Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
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Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

10.0/10
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Nell’approcciarmi alla recensione di quello che ritengo uno dei manga migliori che abbia mai letto, per storia e per disegni, riconosco di essere in estrema difficoltà, perché parlare in maniera appassionata e approfondita di “Berserk” è questione tutt'altro che semplice.

La mia personalissima storia con il manga del compianto Kentarou Miura inizia, come già accaduto per altre opere, al Napoli Comicon, edizione 2022, la prima dopo la pandemia. All’epoca, avevo tempo e voglia a disposizione da dedicare alle live su Twitch, specialmente quelle incentrate sullo sconfinato mondo della cultura pop giapponese. Lo streamer che più di tutti riusciva ad intrattenermi era il buon vecchio Domenico, in arte Cavernadiplatone, che nelle sue live faceva una testa così ai suoi followers proprio su “Berserk”. Nonostante il suo ideatore e creatore fosse prematuramente scomparso, egli riteneva che il suo fosse un manga da leggere assolutamente, a tutti i costi. Così, per farla breve, al Napoli Comicon di quell’anno, da suo grande fan, mi misi in fila per una sorta di firmacopie, ma c’era un problema: non avevo nulla che potesse essere firmato, esclusa la maglietta che non volevo “imbrattare”. Allora, mi recai allo stand di manga più vicino e comprai, senza neanche pensarci, il primo volume di “Berserk”, che poi, non mi feci mai firmare. Onestamente, non sono mai stato un grande amante delle file chilometriche. Così, a casa mi ritrovai col volume iniziale di un manga che, a quel tempo, non avevo voglia di leggere e che sarebbe rimasto sullo scaffale per quasi due anni. Tra una settimana, infatti, inizierà il Napoli Comicon 2024 e io ho da qualche giorno finito di leggere quel capolavoro assoluto che è “Berserk”, scritto e disegnato dal genio Kentarou Miura.

Nel regno delle Midlands, un imprecisato posto di un ignoto paese, in un periodo storico sorprendentemente simile al medioevo europeo, s'aggira minaccioso un ragazzo vestito di nero, armato di uno spadone enorme, ben più grande di un essere umano. Il guerriero è guercio dall'occhio sinistro e monco del braccio destro (almeno nella versione occidentale) che ha rimpiazzato con una protesi metallica con dentro nascosto un piccolo cannone. Il ragazzo si chiama Gatsu e gira per il mondo in cerca di pura e semplice vendetta, per un torto subito nel passato, di cui ancora non si conosce la storia. Gatsu è un trovatello che è stato allevato da un condottiero di ventura e, da quest’ultimo, iniziato alle arti militari già a sei anni. Per merito di questo duro e duraturo apprendistato, il ragazzo è diventato un guerriero molto forte, che, nonostante le tante proposte di carriera decisamente più “allettanti”, che lo porterebbero a non vivere più il terrore della morte, incubo di ogni poveretto che disgraziatamente si guadagna da vivere come mercenario, decide di vagare di battaglia in battaglia. Un giorno, Gatsu si unisce ad un gruppo di mercenari capitanato da un ragazzo di non nobili origini, Grifis, che lo sconfigge in duello conquistando così la sua vita (“tu mi appartieni, deciderò io quando morirai”). Da questo momento in poi, inizia l’exploit di quello che sarà poi da tutti conosciuto come il Guerriero o Cavaliere Nero.

Come tutti sanno, anche quelli che “Berserk" non l’hanno mai letto e ne hanno solamente sentito parlare da terzi, nel manga, c’è un momento che fa da spartiacque totale: l’Eclissi. Per dirla semplicemente, esiste un “Berserk” precedente all’Eclissi ed esiste un “Berserk” successivo all’Eclisse. Per rendere meglio l’idea, c’è l’Età dell’Oro e poi ci sono tutte le altre saghe. E, onestamente, sull’Età dell’Oro c’è ben poco da dire, è un capolavoro assoluto, tanto da mettere d’accordo i critici di tutto il mondo. L’Età dell’Oro racconta dell’ingresso di Gatsu nell’Armata dei Falchi e del suo incontro, fondamentale per i destini di entrambi, con Grifis. Gatsu è un guerriero cresciuto a pane e guerra, che soltanto per un brevissimo periodo della sua drammatica vita ha conosciuto il calore dell’amore materno. Il “padre” Gambino lo ha iniziato alle arti della guerra in tenera età e, quindi, crescendo, Gatsu è diventato fin troppo familiare con questo mondo fatto di distruzione e solitudine. Per lui si potrebbe fare lo stesso discorso valido per la creatura del “Frankenstein” di Mary Shelley. Se Gatsu ha conosciuto quasi solo ed esclusivamente il male, non può fare del bene, anzi, non sa neanche che cosa sia. Gatsu è solo conoscitore di campi di battaglia, infatti, la sua migliore amica è una spada. Durante gli anni trascorsi nell’esercito mercenario del padre, Gatsu vive tante esperienze orribili, una in particolar modo, che lo cambiano in peggio e lo rendono un ragazzo apatico e scontroso. Tutto cambia quando, un giorno, incrocia la sua spada con quella di un altro ragazzo della sua stessa età, diverso soprattutto per la chioma bianca scintillante, Grifis, capitano di un gruppo di mercenari conosciuto come l’Armata dei Falchi. Potremmo dire che la saga, per la quasi sua interezza, sia basata sulla dicotomia tra questi due personaggi. Da un lato, Gatsu, l’ultimo arrivato nella Squadra dei Falchi, che riuscirà sin da subito a distinguersi in battaglia, tanto da scalare rapidamente le gerarchie. Seppur diffidente in un primo momento, egli si rende presto conto che l’Armata dei Falchi è diversa da qualsiasi altro gruppo di mercenari in cui abbia mai militato. Qui, fa la conoscenza di persone che arriveranno poi a rappresentare quella famiglia da lui mai avuta e tanto desiderata: Kolcas, Pipin, Judo, Rickert, Caska e Grifis. È grazie soprattutto alla loro sincera amicizia se Gatsu inizia ad aprirsi maggiormente ed apparire più sorridente. Egli si trova a proprio agio tra persone che come lui masticano una sola lingua, quella della guerra, e con loro vive alcuni dei momenti più felici e significativi della propria vita. Tanto basta a Gatsu per essere felice: avere una famiglia e continuare ad impugnare una spada su un campo di battaglia. Dall’altro lato, Grifis, il comandante dell’Armata dei Falchi. Fine stratega e grande conoscitore di tecniche militari, sarà soprattutto grazie alla sua intelligenza ed al suo ingegno se la Squadra dei Falchi arriverà a farsi un nome nelle Midlands. In Gatsu, trova un amico leale e sincero, a cui affidare la propria vita. Grifis, però, a differenza del Guerriero Nero, non si accontenta della propria condizione, perché vuole costantemente migliorarla. Egli ha un sogno: avere un regno tutto suo. E, al fine di coronare questo sogno, è disposto a fare qualsiasi cosa. A questo punto, Miura pone indirettamente al lettore un quesito esistenzialista: ‘cosa sei disposto a sacrificare per raggiungere il tuo sogno? Se il coronamento di quest’ultimo comportasse il sacrificio dei tuoi stessi amici, saresti comunque disposto ad andare avanti oppure avresti la forza e la volontà di fermarti?’. La strada scelta da Grifis, noi lettori di “Berserk”, la conosciamo molto bene, ma se dovessimo trovarci nella sua stessa situazione, come reagiremmo? In questo modo, Miura porta i suoi lettori a porsi delle domande e, soprattutto, a provare dei sentimenti fortissimi verso i protagonisti della storia. Senza ombra di dubbio, l’Eclissi rappresenta l’apice del manga e l’Età dell’Oro la saga più bella e coinvolgente, tant'è che spesso, nel leggere i volumi successivi, mi domandavo se il manga avrebbe mai più raggiunto quei livelli. Quando penso all’Età dell’Oro, un solo sentimento mi pervade: la nostalgia.

Nonostante, per quanto mi riguarda, i picchi dell’Eclisse non siano mai più stati raggiunti nel manga, tutte le saghe successive a quella dell’Età dell’Oro restano di grandissimo impatto e coinvolgimento. L’Armata dei Falchi come la conoscevamo non esiste più e, adesso, ci sono soltanto Gatsu e Caska, i quali intraprendono un lungo viaggio, destinato a concludersi soltanto dopo moltissime avventure e peripezie. Nel corso di questo itinerario, i due fanno la conoscenza di nuovi amici, non soltanto umani, e Gatsu sperimenta una situazione mai provata prima di allora, quella di non dover combattere più soltanto per sé stesso, ma anche per qualcun altro, che lui vuole proteggere ad ogni costo. Questa situazione del tutto nuova è ben rappresentata dall’immagine della spada che, per la prima volta, viene ad assumere un peso maggiore per Gatsu, perché da quella spada non dipende più soltanto la sua vita. Quello compiuto dal Guerriero Nero viene ad assumere i connotati di un autentico viaggio di formazione, durante il quale il gruppo originariamente composto da lui e Caska accoglie nuovi membri: Pack, Isidoro, Shilke, Ibarella, Farnese, Serpico, Roderick, Magnifico e Isma. Al loro fianco, Gatsu diventa un uomo migliore e, grazie alla presenza in particolar modo di Isidoro e Pack, la storia viene ad assumere dei toni più leggeri e comici, utili a spezzare quello cupo originario e distintivo dell’intero manga. Più di ogni altra cosa, a mio modesto avviso, questa parte dell’opera è dedicata ad unico grande tema: l’amore. A dispetto di ciò che si potrebbe pensare, “Berserk” è e sa essere anche un manga romantico, che racconta di una stupenda, seppur travagliata, storia d’amore, fatta di devozione ed incomprensioni, che vede protagonisti Gatsu e Caska. Per lei e soltanto per lei, Gatsu si decide ad intraprendere un lungo viaggio, in apparenza senza meta. Per lei, Gatsu si immola istintivamente contro quei nemici che minacciano la loro sicurezza. Per lei, cerca ed impara ad essere diverso da come era prima, meno scontroso e più comprensivo e maturo. Certo, non sarà la storia d’amore rose e fiori tipica delle romcom, con il finale già scritto ad inizio storia, ma la devozione e il sentimento che animano Gatsu non li ho riscontrati in quasi nessun altro personaggio, che fosse di un anime, un manga o una serie tv.

Un ultimo brevissimo accenno lo merita il tema di Dio, che trova approfondimento in un capitolo scritto da Miura ma mai pubblicato a volume, perché da lui stesso ritenuto troppo ricco di contenuti ed informazioni. Di certo, non mi ritengo all’altezza per trattare un tema così ampio e complesso, ma il modo in cui Miura parla di Dio, avanzando l’idea che egli sia stato creato dall’uomo e che contenga dentro di sé sia il bene che il male, ci fa capire come “Berserk” sia un manga estremamente pregno di filosofia, in particolar modo quella di Nietzsche. La morte di Dio e l’idea della creazione umana della divinità, pur essendo diventate incredibilmente mainstream, sono concetti che mi hanno sempre affascinato, sin dalle superiori. Anche sotto questo punto di vista, almeno con il sottoscritto, Miura ha fatto centro.

Infine, mi sembra doveroso esprimermi sui disegni. Onestamente, una sola parola mi viene in mente per descriverli: perfezione. Ogni tavola è un’opera d’arte, da ammirare e stare a contemplare per minuti. Il tratto di Miura, come quello di Go Nagai a cui chiaramente si ispira, soprattutto in alcune espressioni di Gatsu, è incredibilmente sporco ma, allo stesso tempo, chiaro e preciso. Raramente non sono riuscito a capire qualche tavola e, lo ammetto, in quei casi era solo ed esclusivamente per la mia negligenza e basta. Ho perso il conto delle volte in cui mi sono ritrovato a sgranare gli occhi davanti ad un disegno di Miura, che col passare del tempo e degli anni era riuscito addirittura a perfezionare un tratto già distintivo e sensazionale all’altezza della prima pagina del primo capitolo. “Berserk” non sarebbe stato lo stesso senza i disegni di Miura e, mi duole dirlo, non è e non potrà mai più essere lo stesso dopo la morte del suo creatore, a cui va un profondo grazie, per aver scritto e disegnato una delle storie più complete ed emozionanti in cui mi sia mai imbattuto.

Arrivato alla fine di questa recensione, mi rendo conto di aver scritto e detto tanto, ma non tutto, questo è certo. Di “Berserk”, potrei stare a parlare per giorni, senza stancarmi mai ed anzi trovando sempre qualcosa di nuovo di cui discutere. Perché, a differenza di ciò che molti sostengono, “Berserk” è tutto bello, fatta eccezione per qualche rallentamento intorno al volume 33-34. D’altronde, però, se il suo stesso creatore aveva cominciato ad avere delle difficoltà, un motivo ci dovrà pur essere stato. A questo punto, almeno per il sottoscritto, resta un solo grande nodo da sciogliere, quello del voto, che però, alla fine, è e resta solamente un numero. Come sempre, conta molto di più ciò che un’opera trasmette e “Berserk” è riuscito a farmi sperimentare, in circa quaranta volumi, quasi tutto il ventaglio vastissimo delle emozioni umane.

Grazie di tutto sensei, per aver creato una storia e dei personaggi immortali, destinati a rimanere nei cuori di tantissimi lettori in tutto il mondo.

8.5/10
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”L’uomo apparve sulla terra 200.000 anni fa. Per i nostri antenati… il cannibalismo era una pratica comune. Per motivi religiosi, come rimedio sciamanico o solo perché si aveva voglia di carne. Veniva praticato per svariati motivi in tutto il mondo e anche in Giappone, dove venne proibito ufficialmente durante l’era Meiji. Tuttavia questa pratica potrebbe essere sopravvissuta ancora in certi angoli remoti del globo… e forse anche in alcuni villaggi giapponesi”.

Daigo è un poliziotto che viene affidato in incarico al rurale villaggio di Kuge, dove si trasferisce con moglie e figlia. Daigo e la moglie cercano un po’ di quiete per la bambina, dato che a causa di un tremendo choc ha perso l’uso della parola, e la placidità della cittadina sembra proprio fare al caso loro. La calorosa accoglienza degli abitanti li fa ambientare da subito convincendoli di aver preso la scelta giusta; tuttavia quando trovano a casa incisa nel legno la scritta “scappate” lasciata da Kano, il poliziotto assegnato precedentemente a Kuge, scomparso nel nulla dopo aver dichiarato cannibali gli abitanti del villaggio, capiscono che quel luogo è molto più pericoloso di quello che sembra. Nel frattempo viene trovata morta Gin Goto, matriarca del clan Goto, la famiglia che detiene il potere e il controllo del villaggio; i cittadini dichiarano sia stato un orso a sbranarla, ma i segni dei morsi trovati sul cadavere riconducono a tracce umane.

Masaaki Ninomiya, pseudonimo di Shirou Ninomiya, grazie anche alla ponderata scelta dell’ambientazione, riesce a inscenare un contesto evocativo e claustrofobico carico di mistero giocando a carte scoperte sin da subito.
La classica, apparentemente tranquilla, cittadina di campagna si trasforma presto in un grandguignolesco teatro degli orrori, con vibes orrorifiche opprimenti a metà tra il “Non aprite quella porta” originale e “Il silenzio degli innocenti”, e quell’ostracismo marcato che rievoca “Dogville” di Lars von Trier. Uno sperduto paesino di campagna chiuso nelle sue credenze, nei suoi culti, nelle sue pratiche retrograde e nella sua ignoranza, un villaggio alla “Resident Evil 4” che, tra terribili segreti e labirintiche cospirazioni, diventa un abisso in cui sprofondare.
Il ritmo narrativo, con continui cliffhanger che si susseguono di capitolo in capitolo ricordando le tecniche narrative utilizzate dalle ultime serie tv, incentiva il lettore al binge-reading, sopratutto nella prima metà dell’opera, dove il coinvolgimento aumenta pagina dopo pagina. Se all’inizio il ritmo è incalzante, a tratti persino vorticoso, finisce presto per rallentare in favore di passaggi più ragionati e situazioni ripetute e/o rimandate a qualche volume più avanti, lasciando sottintendere un allungamento della storia in corso d’opera, complice il grande riscontro ottenuto a livello internazionale.

Il tema del cannibalismo, seppur già affrontato da autori underground come i Nishioka Kyodai, a differenza del vampirismo, ancora non è inflazionato dal medium, e risulta esplorabile in lungo e in largo specialmente da una penna abile come quella di Ninomiya, che danza con sorprendente maestria in uno scenario sospeso tra horror e thriller.
Il concetto di famiglia è uno dei focus narrativi; il mangaka lo affronta sia in larga scala, con i Goto, dove la famiglia è un clan portatore di un’usanza segreta; sia più nello specifico nel rapporto genitore-figlio, visto da diverse prospettive, e utile a porci uno dei quesiti insiti nel sottotesto della linea narrativa principale: “fino a che punto è giusto spingersi per proteggere la propria famiglia?”. L’autore condanna l’ignoranza suscettibile alla manipolazione mentale, elargendo diverse stilettate alle religioni, passando dal cristianesimo ai culti pagani. Quella di Kuge è una popolazione che venera un Dio feticcio creato dall’uomo per terrorizzare e mantenere l’equilibrio, un idolo falso nato a scopo di controllo, un mostro che si nutre di bambini, e che tutti chiamano “Lui”. “Lui” è uno dei personaggi chiave, e con Gin Goto, la vera figura centrica dello sviluppo, che riesce ad esercitare i suoi poteri sul villaggio anche da morta, è protagonista di alcuni flashback che toccano i pinnacoli narrativi dell’opera. Il protagonista non è certo un agnello nella tana dei lupi, e presenta un lato oscuro piuttosto interessante; il suo passato violento e il suo carattere bellicoso introducono argomenti come la vendetta e l’abuso di potere che tuttavia potevano essere approfonditi maggiormente.

La regia delle tavole estremamente cinematografica gioca un ruolo fondamentale nella rappresentazione dell’estetica di “Gannibal”. I repentini cambi di scena, l’alternanza dei piani temporali, i cliffhanger episodici, e le numerose inquadrature alla foto di Gin Goto, che danno all’opera quel tocco da film d’essai, permettono al manga di trasformare uno dei suo potenziali punti deboli, quello dell’ambientazione unica, in uno dei suoi punti di forza. Il villaggio, nelle sue tradizioni e nella sua follia, è vivo e ti guarda, sa tutto, dagli orrori del bosco ai passaparola delle case a schiera; grazie anche alla costruzione raffinata di un background corposo, che gli da vibes dark tra “Le colline hanno gli occhi” e “Twin Peaks”, Kuge si rivela una delle migliori ambientazioni horror degli ultimi anni, non solo in ambito manga.
Il tratto moderno ma al contempo sporco e carico di Ninomiya, tra tratteggio deciso e ispirati giochi di chiaroscuro, si rifa a Kazuhiro Fujita stabilizzandosi su ottimi livelli, senza tuttavia raggiungere i picchi espressivi del papà di “Ushio e Tora”. Il mangaka riesce a regalarci memorabili immagini ricche d’orrore e inquietudine, come i primi piani delle macabre risate di Gin Goto, o le tavole di “Lui”, con gli occhi bianchi sbarrati e la bava alla bocca pronto a falcidiare.

Al netto di un annacquamento nella parte centrale, dove il ritmo cala drasticamente rispetto ai fasti iniziali, ed un epilogo piuttosto scontato che si trascina rimandandosi di almeno un paio di volumi,
“Gannibal” è una lettura che si mantiene avvincente per tutta la sua durata. Un’opera malata e coraggiosa, un ritratto cinico, violento e allucinato del primitivo desiderio di carne. Lo spettrale affresco di Masaaki Ninomiya si rivela un piccolo capolavoro dell’alta tensione, in cui più che per l’incolumità del protagonista il lettore teme per i terribili segreti che gli vengono mano a mano rivelati, a cui una volta iniziata la lettura non riuscirà più a sottrarsi, come attratto da una misteriosa ombra dal fascino inquietante. Mentre qualcuno morde il cuore della notte ed esplode in una risata di sangue.

“Questa è la storia di un peccato… di un ragazzo… di una ragazza… e di una misera famiglia. Questa è la storia di una maledizione…quella di un clan tormentato dalla propria eredità… di paesani prigionieri delle proprie radici… e di una famiglia arrivata sulle loro terre”.

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"Ichi the killer" è una serie composta da dieci volumi, a cura di Hideo Yamamoto, sia per i disegni che per la trama, edito per l’Italia da Planet Manga.

Quest'ultima è molto chiara e concisa, raccontando le gesta del famigerato Ichi, un formidabile killer che dovrà riuscire ad annientare un clan della Yakuza.
Essendo la trama molto blanda e semplice ci si può concentrare su altri aspetti di tale opera, cioè la caratterizzazione dei personaggi e il tratto di Yamamoto, entrambe queste qualità passeranno attraverso una miriade di scene forti, crude e d'impatto, quali omicidi, torture e atti di autolesionismo.

Partendo dal disegno, i personaggi risultano ben definiti e particolareggiati, qualità che da già un'impronta ben precisa rispetto alla loro caratterizzazione, dal protagonista, molto semplice e comune che si può rappresentare con il famoso detto "acqua cheta", fino al principale antagonista della storia, che risulterà bizzarro e dai lineamenti scomposti, a causa di diversi piercing e cicatrici.
Gli sfondi saranno assai carenti, essendo i personaggi, come detto in precedenza, punto focale della storia ma per quei pochi che si intravedranno, essendo che la maggior parte delle tavole, saranno dedicate a primi piani, o a scene dense di personaggi, l’autore non avrà problemi a darne un'ottima rappresentazione.

Arriviamo quindi al "pezzo forte" della storia, cioè i personaggi che saranno bislacchi e molto particolari, l'autore riesce ad ogni pagina a mettere sempre più scene raccapriccianti e grottesche, di cui i comprimari saranno i principali fautori o loro malgrado le vittime, creando all'interno dell'opera un indissolubile dualismo tra Ichi e Kakihara, braccio destro del clan yakuza e inseguitore di Ichi.
La trama si regge principalmente su questa relazione distorta che si viene a creare fra i due, due anime tanto lontane quanto affini, risultando spesso complementari, chi schiavo della violenza suo malgrado e chi invece la anela spasmodicamente, non trovandone mai piena soddisfazione. Oltre a loro, ci sono una miriade di altri personaggi, che saranno approfonditi, quel tanto che basta, per permettere al lettore, di non scambiarli, per mera carne da cannone, anche se, alla fin fine, il loro ruolo, non sarà altro che quello, non dovendo portare avanti, chissà quale storia intricata.

La trama potrebbe benissimo concludersi in modo scontato, al culmine dell’incontro predestinato, tra i due principali comprimari, al contrario, riesce ad evitare tale cliché, e ci riporta in una spirale di disillusione, senza speranza, con un finale in parte ermetico, e in parte amletico, che posso apprezzare, quel tanto che basta, per non rimanerne totalmente deluso, ingannandomi che sia una semplice chiusura di un cerchio, più che un tentativo, una possibilità, per un vano seguito.

L’edizione è abbastanza curata, per quanto standard, per formati di questo genere, essendo corredata da delle sovra-coperte, di un rosso opaco, ognuna raffigurante il “caro” Ichi, risultando d’impatto per il colore, meno per il disegno in sé. Sulle bandelle non cè nulla, se non una breve sintesi, della storia editoriale dell’autore, nessuna pagina a colori, però sono volumetti ben sfogliabili, con una carta di buona fattura, bianca e che tradisce solo qualche sporadica trasparenza.

In conclusione, “Ichi the killer”, non sarà né più né meno, che un "guardia e ladri", in cui entrambe le fazioni in gioco, sono dei ladri, o meglio dei mostri della peggior specie, cioè umani trasfigurati dalla brama di dolore, e nulla più, quindi se si giudica, per il ruolo che ha, cioè far raccapricciare il lettore, per quanto deprecabile può essere un essere umano, non si può che premiare quest’opera, mentre se si cerca di giudicarla, pervertendone lo scopo, non si potrà che rimanerne delusi.