Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento con The Perfect InsiderKantai Collection e Mushishi.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.

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"Subete ga F ni Naru: The Perfect Insider" è un anime tratto da un romanzo di Hiroshi Mori datato 1996, che all'epoca conobbe un discreto successo. Si tratta, in sostanza, di un giallo a forti tinte psicologiche in cui si indaga sia sull'identità di un misterioso assassino che sulla controversa natura dell'animo umano; ma, se la parte "poliziesca" risulta molto piacevole e intrigante, non posso dire lo stesso della parte "filosofica". Con questo non intendo certo dire che mi aspettavo da questo anime la soluzione alle tre classiche domande esistenziali che da sempre tormentano l'uomo, ossia "Chi siamo?", "Da dove veniamo?" e "Dove stiamo andando?"; ma l'esaltazione dell'importanza della libertà individuale che viene sbandierata dai protagonisti in ogni occasione viene frustrata dalle conclusioni a cui giungono sul modo di ottenerla, ossia attraverso la solitudine e l'isolamento. Non so come la pensiate voi sul tema, ma la prigionia, anche se auto-imposta, non è e non sarai mai libertà; sono due concetti che si scontrano anche solo a volerli definire.

Veniamo alla trama: Shiki Magata è una scienziata che in giovane età viene arrestata per l'omicidio dei suoi genitori; riconosciuta come "incapace di intendere o volere", viene ritenuta non colpevole e rimessa subito in libertà. La ragazza, però, decide di dedicarsi completamente ai suoi studi, per cui decide di abbandonare la sua solita vita per ritirarsi in un centro di ricerca situato su un'isola disabitata e priva quasi del tutto di collegamenti con la terraferma; da quel momento passerà tutta la sua vita rinchiusa nelle sue stanze, riducendo al minimo indispensabile i suoi rapporti con l'esterno.
A quindici anni di distanza dagli eventi sopra descritti, la fama della dottoressa Magata Shiki ha raggiunto i livelli del mito: troppo grande il suo genio per essere ignorato dalla comunità scientifica. Tra i suoi ammiratori c'è anche il professor Sohei Saikawa, un promettente membro di un importante laboratorio di ricerca; il suo desiderio di incontrarla sembra potersi trasformare in realtà grazie all'interessamento di Moe Nishinosono, una ragazza di quasi vent'anni proveniente da un'influente famiglia e innamorata del suo professore. Una volta sull'isola, però, i due si troveranno testimoni di una scena agghiacciante: la dottoressa, infatti, è stata uccisa in modo brutale in barba a tutte le misure di sicurezza esistenti. Scoprire l'identità dell'assassino e i motivi del suo gesto sembra un'impresa davvero impossibile.

Il tema dell'omicidio compiuto all'interno di una camera chiusa, in cui è impossibile entrare o uscire senza essere visti, è uno dei più affascinanti del genere giallo e per questo è stato riproposto più e più volte sempre con soluzioni diverse e più o meno credibili. Nonostante sia un classico del genere, ad oggi non ha perso nulla del suo fascino, anzi, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie ha trovato addirittura nuova linfa, dato che la sola presenza di una telecamera non rende più necessario che la porta sia chiusa a chiave dall'interno per avere lo stesso effetto. E' anzi possibile creare dei veri e propri ambienti dotati di una vera e propria chiusura stagna, in cui è possibile compiere dei delitti all'apparenza impossibili e in cui un bravo giallista può sguazzare felice, grato di tanta generosità. Ed è quello che ha fatto anche il nostro Hiroshi Mori, ottenendo con questo "The Perfect Insider" un risultato davvero apprezzabile.
Un buon giallo, a mio avviso, è quello che fornisce indizi in grado di permettere al lettore/spettatore di capire qualcosa da solo, in modo da tener sempre viva l'attenzione, ma che sa anche nascondere la soluzione dell'enigma fino alla fine; e da questo punto di vista "The Perfect Insider" riesce perfettamente ad adempiere a questo compito, per cui non posso che esprimere un parere positivo su questa componente della storia. Qualche buco o imprecisione in effetti c'è, ma nel complesso possono essere considerati trascurabili.

In molti considereranno, nonostante si tratti di un titolo composto da solo dieci episodi (l'undicesimo non ha nessun peso sulla trama, per cui non lo considero), la sceneggiatura troppo lenta, perché troppo infarcita di dialoghi e con poca azione; ma a me in genere i dialoghi piacciono molto ("Monogatari" docet), se non sono stupidi o infantili, per cui non lo giudico un difetto. Resta il fatto che chi non li ama difficilmente apprezzerà questo anime.
Come già detto in precedenza, non ho gradito molto le conclusioni "filosofiche" a cui arriva questo anime, troppo pessimistiche anche per una persona come me che non brilla certo per ottimismo. Ma il modo di intendere la vita è qualcosa di soggettivo, per cui si può non essere d'accordo ma apprezzare comunque le ardite speculazioni altrui; in questo caso, però, associare il concetto di libertà con quello di reclusione volontaria è qualcosa di troppo irrealistico per essere preso anche solo in considerazione.

Mi sono piaciuti molto i personaggi principali, ben caratterizzati e dotati di un certo carisma. Dietro di loro, però, c'è il nulla, tanti volti anonimi che hanno poco o nulla da dire.
Il comparto grafico non è il massimo: francamente ho trovato un po' datata la fisionomia dei vari personaggi e nemmeno le scelte sul loro abbigliamento mi sono piaciute molto (ma Moe quanti pantaloncini corti ha nel suo armadio?). Buona, invece, la colonna sonora, che ha nell'opening il suo punto di forza.

In conclusione, il mio giudizio su questo "The Perfect Insider" è buono: si tratta sicuramente di un titolo impegnativo che si distingue dalla massa e che cerca di trasmettere allo spettatore qualcosa di serio, il che non guasta mai. Ma, a mio avviso, si poteva fare molto meglio di così.



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"Kantai Collection": quando un'idea è così assurda da destare interesse e la gestione non così irritante da farti abbandonare prima del tempo.

Originato da un free-to-play per PC, "Kan-colle" narra di un conflitto tra un'aggressiva razza dalle misteriose origini, denominata Abissali, e una resistenza formata da ragazze navi, ovvero donne che hanno ereditato, chissà come, lo spirito delle navi giapponesi della guerra mondiale. Ora... soprassedendo sulla mancata logica del rapporto spirito-oggetto, che potrebbe essere inteso in senso diverso, il fatto che la speranza dell'umanità risieda sulle spalle di un gruppo di adolescenti con a loro disposizioni areoplanini generati da frecce e cannoncini minuscoli derivati da artiglieria antiquata fa ridere, ma in senso negativo. Che i teenager giapponesi siano nell'animazione i salvatori dell'universo è qualcosa di tradizionale quanto lo sono nei film i quarantenni nerboruti coi dollari, ma c'è modo e modo di rappresentare le cose.

La storia furbescamente sorvola su tutti i particolari fondamentali: sul perché solo le ragazze possano avere tali capacità, come esse siano state reclutate, cosa faccia il resto della specie umana e perché non possano essere supportate da vere forze armate. Per fare le cose a modo sarebbero stati senz'altro necessari più episodi a disposizione, ma veder buttato tutto così senza spiegazioni è penalizzante anche a cervello spento. Se già non bastasse, nei dodici episodi disponibili si intravede un notevole fancervice. Le ragazze rispondono a molti canoni cari ai Giapponesi: le lolite alla "Lucky Star", l'aspirante ed estroversa idol, le biondine moe coi versetti, le sacerdotesse composte, gli stomaci senza fondo, le studentesse timide, la rappresentante rigida, la senpai che storpia l'inglese ecc., il tutto condito da imbarazzi sentimentali sparsi. Con la scusa di essere modelli da cui prendere esempio, non è cosa rara vedere "ammirazione" femminile ambigua negli anime, specie se indirizzata a capitani di club sportivi e figure particolarmente eleganti, e che questo elemento fosse portato avanti proprio dalla protagonista, inizialmente imbranata e poi prevedibilmente promossa a piccolo leader del suo gruppo, non è così sorprendente, eppure "Kan-colle" ha saputo stupire anche su questo fattore. Essendo l'ammiraglio (rappresentazione dell'avatar del giocatore), per quanto rispettato da tutti, l'unica entità di sesso maschile, il cameratismo e il legame costruttivo di alcuni modelli navali hanno dato spunto, in modo tutt'altro che fraintendibile, a parecchi legami e speranze silenziose di indubbia origine, al punto che solo l'energica Kongou e (forse) la nave segretaria e la matura Ahigara sembrano avere mire diverse, le altre nel migliore dei casi rimangono non espresse.

Tecnicamente, l'anime ha alti e bassi, specie nelle incursioni marine dove si vede maggiormente l'uso della computer grafica. La storia, come già detto, è piuttosto vaga, le ragazze sono premurose e dolci, ma non si pongono mezzo dubbio e problema a ferire e sopprimere le vite nemiche, e non si comprende bene nemmeno la natura biologico-tecnica delle due fazioni. Da un lato entrambe sembrano capaci di sanguinare e provare dolore, dall'altro i freddi e demoniaci Abissali, anche loro di prevalente sembianza femminile, sembrano subire incrinature di tipo metallico, mentre le ragazze-navi possono in alcuni casi resistere a colpi potenti ed essere proprio "rimodellate" fisicamente ad esperienza adeguata raggiunta. Insomma, nessuna logica.

L'aria è semplicemente quella di un cauto prodotto promozionale, in cui lo staff si è trovato per primo in difficoltà nell'adattamento, nato unicamente per cavalcare l'esplosiva popolarità del gioco. Sinceramente avrei gradito una presenza meno evanescente e generica dell'ammiraglio, ma la direzione perlomeno è solida, evita di eccedere con ammiccamenti che avrebbero solo reso più pesante la visione e, nonostante qualche parentesi spensierata come la gara di curry, ha tenuto ben conto del limite di episodi a disposizione, attenendosi a uno schema di crescita di Fubuki abbastanza semplice, con un cambio di compagni di stanza solo per ampliare la, comunque incompleta, conoscenza delle ragazze combattenti, alcune delle quali verranno intraviste solo durante la preparazione alla battaglia finale.

Abbastanza mediocre nel complesso, anche la battaglia finale non dà emozione, ma i personaggi sono carini e senza colpi di testa si lascia guardare con meno fastidio di altri progetti alla "Freezing", simili come struttura e pubblico, ma senza la stessa capacità di gestione.

Perdibile, ma non brutto.



9.0/10
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Mushishi, serie animata del 2005 tratta dall'omonimo manga di Yuki Urushibara, può definirsi alla stregua dell'identità interiore di un Giappone ormai iper-modernizzato, ma che al contempo ha sempre gelosamente conservato quelle caratteristiche ancestrali che si concretizzano nel legame spirituale con la natura, nel rapporto con gli antenati e nella fedeltà alle proprie tradizioni. Anche nel vastissimo campo dell'animazione i modelli pratici di tutto ciò sono svariati - si pensi al capolavoro miyazakiano La città incantata, riconosciuto a livello internazionale con il premio Oscar - e spesso si ritrovano nascosti e integrati persino all'interno di opere di tutt'altro genere o contesto. È per questo che ritengo Mushishi - che si fonda esclusivamente sulla magnificenza del folklore nipponico - una serie profondamente giapponese, tanto nella forma quanto nei contenuti; nell'estrema rarefazione dei modelli visivi e narrativi incontra e riporta alla luce l'identità culturale del Sol Levante, sopita ma al contempo sempre viva e rimpianta.
In un vortice di emozioni, filosofia e padronanza del mezzo espressivo, Mushishi si impone così come una delle migliori serie animate degli anni Duemila.

I mushi. Piccole creature primordiali e avvolte nel mistero, esseri vicini alla sorgente di ogni forma di vita e di ogni umana sensazione, che nonostante la loro naturale propensione a vivere nascosti tra le braccia della natura possono entrare in contatto con gli umani, attaccandoli come parassiti: alcuni hanno effetti benefici, altri possono arrivare a provocare conseguenze persino letali.
Ginko. Un mushishi, ovvero un esperto di mushi continuamente in viaggio nei più remoti angoli del mondo. Svolgendo le sue ricerche in solitaria e soccorrendo le persone colpite dai mushi, Ginko si ritrova sovente ad osservare il quieto scorrere delle cose e a contemplare quel legame di "fusione" tra uomo e natura, tanto radicato da aver afflitto il suo stesso passato.

«Ricorda: ogni persona e ogni luogo ha diritto di esistere. E ciò vale anche per te: il mondo intero, nel suo complesso, è casa tua.»
– Ginko –


Approcciandosi alla visione di Mushishi, occorre tenere a mente come la struttura narrativa si fondi essenzialmente su una serie di brevi storie autoconclusive. Non vi è una trama delineata - se non rappresentata dal sottotesto filosofico che permea gli episodi - e pertanto il fascino fiabesco dell'opera è dato principalmente dalle placide atmosfere, alla cui riuscita gioca un ruolo fondamentale il sapiente storytelling.
Per comprendere ciò, è necessario soffermarsi prima di tutto sul perfetto meccanismo estetico-narrativo messo in moto dal regista: la straordinaria direzione di Hiroshi Nagahama si condensa in un comparto visivo che diviene a tutti gli effetti parte integrante della comunicazione, sfruttando il vasto repertorio artistico, auditivo e scenografico al fine di sublimare intense atmosfere, dipingere pittoreschi giochi di luce e suggerire l'immersione totale nell'ambiente rappresentato. Un caldo sussurro in pieno silenzio; un tramonto lontano e malinconico; una solitaria goccia di rugiada nell'intimità della foresta; l'autore racconta storie semplicemente attraverso la concatenazione di immagini, suoni e movimenti di macchina, prima ancora che con la sceneggiatura; la ricchezza dei dettagli, dei fondali statici e delle inquadrature compone un vastissimo quadro espressivo, magnificando e rendendo viva un'ambientazione che di fatto assume un ruolo attivo all'interno dello stesso racconto. Le evocative musiche di un Toshio Masuda mai più così ispirato, che riverberano con le loro sonorità distese e tradizionali, esaltano la ricercatezza stilistica di un comparto sonoro estremamente variegato e immersivo.

A partire dalle curatissime animazioni, tutto in Mushishi si muove con estrema lentezza; la realizzazione grafica contribuisce in modo vitale al mood onirico, iper-dilatato, ipnotico e fortemente teatrale della rappresentazione. Il character design spartano ma elegante si unisce a questa idea minimalista di resa espressiva per "sottrazione": grazie a una fotografia pressoché perfetta, non c'è un solo attimo in cui l'essenzialità prettamente giapponese della messinscena non sia esaltata al massimo delle sue potenzialità. Lo stesso uso del colore, a discrezione di una direzione artistica eccezionalmente ispirata, può dirsi a dir poco magistrale: ogni episodio è caratterizzato da un suo cromatismo dominante, spesso legato a una particolare simbologia visiva - come il verde per gli elementi naturali e il rosso per quelli soprannaturali - sul quale spicca l'assenza di colori - o desaturazione, se vogliamo - della figura di Ginko, che va a rimarcare la sua natura impassibile ed esterna al contesto.

Mushishi è un'opera che fluisce lentamente, che sfuma con un approccio minimale, che si trascina nelle atmosfere dense in cui si muove il protagonista e pone un'attenzione vitale alla ricchezza dei dettagli e della caratterizzazione dei teatranti; all'interno di un vasto microcosmo estraneo a ogni spazio e tempo che, per conformazione, richiama il Giappone rurale del periodo Edo, il mushishi errante Ginko si impone subito come parte integrante della storia: a metà tra un medico/farmacista/psicologo e un viaggiatore che ha nel viaggio in sé il suo stesso scopo, Ginko simboleggia allo stesso modo l'anima più profonda di quel Giappone legato alla tradizione e la passività dell'esistenza, vista come un cammino senza meta ma costellato dai tanti piccoli eventi mutevoli del mondo.
I mushi, d'altro canto, si fanno la piena rappresentazione di quella concezione animista estrapolata dal calderone del sincretismo spirituale giapponese: nella figura di questi piccoli esseri, che nell'ambiente in cui sono inseriti si fanno strettamente legati al sottotesto shinto del popolo nipponico, si può scorgere quella commistione mistica tra l'innata energia naturale e le sue svariate proiezioni nella realtà concreta.

Non c'è aggressività nel loro comportamento né tantomeno benevolenza: i mushi sono creature neutre, assoggettate al naturale fluire delle cose in quell'eterno e impassibile meccanismo che è la Natura. Non vi è presente infatti alcun momento in cui le storie (e i personaggi che si avvicendano in esse) siano svincolati dal senso di "enormità" del circostante; negli effetti spesso funesti sull'uomo non c'è influenza volontaria, e anzi la concezione normalmente antropocentrica di qualsiasi opera di carattere narrativo si ritrova in questo caso letteralmente schiacciata dalle leggi della natura che avvolgono ogni essere in un tutt'uno, e di cui i mushi si fanno involontaria manifestazione, quasi come una "compenetrazione" tra le due dimensioni.
Questa riflessione, che si protrae per l'intera durata dell'opera, va a braccetto dunque con un'altra concezione di stampo prettamente nipponico: il mono no aware, la "precarietà delle cose", che accompagna mestamente il malinconico lirismo messo in rilievo dal susseguirsi delle storie narrate. Tra vite che si spengono e vite che sbocciano, Ginko si fa spettatore super partes degli impenetrabili - seppur talvolta cinici - meccanismi della natura, e di come l'uomo ne sia intrappolato in modo del tutto inconsapevole.

Difficile dunque tracciare una panoramica di Mushishi, essendo essa un'opera talmente ricercata e originale da ritagliarsi un angolino tutto suo all'interno del panorama anime odierno; al contempo però la sua estetica raffinata e la sua amara poeticità lo rendono una visione decisamente appagante, nobilitante e mai scontata. Una serie che trova nella staticità di quei paesaggi rupestri la sua particolare forma di bellezza, mentre siamo travolti dal sense of wonder di un incanto primigenio di cui non eravamo ancora a conoscenza.