Destinato sin da giovanissimo a diventare animatore, ispirato dalla visione di titoli come Space Battleship Yamato (1974) e Mobile Suit Gundam (1979), Satoshi Kon esordisce professionalmente nel mondo dei manga collaborando con la rivista Young Magazine di Kodansha quando è ancora uno studente all’Università d’Arte Musashino. Al 1990 risalgono la pubblicazione del suo primo manga (Kaikisen, edito in Italia da Panini come La stirpe della sirena) e l’inizio di una proficua collaborazione con Katsuhiro Otomo (World Apartment Horror, 1991) che lo introduce al mondo dell’animazione affidandogli la direzione artistica del lungometraggio animato Roujin Z (1991) e la sceneggiatura del mediometraggio Magnetic Rose, inserito nella trilogia Memories (1993). A quest’ultima esperienza risale la collaborazione con Mad House che produrrà tutti i film di Kon a cominciare dal suo debutto alla regia che avviene nel 1997 con Perfect Blue, giallo postmoderno basato sul libro del giornalista e scrittore Yoshikazu Takeuchi e adattato per il cinema da Sadayuki Murai (l'unico momento in cui Kon non ha curato una sceneggiatura per i suoi film).
Originariamente destinato al mercato home video come miniserie "live”, Perfect Blue viene dirottato sull’animazione in seguito al terremoto di Kobe che aveva danneggiato i teatri di posa. Il film riscuote un tale consenso di critica e di pubblico che ben presto trova una distribuzione anche nelle sale. Opera esteticamente stimolante e di grande valore artistico, nel 1997 viene premiato al Fant’Asia Film Festival di Montreal, al Fantasporto Film Festival in Portogallo e al B-Movie Film Festival nel 2000; lo stesso Terry Gilliam l’ha incluso nella sua lista di film preferiti. Fra i primi film di animazione a uscire nelle sale europee con il divieto ai minori di 18 anni, Perfect Blue è stato quasi ignorato in Italia, dove non è mai stato distribuito nei cinema e dove è stato editato per la prima volta solo nel 1999 in VHS da Yamato, quando Kon stava già lavorando al suo secondo lungometraggio: Chiyoko, Millennium Actress (2001), per il quale sono stati mossi paragoni nientemeno che con l'immortale Sergej Ejzenstein.
La storia è incentrata sulla giovane Mima Kirigoe, cantante leader di un trio pop di discreto successo: le Cham. Di fronte all'ormai scarso appeal commerciale del gruppo, Mima decide di abbandonare il microcosmo patinato a cui è sempre appartenuta per provare, prima che sia troppo tardi, a rilanciare la sua carriera evolvendosi da cantante ad attrice. Quando le si presenta l'occasione di un ruolo nel serial televisivo Doppio legame, Mima si lancia con impegno e ambizione nella sua nuova avventura, ma il passaggio non è del tutto indolore e il cambio di immagine comporta sacrifici e traumatici compromessi. A complicarle ulteriormente la vita il morboso accanimento di uno stalker, fan nostalgico della idol, che la perseguita con la sua presenza ossessiva e che redige un blog su internet dove descrive nei particolari più intimi la vita della ragazza, rea di avere infangato la sua immagine di cantante giovanile e sensualmente virginale mediante servizi fotografici erotici e una scena di stupro girata per la fiction. Queste vicissitudini minano la stabilità mentale di Mima che inizia a convincersi di soffrire disturbi della personalità: un "altro da sé" in cerca di vendetta, spettro della "vecchia" Mima, getta un’ombra carica di cattivi presagi. Gli eventi precipiteranno quando quest'ultima comincerà a lasciarsi dietro di sé una scia di sangue, e per Mima, ormai in preda al terrore, si spalancheranno le porte di una tormentata e allucinante discesa agli inferi.
Perfect blue è uno psicho-thriller (il primo anime del genere) a tinte fosche maledettamente ben congegnato. Il regista prende le mosse dalle classiche basi narrative del noir per svilupparle attraverso una complessa grammatica cinematografica basata su flashback, immagini surreali, effetti destabilizzanti di film nel film e cortocircuiti narrativi, il tutto impastato nella materia e nella tecnica dell'animazione che gli consentono una libertà d'azione e rappresentazione apparentemente illimitata. La cura maniacale del dettaglio e l’accattivante stile visionario di Kon denotano una totale padronanza degli strumenti del mestiere e una certa conoscenza della storia del cinema, a cominciare dalle dinamiche della suspense di Hitchcock (Psycho, 1961), passando per il miglior De Palma (Omicidio a luci rosse – Body double, 1984), e la rappresentazione splatter degli omicidi alla Dario Argento (Profondo rosso, 1975). La messa in scena della crisi di Mima viene mostrata attraverso diversi livelli di percezione (realtà, finzione, incubo, allucinazione) che si intrecciano a vicenda in una spirale di sequenze spiazzanti che depistano continuamente l’attenzione dello spettatore. Di pari passo la narrazione esplode in mille frammenti, singole inquadrature, brevi fotogrammi, lunghi piani, funzionali all’intima essenza del film, che rimane sfuggente e infranta come la sua protagonista, effimera visione perturbante e bifocale.
Affascinato dai processi di produzione del mondo dello spettacolo, il regista si sofferma ad osservare con occhio critico i retroscena, lasciando trasparire fra le righe una sagace quanto amara riflessione sui cinici meccanismi dello show business, nei quali spesso incorrono frotte di illustri sconosciute aspiranti babystar che evocano un immaginario lolitesco ma che sono destinate a diventare vacui oggetti di fantasie eroticamente asettiche e a perpetrare la logica tritatutto e autofaga del circo mediatico. Un particolare accento viene posto sul lato morboso della comunicazione via web, un fenomeno ancora ai primordi all’epoca, ma che il regista non manca di cogliere. L’ambientazione realistica, la dettagliata descrizione degli scenari e il contesto sociale in cui la vicenda si svolge reggono il confronto con i film live sul piano della plausibilità, rafforzata dalla citazione di episodi di cronaca nera realmente accaduti, con particolare riferimento alla stanza dell’otaku ricalcata sulla base delle foto che giornali e tv diffusero sul famigerato caso del pedofilo Miyazaki Tsutomu.
La grafica e le animazioni meritano un discorso a parte. Non vedremo eccessive stilizzazioni anatomiche e grandi occhi googly tipici degli anime, il character design di Satoshi Kon è rigoroso e abbastanza fedele alla vita reale pur riuscendo a non essere troppo realistico. E’ sorprendente la capacità di cogliere le peculiarità dei tipi fisionomici, dall’incredibilmente bello al decisamente brutto con una grande varietà di caratteri intermedi. Ci sono grassi, magri, giovani, anziani, descritti con un tratto di disegno dal fascino unico che è difficile da esprimere a parole. I colori sono un po’ spenti e ci ricordano che si tratta di una produzione a basso costo del 1997, ma l'animazione in sé è meravigliosa, il motion capturing e le pose dei corpi sono uno spettacolo da vedere. Le scene di violenza e azione evidenziano quanto gli animatori abbiano avuto le idee chiare su come tradurre il peso e la gravità in uno spazio di animazione 2D, mentre il nudo in questo film, ben lungi dall'apparire volgare, è una delle rappresentazioni più eleganti e realistiche del corpo femminile mai viste in un anime. Pur senza quel fattore wow che lo Studio Ghibli sfoderava in quello stesso anno nella produzione di Mononoke Hime, nel complesso i costumi e gli scenari risultano minuziosamente dettagliati e svolgono il loro compito in maniera egregia.
Le musiche di Masahiro Ikumi, a base di ritmiche dub, elettronica e industrial, contribuiscono ad addensare la cupa atmosfera di asfissiante claustrofobia che pervade il lato oscuro dietro una Tokyo dalla facciata sfavillante. Il j-pop di plastica delle Cham ricorre come un fil rouge per tutto il film e risuona come un apologo dell’effimero mondo delle idol e della loro apparente purezza.
Satoshi Kon, che già si era distinto collaborando con maestri del calibro di Katsuhiro Otomo e Mamoru Oshii, con Perfect Blue acquista definitivamente una dimensione artistica autonoma e si propone come personaggio di primo piano sulla scena anime giapponese. Nel suo fulminante esordio alla regia di un lungometraggio sono già espressi tutti gli elementi della sua poetica, che si svilupperà ulteriormente nelle opere successive e si distinguerà per originalità e raffinata ricerca stilistica. Se oggi è riconosciuto come uno degli autori più interessanti che il mondo dell'animazione giapponese abbia mai saputo regalare ai suoi fans è merito anche di Perfect Blue, primo tassello di una brillante eredità che ha influenzato i cineasti avvenire con nuovi stilemi, forme e inquietanti visioni.
Originariamente destinato al mercato home video come miniserie "live”, Perfect Blue viene dirottato sull’animazione in seguito al terremoto di Kobe che aveva danneggiato i teatri di posa. Il film riscuote un tale consenso di critica e di pubblico che ben presto trova una distribuzione anche nelle sale. Opera esteticamente stimolante e di grande valore artistico, nel 1997 viene premiato al Fant’Asia Film Festival di Montreal, al Fantasporto Film Festival in Portogallo e al B-Movie Film Festival nel 2000; lo stesso Terry Gilliam l’ha incluso nella sua lista di film preferiti. Fra i primi film di animazione a uscire nelle sale europee con il divieto ai minori di 18 anni, Perfect Blue è stato quasi ignorato in Italia, dove non è mai stato distribuito nei cinema e dove è stato editato per la prima volta solo nel 1999 in VHS da Yamato, quando Kon stava già lavorando al suo secondo lungometraggio: Chiyoko, Millennium Actress (2001), per il quale sono stati mossi paragoni nientemeno che con l'immortale Sergej Ejzenstein.
La storia è incentrata sulla giovane Mima Kirigoe, cantante leader di un trio pop di discreto successo: le Cham. Di fronte all'ormai scarso appeal commerciale del gruppo, Mima decide di abbandonare il microcosmo patinato a cui è sempre appartenuta per provare, prima che sia troppo tardi, a rilanciare la sua carriera evolvendosi da cantante ad attrice. Quando le si presenta l'occasione di un ruolo nel serial televisivo Doppio legame, Mima si lancia con impegno e ambizione nella sua nuova avventura, ma il passaggio non è del tutto indolore e il cambio di immagine comporta sacrifici e traumatici compromessi. A complicarle ulteriormente la vita il morboso accanimento di uno stalker, fan nostalgico della idol, che la perseguita con la sua presenza ossessiva e che redige un blog su internet dove descrive nei particolari più intimi la vita della ragazza, rea di avere infangato la sua immagine di cantante giovanile e sensualmente virginale mediante servizi fotografici erotici e una scena di stupro girata per la fiction. Queste vicissitudini minano la stabilità mentale di Mima che inizia a convincersi di soffrire disturbi della personalità: un "altro da sé" in cerca di vendetta, spettro della "vecchia" Mima, getta un’ombra carica di cattivi presagi. Gli eventi precipiteranno quando quest'ultima comincerà a lasciarsi dietro di sé una scia di sangue, e per Mima, ormai in preda al terrore, si spalancheranno le porte di una tormentata e allucinante discesa agli inferi.
Perfect blue è uno psicho-thriller (il primo anime del genere) a tinte fosche maledettamente ben congegnato. Il regista prende le mosse dalle classiche basi narrative del noir per svilupparle attraverso una complessa grammatica cinematografica basata su flashback, immagini surreali, effetti destabilizzanti di film nel film e cortocircuiti narrativi, il tutto impastato nella materia e nella tecnica dell'animazione che gli consentono una libertà d'azione e rappresentazione apparentemente illimitata. La cura maniacale del dettaglio e l’accattivante stile visionario di Kon denotano una totale padronanza degli strumenti del mestiere e una certa conoscenza della storia del cinema, a cominciare dalle dinamiche della suspense di Hitchcock (Psycho, 1961), passando per il miglior De Palma (Omicidio a luci rosse – Body double, 1984), e la rappresentazione splatter degli omicidi alla Dario Argento (Profondo rosso, 1975). La messa in scena della crisi di Mima viene mostrata attraverso diversi livelli di percezione (realtà, finzione, incubo, allucinazione) che si intrecciano a vicenda in una spirale di sequenze spiazzanti che depistano continuamente l’attenzione dello spettatore. Di pari passo la narrazione esplode in mille frammenti, singole inquadrature, brevi fotogrammi, lunghi piani, funzionali all’intima essenza del film, che rimane sfuggente e infranta come la sua protagonista, effimera visione perturbante e bifocale.
Affascinato dai processi di produzione del mondo dello spettacolo, il regista si sofferma ad osservare con occhio critico i retroscena, lasciando trasparire fra le righe una sagace quanto amara riflessione sui cinici meccanismi dello show business, nei quali spesso incorrono frotte di illustri sconosciute aspiranti babystar che evocano un immaginario lolitesco ma che sono destinate a diventare vacui oggetti di fantasie eroticamente asettiche e a perpetrare la logica tritatutto e autofaga del circo mediatico. Un particolare accento viene posto sul lato morboso della comunicazione via web, un fenomeno ancora ai primordi all’epoca, ma che il regista non manca di cogliere. L’ambientazione realistica, la dettagliata descrizione degli scenari e il contesto sociale in cui la vicenda si svolge reggono il confronto con i film live sul piano della plausibilità, rafforzata dalla citazione di episodi di cronaca nera realmente accaduti, con particolare riferimento alla stanza dell’otaku ricalcata sulla base delle foto che giornali e tv diffusero sul famigerato caso del pedofilo Miyazaki Tsutomu.
La grafica e le animazioni meritano un discorso a parte. Non vedremo eccessive stilizzazioni anatomiche e grandi occhi googly tipici degli anime, il character design di Satoshi Kon è rigoroso e abbastanza fedele alla vita reale pur riuscendo a non essere troppo realistico. E’ sorprendente la capacità di cogliere le peculiarità dei tipi fisionomici, dall’incredibilmente bello al decisamente brutto con una grande varietà di caratteri intermedi. Ci sono grassi, magri, giovani, anziani, descritti con un tratto di disegno dal fascino unico che è difficile da esprimere a parole. I colori sono un po’ spenti e ci ricordano che si tratta di una produzione a basso costo del 1997, ma l'animazione in sé è meravigliosa, il motion capturing e le pose dei corpi sono uno spettacolo da vedere. Le scene di violenza e azione evidenziano quanto gli animatori abbiano avuto le idee chiare su come tradurre il peso e la gravità in uno spazio di animazione 2D, mentre il nudo in questo film, ben lungi dall'apparire volgare, è una delle rappresentazioni più eleganti e realistiche del corpo femminile mai viste in un anime. Pur senza quel fattore wow che lo Studio Ghibli sfoderava in quello stesso anno nella produzione di Mononoke Hime, nel complesso i costumi e gli scenari risultano minuziosamente dettagliati e svolgono il loro compito in maniera egregia.
Le musiche di Masahiro Ikumi, a base di ritmiche dub, elettronica e industrial, contribuiscono ad addensare la cupa atmosfera di asfissiante claustrofobia che pervade il lato oscuro dietro una Tokyo dalla facciata sfavillante. Il j-pop di plastica delle Cham ricorre come un fil rouge per tutto il film e risuona come un apologo dell’effimero mondo delle idol e della loro apparente purezza.
Satoshi Kon, che già si era distinto collaborando con maestri del calibro di Katsuhiro Otomo e Mamoru Oshii, con Perfect Blue acquista definitivamente una dimensione artistica autonoma e si propone come personaggio di primo piano sulla scena anime giapponese. Nel suo fulminante esordio alla regia di un lungometraggio sono già espressi tutti gli elementi della sua poetica, che si svilupperà ulteriormente nelle opere successive e si distinguerà per originalità e raffinata ricerca stilistica. Se oggi è riconosciuto come uno degli autori più interessanti che il mondo dell'animazione giapponese abbia mai saputo regalare ai suoi fans è merito anche di Perfect Blue, primo tassello di una brillante eredità che ha influenzato i cineasti avvenire con nuovi stilemi, forme e inquietanti visioni.
Con spirito iconoclasta e viscerale, Satoshi Kon ha saputo fare di Perfect Blue non già un anonimo film d’animazione giapponese, bensì un thriller adulto, un'opera metacritica sull'essenza stessa dell'immagine, qualcosa che ha effettivamente contribuito a sdoganare gli anime nell'immaginario cinematografico occidentale, un raro esempio di anime d'autore in grado di soddisfare, grazie al suo forte impatto estetico, anche le aspettative del semplice amante del genere.
Poi la qualità dell'opera fu riconosciuta, tanto che lo mandarono al cinema e stette nelle sale per ben 10 settimane.
Tralasciando le esigenze di sceneggiatura, Kon era un narratore sopraffino della quotidianità e dei rapporti personali.
Lui e Kitano sono gli unici ad aver provato a spiegare cosa significhi essere un personaggio pubblico in Giappone.
https://www.youtube.com/watch?v=oz49vQwSoTE
Quanto ci manca, Satoshi Kon.
Però capisco se a molti potrebbe risultare indigesto, perchè credo che non sia un film per tutti. E' un vero peccato che il maestro Kon se ne sia andato cosi presto, perchè era uno di quelli che con i suoi film elevava l'animazione giapponese a vette elevate.
Quanto è affascinante perdersi ogni volta in quell'inganno, in quello che i tuoi occhi ormai hanno assimilato come verità. Pochi sanno ricreare con quell'intensità il fondersi di surreale e reale. E quando i due piani di realtà collidono, sopraggiunge l'estasi.
Capolavoro.
(Certo che ad aspettare la Yamato diventerò vecchio...)
Male, male, rimandato a settembre!
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