Black-Box
“Black-Box” è un manga seinen nato dalla mente di Tsutomu Takahashi, autore dei più celebri “Detonation Islands” e “Neun”. Serializzato sulla rivista di manga seinen Monthly Afternoon di Kodansha da giugno 2015 a marzo 2019, “Black-Box” rappresenta il tentativo di Takahashi di unire, in un’unica serie da sei volumi, due generi storicamente agli antipodi: seinen e spokon.
Il protagonista della storia è Ishida Ryoga, un ragazzo con la passione per il pugilato, che sfoga nello sport una situazione familiare estremamente complicata. Il padre, ex pugile professionista, ed il fratello maggiore sono entrambi in carcere, accusati di omicidio, tant’è che i giornalisti hanno affibbiato loro l’appellativo poco simpatico di “famiglia di assassini”. Il giorno dell’esordio di Ryoga nel mondo del pugilato professionistico tutti i riflettori sono puntati su di lui, il giovane membro della famiglia di assassini, pronto a mostrare sul ring la sua vera natura. La storia segue la breve ma intensa carriera di Ryoga nel pugilato professionistico, dagli esordi, alla rivalità con Shido Leon, fino al ritiro.
“Black-Box” porta con sé alcuni dei tratti caratteristici dei manga di Takahashi, che lo rendono uno dei mangaka da me più apprezzati e seguiti in assoluto. La proposta è sempre la stessa: un manga breve, di quarantadue capitoli divisi in sei volumi, di facile lettura. Per ogni capitolo, pochi dialoghi e molto spazio lasciato alle espressioni dei protagonisti, che spesso si vanno a sostituire alle parole, e alla contemplazione delle ambientazioni che l’autore ci regala. Per rendere meglio l’idea, ogni volume, fatta eccezione per l’ultimo, ha un tempo di lettura di circa venticinque minuti. Non siamo, dunque, lontani da un manga come “Neun”, ma una scelta di questo tipo comporta, per forza di cose, una serie di limiti. Innanzitutto, la penuria di dialoghi non permette al lettore di entrare in empatia con i personaggi. Più delle espressioni facciali o dei semplici gesti, sono le parole che ci permettono di comprendere a pieno la psicologia dei personaggi e solo dopo aver superato questo passaggio intermedio è possibile creare quei legami che si instaurano con i protagonisti di opere ben più longeve. In seconda battuta, ovviamente, l’opzione brevità non lascia molto spazio all’autore per dispiegare la propria storia, che, come in questo caso, risulta fin troppo accelerata, soprattutto nel finale. Meno volumi con pochi dialoghi è sinonimo di leggerezza e piacevolezza, ma allo stesso tempo anche di mancanza di pathos. Per quel che mi riguarda, le grandi storie si costruiscono con e nel tempo, vedasi “One Piece”, e “Black-Box”, forse, se ne prende troppo poco. Altro elemento sinonimo di familiarità è il tratto inconfondibile dell’autore. La prima volta che sfogliai, quasi per caso, le pagine di “Black-Box” non ebbi bisogno di andare a controllare il nome sulla copertina; il disegno da solo mi bastò per capire che si trattava di un manga di Tsutomu Takahashi. Spigoloso e sporco, il suo tratto rappresenta, come per tutte le altre sue opere, un grande punto di forza, che, nel caso specifico di “Black-Box”, gli consente di adempiere degnamente ad un compito ostico, come disegnare dei combattimenti. In questo soprattutto, a mio avviso, si nota la grandezza di un autore e Takahashi riesce ad essere sempre chiaro, mai oscuro, andando, almeno in questo caso, contro le mie più rosee aspettative. Al grande disegno, fa da contraltare una storia poco sviluppata e deludente, almeno nel finale. Il manga parte bene, con tre volumi che si mantengono su un ottimo livello. Vengono introdotti i personaggi, la loro storia, i motivi che li hanno portati lì dove sono e vediamo Ryoga brillare nei primi combattimenti. Le cose precipitano con l’ingresso sulla scena del rivale Shido Leon e la scelta di organizzare un incontro tra i due. Non mi dilungherò molto, ma tra minacce, aggressioni fuori dal ring e sputi il quarto volume mi ha profondamente turbato, dandomi l’impressione che si stesse perdendo il focus della storia: la crescita sportiva e umana di Ryoga. Dal quinto volume in poi, purtroppo, il manga non si riprende più. Accadono fin troppe cose troppo velocemente e la storia perde il suo ritmo naturale, diventando esageratamente confusionaria. Il finale è anonimo e non regala emozioni, lasciando in bocca un sapore amaro e il pensiero di quello che “Black-Box” avrebbe potuto essere se Takahashi si fosse preso più volumi per orchestrare meglio la propria storia e avesse tratto un po’ più di ispirazione da un caposaldo dello spokon come “Rocky Joe”.
In conclusione, non nego che al termine dell’ultimo volume “Black-Box” mi abbia lasciato deluso, ma credo che per ogni seguace di Takahashi questa sia una lettura obbligatoria.
Il protagonista della storia è Ishida Ryoga, un ragazzo con la passione per il pugilato, che sfoga nello sport una situazione familiare estremamente complicata. Il padre, ex pugile professionista, ed il fratello maggiore sono entrambi in carcere, accusati di omicidio, tant’è che i giornalisti hanno affibbiato loro l’appellativo poco simpatico di “famiglia di assassini”. Il giorno dell’esordio di Ryoga nel mondo del pugilato professionistico tutti i riflettori sono puntati su di lui, il giovane membro della famiglia di assassini, pronto a mostrare sul ring la sua vera natura. La storia segue la breve ma intensa carriera di Ryoga nel pugilato professionistico, dagli esordi, alla rivalità con Shido Leon, fino al ritiro.
“Black-Box” porta con sé alcuni dei tratti caratteristici dei manga di Takahashi, che lo rendono uno dei mangaka da me più apprezzati e seguiti in assoluto. La proposta è sempre la stessa: un manga breve, di quarantadue capitoli divisi in sei volumi, di facile lettura. Per ogni capitolo, pochi dialoghi e molto spazio lasciato alle espressioni dei protagonisti, che spesso si vanno a sostituire alle parole, e alla contemplazione delle ambientazioni che l’autore ci regala. Per rendere meglio l’idea, ogni volume, fatta eccezione per l’ultimo, ha un tempo di lettura di circa venticinque minuti. Non siamo, dunque, lontani da un manga come “Neun”, ma una scelta di questo tipo comporta, per forza di cose, una serie di limiti. Innanzitutto, la penuria di dialoghi non permette al lettore di entrare in empatia con i personaggi. Più delle espressioni facciali o dei semplici gesti, sono le parole che ci permettono di comprendere a pieno la psicologia dei personaggi e solo dopo aver superato questo passaggio intermedio è possibile creare quei legami che si instaurano con i protagonisti di opere ben più longeve. In seconda battuta, ovviamente, l’opzione brevità non lascia molto spazio all’autore per dispiegare la propria storia, che, come in questo caso, risulta fin troppo accelerata, soprattutto nel finale. Meno volumi con pochi dialoghi è sinonimo di leggerezza e piacevolezza, ma allo stesso tempo anche di mancanza di pathos. Per quel che mi riguarda, le grandi storie si costruiscono con e nel tempo, vedasi “One Piece”, e “Black-Box”, forse, se ne prende troppo poco. Altro elemento sinonimo di familiarità è il tratto inconfondibile dell’autore. La prima volta che sfogliai, quasi per caso, le pagine di “Black-Box” non ebbi bisogno di andare a controllare il nome sulla copertina; il disegno da solo mi bastò per capire che si trattava di un manga di Tsutomu Takahashi. Spigoloso e sporco, il suo tratto rappresenta, come per tutte le altre sue opere, un grande punto di forza, che, nel caso specifico di “Black-Box”, gli consente di adempiere degnamente ad un compito ostico, come disegnare dei combattimenti. In questo soprattutto, a mio avviso, si nota la grandezza di un autore e Takahashi riesce ad essere sempre chiaro, mai oscuro, andando, almeno in questo caso, contro le mie più rosee aspettative. Al grande disegno, fa da contraltare una storia poco sviluppata e deludente, almeno nel finale. Il manga parte bene, con tre volumi che si mantengono su un ottimo livello. Vengono introdotti i personaggi, la loro storia, i motivi che li hanno portati lì dove sono e vediamo Ryoga brillare nei primi combattimenti. Le cose precipitano con l’ingresso sulla scena del rivale Shido Leon e la scelta di organizzare un incontro tra i due. Non mi dilungherò molto, ma tra minacce, aggressioni fuori dal ring e sputi il quarto volume mi ha profondamente turbato, dandomi l’impressione che si stesse perdendo il focus della storia: la crescita sportiva e umana di Ryoga. Dal quinto volume in poi, purtroppo, il manga non si riprende più. Accadono fin troppe cose troppo velocemente e la storia perde il suo ritmo naturale, diventando esageratamente confusionaria. Il finale è anonimo e non regala emozioni, lasciando in bocca un sapore amaro e il pensiero di quello che “Black-Box” avrebbe potuto essere se Takahashi si fosse preso più volumi per orchestrare meglio la propria storia e avesse tratto un po’ più di ispirazione da un caposaldo dello spokon come “Rocky Joe”.
In conclusione, non nego che al termine dell’ultimo volume “Black-Box” mi abbia lasciato deluso, ma credo che per ogni seguace di Takahashi questa sia una lettura obbligatoria.