I miei 23 schiavi
Devo ammettere che non mi aspettavo molto da questo titolo. A dirla tutta ho avuto il sentore, di primo acchito, che si trattasse di una vera e propria trashata. E, per carità, in un certo senso lo è, ed anzi l’autore ci gioca molto su questo elemento, persino a partire dalle copertine che reinterpretano i protagonisti di questo manga in chiave sadomaso (cane incluso!).
La trama è presto detta: esiste una sorta di apparecchio ortodontico (l’SCM) che permette a chi lo indossa di poter sfidare un altro possessore: il perdente diventa lo schiavo ed è costretto ad eseguire praticamente qualsiasi ordine del padrone. Come è facile immaginare, la cosa viene interpretata innanzitutto in chiave sessuale in molti frangenti di questa storia, ma non solo.
Da questo incipit prenderanno quindi il via le vicende di una rosa sempre più ampia di personaggi, che finiranno per intrecciarsi e ingarbugliarsi tra di loro sempre più, a volta sorprendentemente, sempre a causa di questo SCM.
Ognuno ha le sue motivazioni: possono essere superficiali, malate, disperate o persino in qualche modo nobili. Fatto sta che ne viene fuori un susseguirsi di sfide, macchinazioni e trabocchetti che sicuramente tiene desta l’attenzione per tutta la durata dei 10 volumi che compongono il manga. Anche perché l’SCM ha tutta una serie di vincoli e regole, e molte di esse sono da scoprire strada facendo, assieme ad una serie di interrogativi riguardanti la natura di questo marchingegno, chi l’ha creato e come si stia diffondendo...
Sappiamo bene però come in storie di questo tipo dipenda tutto o quasi da quanto son ben pensati gli stratagemmi, i colpi di scena, i ragionamenti e le deduzioni intricate dei personaggi in gioco. Più il risultato è, quindi, simile ad una partita a scacchi, e più l’opera risulta meritevole. E il manga in oggetto è in parte un “vorrei ma non posso”, nel senso che sicuramente mostra dall’inizio un ottimo potenziale, avvince e intrattiene anche se con alti e bassi, ma non siamo di certo ai livelli di un Death Note (per citare un esponente famoso del genere, apprezzabilissimo nonostante i suoi pregi e difetti). Infatti a volte il risultato di certe sfide è un po’ tirato via alla buona, e gli stratagemmi poco credibili o cmq forzati.
Ad alzare il livello nell’economia generale, però, concorrono i personaggi. Nonostante non siano paradossalmente nulla di originale, alla fine ci si lega abbastanza ad alcuni di loro, tanto che risultano particolarmente apprezzabili, sotto tale ottica, le ultime tavole del manga che narrano che fine abbiano quindi fatto questi, e come abbiano proseguito i loro percorsi di vita.
Non aspettatevi nulla di geniale quindi: non penso che questo sarà un titolo che si ricorderà negli anni a venire; ma se vi piace il genere e non site troppo puntigliosi, una lettura la merita. Qualche freccia al proprio arco ce l’ha, e nel complesso è un titolo anche abbastanza “solido” e godibile. Non a caso è in arrivo una sua trasposizione animata, che penso non passerà inosservata.
La trama è presto detta: esiste una sorta di apparecchio ortodontico (l’SCM) che permette a chi lo indossa di poter sfidare un altro possessore: il perdente diventa lo schiavo ed è costretto ad eseguire praticamente qualsiasi ordine del padrone. Come è facile immaginare, la cosa viene interpretata innanzitutto in chiave sessuale in molti frangenti di questa storia, ma non solo.
Da questo incipit prenderanno quindi il via le vicende di una rosa sempre più ampia di personaggi, che finiranno per intrecciarsi e ingarbugliarsi tra di loro sempre più, a volta sorprendentemente, sempre a causa di questo SCM.
Ognuno ha le sue motivazioni: possono essere superficiali, malate, disperate o persino in qualche modo nobili. Fatto sta che ne viene fuori un susseguirsi di sfide, macchinazioni e trabocchetti che sicuramente tiene desta l’attenzione per tutta la durata dei 10 volumi che compongono il manga. Anche perché l’SCM ha tutta una serie di vincoli e regole, e molte di esse sono da scoprire strada facendo, assieme ad una serie di interrogativi riguardanti la natura di questo marchingegno, chi l’ha creato e come si stia diffondendo...
Sappiamo bene però come in storie di questo tipo dipenda tutto o quasi da quanto son ben pensati gli stratagemmi, i colpi di scena, i ragionamenti e le deduzioni intricate dei personaggi in gioco. Più il risultato è, quindi, simile ad una partita a scacchi, e più l’opera risulta meritevole. E il manga in oggetto è in parte un “vorrei ma non posso”, nel senso che sicuramente mostra dall’inizio un ottimo potenziale, avvince e intrattiene anche se con alti e bassi, ma non siamo di certo ai livelli di un Death Note (per citare un esponente famoso del genere, apprezzabilissimo nonostante i suoi pregi e difetti). Infatti a volte il risultato di certe sfide è un po’ tirato via alla buona, e gli stratagemmi poco credibili o cmq forzati.
Ad alzare il livello nell’economia generale, però, concorrono i personaggi. Nonostante non siano paradossalmente nulla di originale, alla fine ci si lega abbastanza ad alcuni di loro, tanto che risultano particolarmente apprezzabili, sotto tale ottica, le ultime tavole del manga che narrano che fine abbiano quindi fatto questi, e come abbiano proseguito i loro percorsi di vita.
Non aspettatevi nulla di geniale quindi: non penso che questo sarà un titolo che si ricorderà negli anni a venire; ma se vi piace il genere e non site troppo puntigliosi, una lettura la merita. Qualche freccia al proprio arco ce l’ha, e nel complesso è un titolo anche abbastanza “solido” e godibile. Non a caso è in arrivo una sua trasposizione animata, che penso non passerà inosservata.
“Avete mai giocato all'Osama game durante una festa con gli amici? Non vi è capitato di vedere qualche programma televisivo in cui delle celebrità facevano qualche stupido pegno per gioco? Perché tutti fanno quello che viene chiesto loro, nonostante siano cose che non vorrebbero fare? La ragione per cui si accetta un pegno risiede nel senso di responsabilità. Più provano tale sensazione, più le persone cercano di portare a termine il proprio dovere. Quest'oggetto, l'SCM, grazie a un particolare meccanismo, amplifica il senso di responsabilità. Sfruttando tale sistema, riesce a trasformare gli altri in schiavi” (manuale delle istruzioni dell'SCM pagina 1).
Davvero non male come inizio: quello di possedere uno schiavo non è certamente una delle mie aspirazioni ma, se focalizziamo l'analisi sulle potenzialità letterarie di un incipit del genere, allora le cose si fanno molto interessanti.
Se il potere “logora chi non ce l'ha” allora è certo che a logorarsi saranno la stragrande maggioranza delle persone che abitano questo pianeta. E' vero che se parliamo di “potere assoluto” la percentuale degli aspiranti al trono di Luigi XIV scende drasticamente; ma se invece consideriamo una forma di “potere relativo”, ossia da esercitare solo sulle persone che fanno parte, nel bene e nel male, della nostra vita, allora il desiderio di provare l'ebrezza del comando accomuna un po' tutti gli uomini, specie in una società competitiva come la nostra.
Ovviamente con questo non intendo dire che siamo tutti potenziali schiavisti: quello che intendo dire è che ad ognuno di noi piacerebbe avere la sua fetta di potere per motivi che possono essere i più disparati. Le persone generalmente cercano di migliorarsi per poter offrire le proprie qualità in cambio di un compenso in termini di riconoscimenti economici, affettivi, morali o fisici; e poi c'è anche chi non si impegna affatto ma è comunque alla ricerca degli stessi riconoscimenti. E' questo, però, un modello che genera inevitabilmente frustrazione, in quanto non c'è la possibilità di garantire a tutti ciò che desiderano: se ci sono dieci persone che ambiscono al posto di direttore aziendale, soltanto uno di loro riuscirà a spuntarla; se a più uomini piace la stessa donna, soltanto uno (se gli va bene e se lei non sarà particolarmente generosa) riuscirà a conquistarla. Chi perde in queste competizioni per carenza di qualità, per sfortuna, per scorrettezze degli altri concorrenti o per chissà quale altro motivo sarà vittima di sentimenti come tristezza, noia, delusione, ira, voglia di riscatto.
Cosa succederebbe allora se si offrisse ai “vinti” la possibilità di ottenere ciò che desiderano attraverso l'uso di un semplice marchingegno elettronico? In quanti rifiuterebbero perché la cosa è contraria ai propri principi morali?
I miei ventitré schiavi è un viaggio in un mondo in cui questo è diventato possibile: grazie all'uso dell'SCM, un congegno futuristico da inserire fra i denti, è possibile ridurre in schiavitù le persone (dotate anch'esse di SCM) che accettano di partecipare ad una sfida qualsiasi. Bisogna quindi competere contro avversari che hanno lo stesso obiettivo e vincere; in caso di sconfitta, invece, si diventerà schiavi del vincitore. Il rischio, quindi, è grosso; ma in fondo “si vince una volta e si è re per sempre”... o almeno fino alla prossima sfida.
Nonostante le ottime premesse ed un inizio che sembrava assecondare le mie aspettative, questo manga purtroppo non si è dimostrato essere all'altezza dell'ambizioso compito che si era prefissato. I motivi sono diversi e meritano una separata trattazione.
In primo luogo le regole dell'SCM sono troppo invadenti. Qualcuno ha notato una certa somiglianza tra questo manga e Death Note proprio in virtù del modo in cui queste regole sono state enunciate; personalmente credo che gli autori, con tutta probabilità, si siano ispirati all'opera di Oba ma, francamente, non darei troppa importanza alla cosa.
Il vero problema, invece, sta nel fatto che queste regole aumentano volumetto dopo volumetto fino a diventare veramente troppe: se si voleva mettere al centro della narrazione la reazione della psicologia umana di fronte a sistemi che permettono di “vincere facile” sarebbe stato più opportuno adottare solo poche regole facilmente comprensibili e lasciare muovere i personaggi attorno ad esse. Invece vengono introdotte di continuo nuove peculiarità dell'SCM che da un lato rendono questo strumento sempre meno credibile e dall'altro inducono il lettore a rinunciare all'ingrato compito di seguire tutte queste evoluzioni, in quanto dopo poco si diventa coscienti del fatto che tutte queste novità vengono introdotte solo per risolvere problemi specifici della narrazione, senza badare troppo alle contraddizioni che si vengono a creare e senza badare troppo all'inutile complessità che ne deriva.
In secondo luogo l'approfondimento psicologico dei personaggi è poco soddisfacente. “I miei ventitré schiavi” cerca di raccontare lo stato di miseria psicologica in cui si trovavano i personaggi all'inizio della storia, il modo in cui questi si avvicinano all'SCM ed il comportamento che adottano dopo essere entrati a far parte di questo perverso gioco. Ad ognuno di essi viene dedicata un'apposita sezione all'interno del manga e questa, come scelta, l'ho trovata appropriata; in più, alcuni personaggi vengono resi anche piuttosto bene. In particolare le motivazioni del cattivo di turno non sono poi così folli e campate in aria come sembra, ma hanno una loro perversa coerenza se circoscritte al particolare tema trattato.
Però se gli schiavi sono ventitré mentre i volumetti sono dieci si capisce benissimo quanto spazio possa essere dedicato ad ognuno di essi. Così ci troviamo di fronte a moltissimi personaggi la cui storia è solo abbozzata e che per questo finiscono per avere un'importanza davvero marginale all'interno della trama. Lentamente, anzi, si finisce addirittura per dimenticare la loro stessa esistenza.
In terzo luogo alcune scelte narrative lasciano molte perplessità. Se l'approccio “fantascientifico” doveva essere usato come pretesto per scrivere una storia piena di macabro realismo, bisognava mantenere questo approccio dall'inizio alla fine per poi arrivare a conclusioni dettate solo dalle azioni e dalla psicologia dell'uomo. Purtroppo, invece, si è tornati a preferire l'elemento fantascientifico ed il risultato ottenuto è stato meno appagante rispetto alle aspettative.
Se si eccettua la prima critica (a mio avviso incontestabile) a ben vedere gli altri due punti possono essere considerati come semplici perplessità: la loro presenza è fastidiosa ma non compromette seriamente la godibilità della storia. “I miei ventitré schiavi”, in sostanza, può essere considerato come un'opera da cui era lecito attendersi di più a livello qualitativo, data la serietà del tema trattato; si è optato, però, per la creazione di un semplice titolo d'intrattenimento a sfondo fantascientifico. Come scelta l'ho trovata deludente ma se devo giudicare l'opera sotto il profilo della capacità di mantenere alto l'interesse del lettore non ho difficoltà ad ammettere che si tratta di un titolo abbastanza solido.
Concludo con una mia curiosità personale: come mai questo manga è stato etichettato come “fumetto destinato ad un pubblico adulto”? L'ambientazione è sicuramente molto cupa e, in effetti, qualche scena un po' cruda c'è; ma credo di aver letto manga molto più scabrosi di questo senza che nessuno se ne lamentasse. La mia opinione personale è che ci si sia lasciati influenzare dal titolo e soprattutto dai disegni in copertina: quest'ultimi sono bellissimi ma anche un po' disturbanti (in senso positivo dal mio punto di vista ma immagino che non tutti la possano pensare come me). Il contenuto del manga, però, è molto, ma molto più soft rispetto a quello della sua copertina e a mio avviso non credo possa avere “effetti traumatici sulla sensibilità dei giovani”.
Davvero non male come inizio: quello di possedere uno schiavo non è certamente una delle mie aspirazioni ma, se focalizziamo l'analisi sulle potenzialità letterarie di un incipit del genere, allora le cose si fanno molto interessanti.
Se il potere “logora chi non ce l'ha” allora è certo che a logorarsi saranno la stragrande maggioranza delle persone che abitano questo pianeta. E' vero che se parliamo di “potere assoluto” la percentuale degli aspiranti al trono di Luigi XIV scende drasticamente; ma se invece consideriamo una forma di “potere relativo”, ossia da esercitare solo sulle persone che fanno parte, nel bene e nel male, della nostra vita, allora il desiderio di provare l'ebrezza del comando accomuna un po' tutti gli uomini, specie in una società competitiva come la nostra.
Ovviamente con questo non intendo dire che siamo tutti potenziali schiavisti: quello che intendo dire è che ad ognuno di noi piacerebbe avere la sua fetta di potere per motivi che possono essere i più disparati. Le persone generalmente cercano di migliorarsi per poter offrire le proprie qualità in cambio di un compenso in termini di riconoscimenti economici, affettivi, morali o fisici; e poi c'è anche chi non si impegna affatto ma è comunque alla ricerca degli stessi riconoscimenti. E' questo, però, un modello che genera inevitabilmente frustrazione, in quanto non c'è la possibilità di garantire a tutti ciò che desiderano: se ci sono dieci persone che ambiscono al posto di direttore aziendale, soltanto uno di loro riuscirà a spuntarla; se a più uomini piace la stessa donna, soltanto uno (se gli va bene e se lei non sarà particolarmente generosa) riuscirà a conquistarla. Chi perde in queste competizioni per carenza di qualità, per sfortuna, per scorrettezze degli altri concorrenti o per chissà quale altro motivo sarà vittima di sentimenti come tristezza, noia, delusione, ira, voglia di riscatto.
Cosa succederebbe allora se si offrisse ai “vinti” la possibilità di ottenere ciò che desiderano attraverso l'uso di un semplice marchingegno elettronico? In quanti rifiuterebbero perché la cosa è contraria ai propri principi morali?
I miei ventitré schiavi è un viaggio in un mondo in cui questo è diventato possibile: grazie all'uso dell'SCM, un congegno futuristico da inserire fra i denti, è possibile ridurre in schiavitù le persone (dotate anch'esse di SCM) che accettano di partecipare ad una sfida qualsiasi. Bisogna quindi competere contro avversari che hanno lo stesso obiettivo e vincere; in caso di sconfitta, invece, si diventerà schiavi del vincitore. Il rischio, quindi, è grosso; ma in fondo “si vince una volta e si è re per sempre”... o almeno fino alla prossima sfida.
Nonostante le ottime premesse ed un inizio che sembrava assecondare le mie aspettative, questo manga purtroppo non si è dimostrato essere all'altezza dell'ambizioso compito che si era prefissato. I motivi sono diversi e meritano una separata trattazione.
In primo luogo le regole dell'SCM sono troppo invadenti. Qualcuno ha notato una certa somiglianza tra questo manga e Death Note proprio in virtù del modo in cui queste regole sono state enunciate; personalmente credo che gli autori, con tutta probabilità, si siano ispirati all'opera di Oba ma, francamente, non darei troppa importanza alla cosa.
Il vero problema, invece, sta nel fatto che queste regole aumentano volumetto dopo volumetto fino a diventare veramente troppe: se si voleva mettere al centro della narrazione la reazione della psicologia umana di fronte a sistemi che permettono di “vincere facile” sarebbe stato più opportuno adottare solo poche regole facilmente comprensibili e lasciare muovere i personaggi attorno ad esse. Invece vengono introdotte di continuo nuove peculiarità dell'SCM che da un lato rendono questo strumento sempre meno credibile e dall'altro inducono il lettore a rinunciare all'ingrato compito di seguire tutte queste evoluzioni, in quanto dopo poco si diventa coscienti del fatto che tutte queste novità vengono introdotte solo per risolvere problemi specifici della narrazione, senza badare troppo alle contraddizioni che si vengono a creare e senza badare troppo all'inutile complessità che ne deriva.
In secondo luogo l'approfondimento psicologico dei personaggi è poco soddisfacente. “I miei ventitré schiavi” cerca di raccontare lo stato di miseria psicologica in cui si trovavano i personaggi all'inizio della storia, il modo in cui questi si avvicinano all'SCM ed il comportamento che adottano dopo essere entrati a far parte di questo perverso gioco. Ad ognuno di essi viene dedicata un'apposita sezione all'interno del manga e questa, come scelta, l'ho trovata appropriata; in più, alcuni personaggi vengono resi anche piuttosto bene. In particolare le motivazioni del cattivo di turno non sono poi così folli e campate in aria come sembra, ma hanno una loro perversa coerenza se circoscritte al particolare tema trattato.
Però se gli schiavi sono ventitré mentre i volumetti sono dieci si capisce benissimo quanto spazio possa essere dedicato ad ognuno di essi. Così ci troviamo di fronte a moltissimi personaggi la cui storia è solo abbozzata e che per questo finiscono per avere un'importanza davvero marginale all'interno della trama. Lentamente, anzi, si finisce addirittura per dimenticare la loro stessa esistenza.
In terzo luogo alcune scelte narrative lasciano molte perplessità. Se l'approccio “fantascientifico” doveva essere usato come pretesto per scrivere una storia piena di macabro realismo, bisognava mantenere questo approccio dall'inizio alla fine per poi arrivare a conclusioni dettate solo dalle azioni e dalla psicologia dell'uomo. Purtroppo, invece, si è tornati a preferire l'elemento fantascientifico ed il risultato ottenuto è stato meno appagante rispetto alle aspettative.
Se si eccettua la prima critica (a mio avviso incontestabile) a ben vedere gli altri due punti possono essere considerati come semplici perplessità: la loro presenza è fastidiosa ma non compromette seriamente la godibilità della storia. “I miei ventitré schiavi”, in sostanza, può essere considerato come un'opera da cui era lecito attendersi di più a livello qualitativo, data la serietà del tema trattato; si è optato, però, per la creazione di un semplice titolo d'intrattenimento a sfondo fantascientifico. Come scelta l'ho trovata deludente ma se devo giudicare l'opera sotto il profilo della capacità di mantenere alto l'interesse del lettore non ho difficoltà ad ammettere che si tratta di un titolo abbastanza solido.
Concludo con una mia curiosità personale: come mai questo manga è stato etichettato come “fumetto destinato ad un pubblico adulto”? L'ambientazione è sicuramente molto cupa e, in effetti, qualche scena un po' cruda c'è; ma credo di aver letto manga molto più scabrosi di questo senza che nessuno se ne lamentasse. La mia opinione personale è che ci si sia lasciati influenzare dal titolo e soprattutto dai disegni in copertina: quest'ultimi sono bellissimi ma anche un po' disturbanti (in senso positivo dal mio punto di vista ma immagino che non tutti la possano pensare come me). Il contenuto del manga, però, è molto, ma molto più soft rispetto a quello della sua copertina e a mio avviso non credo possa avere “effetti traumatici sulla sensibilità dei giovani”.