Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Lacrime. Sin da quando ho letto notizie associate a “Voglio mangiare il tuo pancreas” la prima idea che faceva capolino nei commenti e nelle sensazioni di chi voleva guardarlo era questa: “Questo film mi farà piangere come nient’altro finora!”. E a lungo andare me ne convinsi anche io, del resto gli elementi per un dramma strappalacrime c’erano tutti: due studenti, un amore sbocciato casualmente e un rapporto da costruire pian piano ma destinato a interrompersi bruscamente per l’inevitabile scomparsa di lei a causa di una malattia terminale che la porterà alla morte di lì a poco; davvero difficile insomma immaginarsi una storia che deviasse dai binari tragici in cui sembrava incanalata. Poi, quando mi sono deciso a vederlo armato di fazzoletti come se non ci fosse un domani, la scoperta che non ti aspetti: non è un film strappalacrime! Sicuramente è drammatico, sicuramente ti lascia un forte senso di commozione, ma non calca la mano sulla disgrazia che si approssima come preventivabile, preferendo concentrarsi piuttosto sul legame dei due protagonisti e sui miglioramenti che questo porta nelle loro vite, una scelta decisamente azzeccata che regala a questo film uno sviluppo diverso e godibile che ho apprezzato davvero molto, probabilmente più di quanto avrei fatto nel caso le mie previsioni si fossero rivelate esatte.

“Il mio pancreas ha cessato di funzionare... e presto… morirò.”
“Non mi dire…”

Questa è la risposta che riceve Sakura Yamauchi quando confessa la sua condizione a un compagno di classe che, leggendo il suo diario dimenticato nella sala d’attesa di un ospedale, è venuto a conoscenza del suo triste destino. Sembra un esempio di raro cinismo, per certi versi lo è, ma in realtà la risposta che riceve dal ragazzo (il nome non verrà rivelato fino alla fine del film e non lo farò io, anche se il significato di questa scelta è comprensibile solo da chi ha conoscenza del giapponese) rispecchia fedelmente il suo modo di essere: questi infatti è uno studente cupo e asociale che rifugge il contatto umano con chiunque, in quanto non ha alcun interesse né nel conoscere gli altri né nel sapere cosa pensano gli altri di lui. Ma questo atteggiamento colpisce particolarmente Sakura che, spiazzata da una reazione simile, decide di conoscere meglio questo ragazzo, ‘costringendolo’ a una frequentazione reciproca e sancendo in questo modo l’inizio di un rapporto che influenzerà pesantemente le vite di entrambi, a discapito della diversa aspettativa che queste gli riservano.

Gran parte del film si concentra quindi sui pochi giorni che Sakura e il compagno di classe passeranno insieme, una relazione nata in un contesto apparentemente doloroso che si sviluppa però in un ambiente ‘protetto’ quasi, dove il dramma non fa mai capolino se non in piccoli sparuti segni che ricordano al protagonista, e allo spettatore, l’eccezionalità della situazione che stanno vivendo. Il risultato è una storia adulta e delicata che non illude sul piano romantico chi guarda né lo costringe ad assistere a scene stucchevoli o esageratamente angoscianti, un quadro semplice ma accattivante che mette in risalto le personalità contrastanti dei due protagonisti. Entrambi infatti ritengono, e lo ribadiscono chiaramente pure, di essere persone diametralmente opposte, visto che Sakura è una ragazza solare, espansiva, che affronta la malattia come se non la riguardasse, e non ha problemi a fare nuove conoscenze o a interferire in situazioni che non la riguardano, mentre il protagonista maschile, di riflesso, è invece un ragazzo schivo che passa gran parte del suo tempo libero immerso a leggere, e che considera ininfluente nella sua vita il contatto umano, almeno finché questo non reca danno alla sua persona. In realtà entrambe le caratterizzazioni sono volutamente forzate, e coprono gli aspetti nascosti dei due che vengono fuori durante la pellicola: Sakura difatti ricopre in pubblico il ruolo della ragazza allegra e tranquilla, ma la sua maschera nasconde la naturale ansia, se non paura proprio, che la sua condizione comporta e che viene fatta notare nel film sia attraverso piccoli indizi sia in modo esplicito, quando un confronto sincero tra i due durante un gioco improvvisato porta a galla tutte le inquietudini della ragazza; lui sembra vivere invece una vita soddisfacente, riparato dietro lo scudo metaforico che ha frapposto tra sé e gli altri, ma basteranno pochi giorni di frequentazione con Sakura, a suo dire il primo vero rapporto costruito con una persona esterna alla sua famiglia, per fargli rendere conto dell’infondatezza di questa convinzione che lui stesso ha egoisticamente assunto. Il frutto di questa conoscenza sarà non solo un interesse romantico intuibile, anche se mai apertamente palesato, ma, soprattutto, un miglioramento delle rispettive esistenze che permetterà al ragazzo misterioso, ma non troppo a questo punto, di comprendere la bellezza dei rapporti umani e la ricchezza che questi portano nella realtà delle persone, e a Sakura di poter trascorrere il tempo che le resta in compagnia di una persona che la comprende e la sostiene, ma non la tratta diversamente per la sua condizione, nonostante sia l’unico, al di fuori della famiglia, ad esserne a conoscenza. L’empatia che si instaura tra i protagonisti e lo spettatore poi fa passare in secondo piano i piccoli difetti che la pellicola porta con sé e che sono riferiti soprattutto ai personaggi secondari abbastanza trascurati o caratterizzati in maniera esageratamente, ma probabilmente voluta, per far risaltare ulteriormente i due ragazzi punti focali della storia, negativa; lo stesso epilogo del film, per quanto ben realizzato, mi ha trasmesso una sensazione di superfluo, al contrario degli altri momenti della narrazione che ho trovato tutti a loro modo preziosi e funzionali al buon esito del lungometraggio.

Buon esito raggiunto, ovviamente, grazie anche al significativo lavoro che c’è dietro la realizzazione di questo film; “Voglio mangiare il tuo pancreas” è una produzione del giovane ma già abbastanza noto Studio VOLN ed è una trasposizione dell’omonima novel di Yoru Sumino, un’opera che aveva già goduto di un adattamento manga e di una trasposizione live action. Confesso di non conoscere il romanzo originale, quindi non so che rapporto di fedeltà conservi il film con la sua controparte cartacea, ma mi sento comunque di promuovere il lavoro di Shin'ichirō Ushijima, qui nelle doppie vesti di sceneggiatore ed esordiente alla regia, che realizza un film ben strutturato con una narrazione fluida che riesce a bilanciare i momenti più vivaci e più riflessivi del film senza mai perdere di vista il legame dei protagonisti e la sua evoluzione, nell’ora circa che occupa sui quasi cento minuti totali di cui si compone la pellicola, un tempo che non si accusa durante la visione, ma che, come ho accennato prima, forse è anche eccessivo per quello che doveva raccontare. Promosso è anche il lavoro di Yuichi Oka, che ha curato il carachter design, rielaborando, a mio modo di vedere in meglio, l’originale utilizzato per la novel dall’illustratore loundraw, e la direzione delle animazioni del film, pure queste precise e scorrevoli in ogni frangente; sfondi pregevoli e colori brillanti adatti a valorizzare tutte le parti del lungometraggio infine collaborano alla riuscita conclusiva dell’opera, che risulta quindi non solo interessante da seguire, ma anche visivamente appagante. Stessa cosa dicasi, da questo punto di vista, per il comparto sonoro valido sia dal punto di vista musicale che di interpretazione dei doppiatori; l’ottima colonna sonora è stata affidata alla compositrice Hiroko Sebu ed è impreziosita dal contributo de i Sumika, band j-rock che ha eseguito tutte le theme song del film, compresa quella usata come sequenza d’apertura (“Fanfare”, ovvero fanfara), di chiusura (“Shunkashuutou”, scritta coi kanji delle quattro stagioni) e come insert song nel momento più emozionante della pellicola (“Himitsu”, ossia segreto), brani dal sound rock melodico più che azzeccati e che si amalgamano alla perfezione con le immagini che accompagnano. Il doppiaggio originale, che al momento in cui scrivo è l’unico disponibile, è di buon livello, potendo contare sulle interpretazioni di un cast ben assortito tra vecchie e nuove leve, dove spiccano ovviamente le figure dei due protagonisti: lo studente cinico ma dal cuore tenero è doppiato da Mahiro Takasugi, giovane artista noto già sia per altri ruoli in serie animate (Oga in “ReLife” o Ryota in “Kakegurui”) sia per aver partecipato come attore in diversi live action, che fornisce una prova convincente in un ruolo non semplice, vista la metamorfosi emotiva che subisce in poco tempo il suo personaggio, mentre Sakura è doppiata da Lynn, artista la cui bellezza è seconda solo alla sua bravura, cantante e doppiatrice poliedrica al suo primo ruolo da protagonista in un film dopo una carriera che l’ha vista recentemente impegnata in tantissime serie più o meno famose (“Yorimoi”, “Just Because!”, “Fuuka”, “Angolmois” e via dicendo), con risultati sempre soddisfacenti, e che qui ci regala una Sakura affascinante in ogni suo aspetto, sia quando ostenta sicurezza e gioia di vivere sia quando abbandona il suo ruolo, mettendo in mostra tutte la sua angoscia e i suoi turbamenti.

In definitiva, si può dire che “Voglio mangiare il tuo pancreas” sia un’opera decisamente particolare, a cominciare dal titolo il cui significato non sto a spiegare, data l’importanza che ricopre nella storia, che sembra promettere un dramma magari appassionante ma di rara pesantezza e che finisce invece per sorprenderti con una storia di vita triste ma preziosa allo stesso tempo, un film coinvolgente che uscirà nei cinema italiani a inizio 2019 grazie all’impegno di Dynit e Nexo Digital nel provare faticosamente a distribuire anche nel nostro Paese una parte del meglio che l’animazione giapponese contemporanea ha da offrire, e che mi sento caldamente di consigliare, dandogli tranquillamente fiducia, per cominciare il nuovo anno con rinnovata speranza, nonostante tutto facesse pensare il contrario.

7.0/10
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“To Heart” è un anime di tredici episodi realizzato nel 1999 dallo studio OLM, Inc. La serie, tratta dall’omonima visual novel sviluppata da Leaf, è diretta da Naohito Takahashi (“Berserk”, “Steel Angel Kurumi”).

La storia vede come protagonisti Hiroyuki Fujita e Akari Kamigishi, due liceali che coltivano una profonda amicizia sin dalle elementari. Akari è da tempo innamorata di Hiroyuki, il quale però non si è mai accorto dei sentimenti dell’amica. Oltre a seguire le vicende dei due ragazzi, l’anime si concentrerà su altri personaggi che i protagonisti incontreranno nei giorni del liceo.

Vista la sua data di produzione, “To Heart” potrebbe considerarsi una delle prime trasposizioni animate di visual novel di tipo dating sim, e di conseguenza il “capostipite” di numerose serie dello stesso genere che saranno realizzate negli anni a venire.
Date queste premesse, era lecito aspettarsi che l’opera radunasse in sé tutti gli stereotipi tipici della sua categoria. Da un lato le mie previsioni sono state purtroppo soddisfatte: le varie eroine dai colori dei capelli più disparati e dalle caratteristiche più bizzarre non mancano neanche in questa serie, ed ecco dunque che un robot kawaii, un’appassionata dell’occulto dalla voce impercettibile e un’energica bionda mezza americana faranno la loro comparsa in un episodio o nell’altro. Dall’altro, però, devo dire di aver apprezzato alcune peculiarità dell’anime, come la presenza di personaggi assolutamente normali o il fatto che non sia solo Hiroyuki a conoscere tutte le ragazze (anche Akari, infatti, stringerà amicizia con molte compagne di scuola).

Tralasciando cliché e originalità, l’anime presenta anche altri difetti e pregi. Tra i primi bisogna citare la scarsa incidenza di quasi tutte le eroine secondarie, le quali appaiono solo per poco tempo per poi essere messe da parte: in questo modo si ha l’impressione che siano state inserite solo per dare un’idea delle route presenti nel gioco, e che dunque sarebbe stato meglio concentrarsi solo su Akari o al massimo su qualcuna di esse. Tra i pregi, invece, si annoverano da una parte il ritmo pacato che accompagna tutta la serie e la rende uno slice of life piacevolissimo da guardare, dall’altra la tematica portante dell’opera. “To Heart”, infatti, è un anime basato essenzialmente sull’importanza dei ricordi: in ogni scena dedicata alla protagonista femminile (ma anche all’amica Shiho) è possibile percepire quanto la ragazza tenga al rapporto con Hiroyuki, che adesso sembra molto più pigro e svogliato di quando era bambino, e quanto il tempo abbia inevitabilmente cambiato tante delle cose che ormai dava per scontate. L’anime è quindi avvolto costantemente da un’atmosfera un po’ nostalgica, che tuttavia non mostra mai del tutto il suo potenziale a causa della natura meramente introduttiva di questa prima stagione.

Passando al lato tecnico, devo dire di aver apprezzato il lavoro svolto da Yurika Chiba sul character design, il quale presenta occhi più piccoli e lineamenti molto più morbidi e gradevoli rispetto a quello creato per la visual novel. Sempre di buona qualità i disegni, e lo stesso si può dire per le animazioni molto fluide. Una certa vivacità viene conferita dai colori molto sgargianti utilizzati per i capelli delle ragazze, mentre gli sfondi acquerellati e schizzati a matita contribuiscono all’atmosfera pacata e da slice of life presente nell’opera. Le musiche e le sigle, infine, risultano abbastanza orecchiabili anche se non troppo incisive.

In conclusione, “To Heart” è un anime che in tredici episodi approfondisce davvero poco i suoi numerosi personaggi (in tutto abbiamo la bellezza di dieci eroine), ma che comunque riesce a svolgere un bel lavoro, anche se incompleto, su quelli principali. Speriamo che nella seconda serie, “Remember my Memories”, potremo assistere a una degna conclusione della storia di Hiroyuki e Akari, di cui per ora abbiamo avuto solo un assaggio.

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“Che senso ha una vita senza morte?”

“Edgar e Allan Poe - Il clan dei Poe” è passato alla storia come uno dei primissimi shojo manga raccolto in volumi. Era il lontano 1972 quando Moto Hagio deliziava il Giappone con “Poe no Ichizoku”, opera che nel 1976 venne premiata con lo Shogakukan Manga Award.

“Poe no Ichizaku” racconta le vicende del clan dei Poe; Edgar e Marybell Portsnell sono due innocenti orfanelli quando vengono adottati dalla famiglia Poe, un’antichissima casata di vampiri. Una volta obbligati a compiere il rito di vampirizzazione, gli infanti vedranno il loro tempo fermarsi all’adolescenza, e onde evitare che il terribile segreto venga scoperto data la mancata crescita e il conseguente immutabile aspetto, saranno costretti a continui spostamenti. Obbligati dai genitori adottivi a non proferire parola alcuna sulle origini della famiglia Poe, i due fratelli si ritroveranno imprigionati in un oblio di solitudine. Oblio che li porterà inevitabilmente ad amarsi, vivendo indissolubilmente l’uno per l’amore dell’altra. I legami che stringeranno Edgar e Marybell con le altre persone nei vari luoghi che abiteranno saranno sempre circoscritti dai fantasmi di quell’improrogabile addio che giorno dopo giorno si avvicina; la consapevolezza che in un arco temporale massimo di due anni dovranno di volta in volta cambiare abitazione li porta a relazionarsi con dispatia e freddezza. Almeno fino all’arrivo di Allan Twilight. Allan, all’inizio perdutamente ammaliato dal fascino di Marybell e vigilato dal gelido e geloso sguardo di Edgar, dopo la tragica morte della fanciulla (preceduta dalla dipartita dei loro genitori adottivi), verrà invitato da un persuasivo Edgar a diventare anch’egli un membro dei Poe, andando a sostituire a tutti gli effetti (senza mai cancellare però), la figura di Marybell. Il clan dei Poe, ormai composto soltanto da Edgar ed Allan, muoverà i suoi passi nella Germania occidentale del secondo dopo guerra, per poi far ritorno a quella Londra tanto cara ai ricordi di Edgar e la sua amata sorella.

“Edgar e Allan Poe - Il clan dei Poe” è un manga che si discosta sia dagli stereotipi dello shojo classico sia da quelli dei romanzi vampireschi. Un’opera, come si evince dallo stesso titolo, intrisa di citazionismo alla letteratura ottocentesca europea; l’autrice omaggia i suoi ispiratori, da Edgar Allan Poe a Bram Stoker, senza lasciarsi sfuggire la monumentale eredità letteraria lasciata da un certo William Shakespeare. “Poe no Ichizoku” presenta una timeline irregolare, ulteriormente spezzettata da una struttura episodica che non aiuta il lettore ad immedesimarsi fino in fondo; l’opera di Moto Hagio piuttosto, stimola una lettura attenta e distaccata, metaforizzando, simile al modo in cui Edgar è solito rapportarsi con il genere umano.

Un’anima secolare intrappolata nel corpo di un quattordicenne bello di una falsa giovinezza, quanto può soffrire? I vampiri della Hagio si nutrono di sangue e rose, temono le croci e diventano polvere se il loro petto è trapassato da un paletto di frassino, ma più che sugli stilemi classici l’autrice si concentra sul lato psicologico ed introspettivo dei suoi personaggi. Permeandoli di una malinconia che una lunga e triste vita ha radicato in loro. I fratelli Portsnell vivranno per sempre nelle memorie di chi li ha incontrati segnandone indelebilmente l’anima: c’è chi racconta di un villaggio di rose, chi in un diario li descrive come entità eteree, chi li ricorda affascinato dalla loro struggente bellezza, chi si domanda se ciò che ha visto fosse vero o solo frutto di fantasia.

La Hagio permea i personaggi di mistero grazie ad un tratto spesso dissolvente che si sposa perfettamente con il mood dell’opera.
L’autrice si dimostra eccezionale nella raffigurazione di disegni statuari, i primi piani lasciano a bocca aperta tanto è espressivo il volto dei personaggi, tuttavia, non risulta altrettanto abile nella realizzazione di scene d’azione in cui la dinamicità la fa da padrona, tanto che talvolta si fa fatica a capire bene cosa stia accadendo sulle pagine. Nonostante ciò, guadagna meritatamente il titolo di “artista completa” grazie alla sua talentuosa mano da scrittrice. La sceneggiatura infatti è intessuta molto bene, forse una narrativa più convenzionale avrebbe alleggerito un po’ la lettura, tuttavia non mi sento di biasimare una scelta tanto coraggiosa ed originale.

Quella della Hagio è una storia malinconica, drammatica, autoriale, un racconto triste a tinte scure delicato nella sua forma tanto quanto è delicato l’incestuoso e chimerico amore tra Edgar e Marybell.
Per palati fini.

Voto: 7,5