve per forza cercare di dare un senso a tutto oppure può semplicemente basarsi su quei contenuti universalmente recepibili?" A mio avviso tutte e due le possibilità sono corrette; e ovviamente io ho optato per la seconda opzione.
Mentre si dedicava, come suo solito, alla raccolta del bambù, un vecchio montanaro vede una strana luce provenire da uno di quegli alberi. Con suo grande stupore scopre che immersa in quel bagliore c'era una ragazza avente le dimensioni di una bambola; così, credendo si trattasse di un dono del cielo, il vecchio raccolse la ragazza e la portò nella sua casa dove, tra il suo stupore e quello della moglie, ella si trasformò in una bambina vera. Vera, ma un po' particolare, però: il suo ritmo di crescita era decisamente più veloce del normale.
Il film è allo stesso tempo semplice e profondo. In particolare sono due i temi che meritano maggiore attenzione: il confronto tra campagna e città, e l'interpretazione della volontà divina.
Quanto al primo punto vediamo che la principessa rimpiangerà sempre i giorni della sua infanzia, passati a giocare tra i campi con i suoi amici. La vita in campagna viene descritta povera ma libera, e si contrappone a quella di città che al contrario è ricca ma schiava di infiniti formalismi che costringono le persone (e le donne in particolare) a una innaturale solitudine. Unica via d'uscita per la principessa da questo stato delle cose è il matrimonio, ma lei rifiuta energicamente qualsiasi pretendente, in quanto riconosce in essi solo un nuovo padrone e nel matrimonio una nuova fonte di schiavitù. Questo suo rifiuto, a cui si contrappone il dolce ricordo di un suo povero compagno d'infanzia, va interpretato come il riconoscimento della vera ricchezza nella libertà e non nel denaro; e la libertà, in questo film, abita in campagna.
Quanto al secondo punto, il film ci mostra quanto possa risultare presuntuoso l'individuo che, da solo, ritiene di essere in grado di interpretare la realtà divina. Il vecchio, credendo di riuscire a interpretare i segni che gli venivano mandati, commette un errore dopo l'altro, fino ad arrivare a quella che per lui rappresenta la massima sventura. Quel che si nota è che pian piano la buona fede dell'individuo cede il passo alla sua ambizione personale, fino a far coincidere le sue aspirazioni con la supposta volontà divina. Soffocato dal proprio ego, il vecchio non riuscirà più a sentire la voce della sua diletta figliola e finirà per diventare il principale responsabile della sua perdita. E questo, a mio avviso, è un monito rivolto all'uomo che, troppo spesso, crede di essere nel giusto solo perché il suo concetto di giustizia coincide con le sue ambizioni o coi dettami della società che lo circonda.
In definitiva un ottimo film, l'ideale per chi è appassionato di cultura giapponese, ma che può essere apprezzato anche dal resto dell'utenza; personalmente mi sento di consigliarlo a tutti, specie a chi ha qualche bambino piccolo alla ricerca di qualche nuova favola.
Nel 2013, con "Kaguya-hime no Monogatari", Isao Takahata - uno dei più grandi registi della storia dell'animazione giapponese - lascia ai posteri il suo testamento spirituale, un'opera estremamente essenziale e allo stesso tempo molto profonda e densa di simbolismi. Il film è basato su un antico racconto popolare giapponese, il "Taketori no Monogatari"; tale soggetto, estremamente atavico e quanto mai distante dall'attuale cultura occidentalizzata del Giappone moderno, viene plasmato dall'inconfondibile stile dell'autore, il quale gli conferisce uno stile evanescente e strettamente personale.
Un giorno, un anziano tagliatore di bambù trova per caso un misterioso ed elegante essere luminoso nel fusto di una pianta di bambù. Per l'umile vecchio, tale essere dalle sembianze di una piccola principessa è indubbiamente un dono elargito dal cielo; ergo egli lo accoglie con gioia nella sua casa e decide di crescerlo come un figlio. In breve tempo, da essere magico la piccola principessa è diventata un neonato che cresce a dismisura, e questa rapida crescita porterà in breve tempo Gemma di Bambù - questo è il nome affibbiato alla misteriosa bambina, data la sua sovrannaturale capacità di sviluppo - a diventare una vivace ragazza allegra e piena di entusiasmo. Tuttavia, è impossibile per Gemma di Bambù evitare il momento in cui dovrà dire addio alla felicità: ella verrà condotta dai genitori adottivi in città - venendo costretta a rinunciare a quella simbiosi con la vita che alimentava quelle gaie giornate in cui la meraviglia del vivere era meramente indotta dalle cose semplici e ordinarie -, e dovrà diventare suo malgrado una raffinata dama dell'alta società, perché tale, secondo il vecchio tagliatore di Bambù, è la volontà divina. Ma la volontà divina è molto distante dall'uomo: è un qualcosa di incomprensibile, di sfuggente, di intimamente legato alla natura delle cose. La Principessa Splendente, nata da una canna di bambù e intimamente legata all'essenza della vita, è tristemente sola nel mondo degli uomini; quel mondo di menzogne così distante dal luogo superno in cui ella viveva prima d'incarnarsi sulla terra.
Il folklore giapponese è denso di simbolismi legati allo shintoismo e al buddhismo; e, in "Kaguya-hime no Monogatari", questi elementi sono altresì presenti in grande quantità. Il film tuttavia propende verso una concezione vitalistica più affine allo shintoismo che al buddhismo: secondo Isao Takahata, le passioni e la vita terrena non vanno disprezzate, ma sono cose necessarie alla propria crescita interiore. La storia della Principessa Splendente è quindi paragonabile ad un percorso in cui la meta/non-meta finale - ovvero il Nirvana, l'annullamento, il distacco ultimo dalle cose terrene - è l'ultima tappa di un cammino fatto di sofferenza, di gioia, di amore, di comprensione, di rabbia, di perdita. Nel film ritorna la poetica dell'autorealizzazione del sé, nonché il contrasto presente tra la ricerca di sé stessi e i vincoli imposti dalle formalità della vita urbana (si pensi al capolavoro "Omohide Poro Poro"). Il finale del film è molto evocativo, e con il suo retrogusto spiccatamente drammatico lascia intendere il messaggio-testamento dell'autore, un grande inno all'esistenza e alla totalità delle cose, ovvero a quell'illimitato mare in cui è ancora possibile trovare sé stessi nonostante l'opposizione delle fredde ed imperturbabili leggi decretate dall'uomo e dalle divinità.
Se da un lato "Kaguya-hime no Monogatari" è puro folklore, dall'altro è pura poesia; e questi due elementi corrispondono tra loro con la giusta armonia. Isao Takahata con quest'opera decide di restare un grande poeta sino all'ultimo, senza smentire la sua fama di artista dotato di un'innata sensibilità e di un'intellettualità particolarissima e ricercata. Con questo film Isao Takahata va a scandagliare le profondità abissali dell'esistenza, perdendosi nei meandri del patrimonio collettivo e atavico della cultura del Giappone antico. Il tema della "ragazza che scompare" è molto ricorrente nel folklore giapponese, e antropologicamente è intimamente legato a quel passato comune a tutti i popoli in cui avvenne la transizione dal matriarcato al patriarcato: non a caso la Principessa Splendente possiede una grande affinità con la Luna e con il raccolto, entrambi elementi considerati sacri nelle varie tradizioni matriarcali appartenenti alle culture ancestrali di tutto il mondo. Il calendario lunare è infatti molto più antico del calendario solare, ed è intimamente legato all'attività agricola, che si pensava fosse favorita da una grande "Dea Lunare" e/o "Dea Madre". Gradualmente, il potere passò dalle mani delle donne a quelle degli uomini; e studiando il patrimonio mitologico di tutte le culture è possibile trovare moltissimi indizi di questa profonda trasformazione sociale avvenuta migliaia di anni fa (uno studio del genere è stato fatto da Robert Graves nel suo illuminante libro "La Dea Bianca"). A mio avviso una completa trattazione di stampo antropologico - la quale andrebbe comunque fatta in altra sede - permetterebbe una maggiore comprensione della natura degli archetipi comuni alle culture di tutta l'umanità.
Chiudendo la precedente divagazione e tornando a parlare dell'opera in sé, la Principessa Splendente di Takahata non è soltanto un mero archetipo, giacché egli la plasma infondendole una caratterizzazione molto particolare, più vicina a quella di una vera ragazza in carne ed ossa che a un simbolo dai connotati mitologici. La Principessa ride, piange, si tormenta, e viene altresì colta dal dubbio. Ella è sacra e profana allo stesso tempo.
Tra le numerose scene del film, una in particolare è rimasta gradevolmente impressa nella mia memoria: quando la protagonista fa notare alla madre adottiva che, se visto da una prospettiva differente, il giardino presente nella loro casa in città sia in realtà molto simile alle campagne dalle quali si erano trasferiti. Tale scena, nella sua estrema semplicità, a mio avviso nasconde un significato molto profondo: la natura ripete sé stessa su scale differenti, differenziandosi e allo stesso tempo conservando la stessa sostanza in tutte le sue innumerevoli manifestazioni. Su un diverso piano di lettura, gli steli che paiono alberi e le formiche che paiono animali di campagna stanno lì a simboleggiare che le cose sono strettamente legate al modo con cui le si osserva; e che neanche un'artificiosa città abitata da degli altrettanto artificiosi uomini si può sottrarre alle sostanziali ricorrenze della natura.
Per quanto concerne gli aspetti tecnici del film, la regia estremamente d'autore si dimostra in grado di trasmettere lo stato d'animo della protagonista facendo esprimere ai fondali, ai colori e ai suoni l'essenza della sua stessa anima. In una scena, ad esempio, la disperazione della Principessa viene rappresentata mediante un tetro lamento dell'intera natura circostante: gli alberi diventano improvvisamente scuri, aggrovigliati, il tutto si fa angoscioso, frenetico, opprimente. Takahata fa parlare direttamente l'immagine come se fosse una poesia dai versi aspri e cupi, fornendo alla sua opera affascinanti risvolti espressionisti. Lo stile di disegno è alquanto particolare, un misto tra design tradizionale e sperimentalismo grafico; gli acquarelli e l'indeterminatezza del tratto - che rimane sul vago risultando allo stesso tempo estremamente espressivo - rendono la visione molto simile a un sogno ad occhi aperti. La vivacità della Principessa Splendente si riflette come d'incanto nelle suggestive ed eteree visioni naturalistiche dell'autore, quei luoghi dal cielo bianchissimo e imperturbato tipici della sua poetica.
In conclusione, a mio avviso questo non è affatto un film per tutti, ma un prodotto estremamente di nicchia, godibile appieno soltanto da chi ha una certa dimestichezza con la cultura giapponese. E' una fiaba molto profonda, "Kaguya-hime no Monogatari", che andrebbe rivista più volte per poterne coglierne le molteplici sfaccettature.
Un giorno, un anziano tagliatore di bambù trova per caso un misterioso ed elegante essere luminoso nel fusto di una pianta di bambù. Per l'umile vecchio, tale essere dalle sembianze di una piccola principessa è indubbiamente un dono elargito dal cielo; ergo egli lo accoglie con gioia nella sua casa e decide di crescerlo come un figlio. In breve tempo, da essere magico la piccola principessa è diventata un neonato che cresce a dismisura, e questa rapida crescita porterà in breve tempo Gemma di Bambù - questo è il nome affibbiato alla misteriosa bambina, data la sua sovrannaturale capacità di sviluppo - a diventare una vivace ragazza allegra e piena di entusiasmo. Tuttavia, è impossibile per Gemma di Bambù evitare il momento in cui dovrà dire addio alla felicità: ella verrà condotta dai genitori adottivi in città - venendo costretta a rinunciare a quella simbiosi con la vita che alimentava quelle gaie giornate in cui la meraviglia del vivere era meramente indotta dalle cose semplici e ordinarie -, e dovrà diventare suo malgrado una raffinata dama dell'alta società, perché tale, secondo il vecchio tagliatore di Bambù, è la volontà divina. Ma la volontà divina è molto distante dall'uomo: è un qualcosa di incomprensibile, di sfuggente, di intimamente legato alla natura delle cose. La Principessa Splendente, nata da una canna di bambù e intimamente legata all'essenza della vita, è tristemente sola nel mondo degli uomini; quel mondo di menzogne così distante dal luogo superno in cui ella viveva prima d'incarnarsi sulla terra.
Il folklore giapponese è denso di simbolismi legati allo shintoismo e al buddhismo; e, in "Kaguya-hime no Monogatari", questi elementi sono altresì presenti in grande quantità. Il film tuttavia propende verso una concezione vitalistica più affine allo shintoismo che al buddhismo: secondo Isao Takahata, le passioni e la vita terrena non vanno disprezzate, ma sono cose necessarie alla propria crescita interiore. La storia della Principessa Splendente è quindi paragonabile ad un percorso in cui la meta/non-meta finale - ovvero il Nirvana, l'annullamento, il distacco ultimo dalle cose terrene - è l'ultima tappa di un cammino fatto di sofferenza, di gioia, di amore, di comprensione, di rabbia, di perdita. Nel film ritorna la poetica dell'autorealizzazione del sé, nonché il contrasto presente tra la ricerca di sé stessi e i vincoli imposti dalle formalità della vita urbana (si pensi al capolavoro "Omohide Poro Poro"). Il finale del film è molto evocativo, e con il suo retrogusto spiccatamente drammatico lascia intendere il messaggio-testamento dell'autore, un grande inno all'esistenza e alla totalità delle cose, ovvero a quell'illimitato mare in cui è ancora possibile trovare sé stessi nonostante l'opposizione delle fredde ed imperturbabili leggi decretate dall'uomo e dalle divinità.
Se da un lato "Kaguya-hime no Monogatari" è puro folklore, dall'altro è pura poesia; e questi due elementi corrispondono tra loro con la giusta armonia. Isao Takahata con quest'opera decide di restare un grande poeta sino all'ultimo, senza smentire la sua fama di artista dotato di un'innata sensibilità e di un'intellettualità particolarissima e ricercata. Con questo film Isao Takahata va a scandagliare le profondità abissali dell'esistenza, perdendosi nei meandri del patrimonio collettivo e atavico della cultura del Giappone antico. Il tema della "ragazza che scompare" è molto ricorrente nel folklore giapponese, e antropologicamente è intimamente legato a quel passato comune a tutti i popoli in cui avvenne la transizione dal matriarcato al patriarcato: non a caso la Principessa Splendente possiede una grande affinità con la Luna e con il raccolto, entrambi elementi considerati sacri nelle varie tradizioni matriarcali appartenenti alle culture ancestrali di tutto il mondo. Il calendario lunare è infatti molto più antico del calendario solare, ed è intimamente legato all'attività agricola, che si pensava fosse favorita da una grande "Dea Lunare" e/o "Dea Madre". Gradualmente, il potere passò dalle mani delle donne a quelle degli uomini; e studiando il patrimonio mitologico di tutte le culture è possibile trovare moltissimi indizi di questa profonda trasformazione sociale avvenuta migliaia di anni fa (uno studio del genere è stato fatto da Robert Graves nel suo illuminante libro "La Dea Bianca"). A mio avviso una completa trattazione di stampo antropologico - la quale andrebbe comunque fatta in altra sede - permetterebbe una maggiore comprensione della natura degli archetipi comuni alle culture di tutta l'umanità.
Chiudendo la precedente divagazione e tornando a parlare dell'opera in sé, la Principessa Splendente di Takahata non è soltanto un mero archetipo, giacché egli la plasma infondendole una caratterizzazione molto particolare, più vicina a quella di una vera ragazza in carne ed ossa che a un simbolo dai connotati mitologici. La Principessa ride, piange, si tormenta, e viene altresì colta dal dubbio. Ella è sacra e profana allo stesso tempo.
Tra le numerose scene del film, una in particolare è rimasta gradevolmente impressa nella mia memoria: quando la protagonista fa notare alla madre adottiva che, se visto da una prospettiva differente, il giardino presente nella loro casa in città sia in realtà molto simile alle campagne dalle quali si erano trasferiti. Tale scena, nella sua estrema semplicità, a mio avviso nasconde un significato molto profondo: la natura ripete sé stessa su scale differenti, differenziandosi e allo stesso tempo conservando la stessa sostanza in tutte le sue innumerevoli manifestazioni. Su un diverso piano di lettura, gli steli che paiono alberi e le formiche che paiono animali di campagna stanno lì a simboleggiare che le cose sono strettamente legate al modo con cui le si osserva; e che neanche un'artificiosa città abitata da degli altrettanto artificiosi uomini si può sottrarre alle sostanziali ricorrenze della natura.
Per quanto concerne gli aspetti tecnici del film, la regia estremamente d'autore si dimostra in grado di trasmettere lo stato d'animo della protagonista facendo esprimere ai fondali, ai colori e ai suoni l'essenza della sua stessa anima. In una scena, ad esempio, la disperazione della Principessa viene rappresentata mediante un tetro lamento dell'intera natura circostante: gli alberi diventano improvvisamente scuri, aggrovigliati, il tutto si fa angoscioso, frenetico, opprimente. Takahata fa parlare direttamente l'immagine come se fosse una poesia dai versi aspri e cupi, fornendo alla sua opera affascinanti risvolti espressionisti. Lo stile di disegno è alquanto particolare, un misto tra design tradizionale e sperimentalismo grafico; gli acquarelli e l'indeterminatezza del tratto - che rimane sul vago risultando allo stesso tempo estremamente espressivo - rendono la visione molto simile a un sogno ad occhi aperti. La vivacità della Principessa Splendente si riflette come d'incanto nelle suggestive ed eteree visioni naturalistiche dell'autore, quei luoghi dal cielo bianchissimo e imperturbato tipici della sua poetica.
In conclusione, a mio avviso questo non è affatto un film per tutti, ma un prodotto estremamente di nicchia, godibile appieno soltanto da chi ha una certa dimestichezza con la cultura giapponese. E' una fiaba molto profonda, "Kaguya-hime no Monogatari", che andrebbe rivista più volte per poterne coglierne le molteplici sfaccettature.