Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Cosa nasconde il cielo? Quali e quanti misteri cela alla vista di coloro che lo osservano da quaggiù? Quali e quanti destini vi sono connessi? E se oltre le nuvole ci fosse un mondo altro, parallelo e complementare, un ecosistema accessibile solo a chi, investito di un qualche potere che trascende quello dei comuni mortali, potesse dominare il tempo atmosferico e le sue leggi sovente imperscrutabili? Tanto da incidere, attraverso una semplice preghiera, sui comportamenti e gli stati d’animo della gente. La nuova attesa pellicola di Makoto Shinkai, dopo il successo planetario di “Your Name.”, sembra interrogarsi proprio su questo, su come il tempo atmosferico, influenzato da ciò che avviene proprio sopra di noi, ma a distanze non colmabili dall’occhio umano, possa condizionare la vita e gli umori delle persone. E lo fa, come sua consuetudine, immaginando una storia in cui i sentimenti sono il cuore pulsante della vicenda, nella quale la ruota del destino favorisce l’incontro tra due adolescenti in difficoltà, in una Tokyo estiva in cui il sole, incredibilmente, non sembra avere alcun diritto di cittadinanza.

Sostenuto da un apparato tecnico di eccezionale livello, “Weathering with You” dimostra come il cinema di Shinkai evolva verso dinamiche più classiche e strutture narrative più lineari. E dico evolva proprio perché, pur avendo amato profondamente il primissimo cinema del regista giapponese, sviluppato nell’arco di pochi ma interessantissimi mediometraggi nei quali distanza e incomunicabilità erano tracce irrinunciabili e peculiari, nel dittico recente, espresso in forma di lungometraggio, i vuoti lasciati sembrano improvvisamente colmarsi. Le distanze si accorciano sensibilmente e la forma assume una sostanza la quale non è altro che amore che finalmente si sublima. Per quanto tutto ciò possa apparire semplice e ammiccare a un pubblico più vasto ed eterogeneo, la poetica di Shinkai ne esce in qualche modo rafforzata. Perché il suo è un cinema fatto principalmente di emozioni, in costante ricerca di un feedback con lo spettatore. Un cinema che, grazie a una notevole disposizione per la messa in scena, riesce a scalfire anche gli spiriti meno inclini a lasciarsi vincere dal sentimentalismo.

“Weathering with You” riesce facilmente in questo suo intento umanistico, se così lo vogliamo definire, semplice da restituire solo in apparenza. E lo fa anche a scapito di una sceneggiatura che, pur mantenendo alto il climax, semplifica fin troppo i suoi passaggi chiave e affretta snodi che avrebbero necessitato di maggiore complessità, forzando un epilogo ancor più esplicito e possibilista rispetto a quello di “Your Name.” Anche il richiamo alla componente mistica e fantastica, che anche in questo caso cerca di attingere alla dottrina shintoista, è più che altro un pretesto per motivare la dimensione altra in cui, sia pur fuggevolmente, i due protagonisti si trovano a interagire per trovare il senso del loro percorso. La componente karmica e gli universi paralleli (in ciò è palese l’influenza di Haruki Murakami, scrittore nipponico che il regista evidentemente ama) in Shinkai sono comunque al servizio dei personaggi e delle loro dinamiche, che sono e restano sempre profondamente umane. Ecco che allora dirimenti, nell’opera in questione, divengono le scelte che compiono in piena autonomia Hokoda e Hina. I motivi della scelta e della conseguente autodeterminazione di sé sono forse la tematica che emerge più prepotentemente in “Weathering with You”, opera che pone volutamente sulla ribalta l’adolescenza rispetto a un mondo adulto marginale che sembra affogare, non solo metaforicamente, sotto la pioggia incessante di una ragione che ottenebra il sentimento puro di coloro che “non sono ancora sé stessi se non come attesa”. L’omaggio a “Catcher in the Rye” (“Il giovane Holden”) non è solo una pura e semplice citazione (l’opera di Salinger si nota un paio di volte di sfuggita tra i pochi effetti personali del ragazzo, non appena arrivato a Tokyo), ma una dichiarazione d’intenti che Shinkai lancia al suo giovane pubblico, e probabilmente anche a chi, pur avendo qualche anno in più, non ha perduto quello spirito indomito, quel senso di epifania che progressivamente tendiamo a perdere nei passaggi d’età del tempo lineare.

Nonostante emergano, per la prima volta, interessanti personaggi di contorno rispetto ai due protagonisti, l’architettura narrativa poggia quasi interamente su Hokada e Hina, i cui progressivi avvicinamenti dischiudono allo spettatore il senso profondo di un’opera che si sostiene, come detto, su una struttura lineare che favorisce la ricerca di sé dei due adolescenti, dei quali non arriveremo mai a conoscere, se non per vaghi cenni di circostanza, un passato che si desume essere stato non facile, ma per i quali proveremo piena empatia proprio per la loro evoluzione nel presente che ci viene raccontato. È un cinema del qui e ora quello di Shinkai, che recupera elementi ancestrali in una cornice dai tratti sottilmente distopici e favolistici, per riaffermare che al di là delle cornici che ci imprigionano in uno spazio e in un tempo determinato, i sentimenti, se sono forti e sinceri, riescono a farsi beffe di qualsiasi dimensione ci possa ospitare. Per questo l’amore che si sublima, stravolgendo ampiamente ciò che consuetudine vorrebbe, ha la sua ragione d’esistere sotto un temporale che sembrerebbe mai trovare fine. O più semplicemente, facendo fede alle parole di Hokada: “Io me ne frego del tempo atmosferico, l’importante è che ci sei tu accanto a me”.

Semplice ma efficace come la parabola di un immaginario “vangelo umanista”, l’opera di Shinkai procede per prese di coscienza e atti conseguenti, e trova la sua apoteosi nella suggestiva resa estetica. L’animazione in 2D, fondata come di consueto su un disegno iperrealistico che valorizza in egual modo dettagli e sfondi, è al servizio di una regia che fa largo sfoggio di primi piani fortemente comunicativi, campi lunghi e panoramiche che evidenziano la tendenza al fotorealismo. Tutto l’apparato tecnico, a partire dagli effetti sonori (rimarchevole, nell’edizione italiana, anche il lavoro dei nostri doppiatori) fino ad arrivare alle musiche dalla valenza narrativa (colonna sonora nuovamente affidata ai Radwimps), contribuisce ad accrescere il pathos dell’opera.

In conclusione, nonostante tutte le critiche che si possono muovere all’autore dell’opera in merito a una scrittura ancora lontana dall’efficacia di grandi registi di genere come Miyazaki e Hosoda, a qualche autocitazione non sempre amalgamabile al contesto, e all’uso dell’elemento fantastico, religioso o mitologico, come pretesto per parlare sostanzialmente di altro, si può ragionevolmente affermare che nel cinema d’animazione - e forse non solo in quello - pochi sanno arrivare a toccare le corde profonde dello spettatore come sembra riuscire a fare Makoto Shinkai. È impossibile che usciate dalla sala senza che questo film vi abbia minimamente scalfito, salvo esser stati vinti da un persistente stato d’aridità.

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La prima cosa che ho notato, dopo pochi minuti dall'inizio di "Ta ga Tame no Alchemist", è che la storia che stavo guardando era molto diversa dalla trama che avevo letto. Probabilmente quella si riferiva al videogioco a cui è ispirato, ma questo film prende un'altra piega, intrecciando il mondo fantasy di Babel con il nostro. La parte epica della battaglia tra colpi di spada, magie e veicoli corazzati è affiancata ad una riflessione intima sulle proprie capacità: la protagonista, attanagliata dalle angosce della propria inettitudine, dovrà prendere coscienza di sé e della propria forza.

Tutto inizia in un mondo dove l'alchimia è una magia che tutti usano per i più svariati motivi, per la guerra, per la medicina, fino alle faccende domestiche; tutto all'ombra di una grande "Torre di Babel" nella quale è custodita la fonte dell'alchimia. Il funzionamento di questo mondo è spiegato chiaramente fin dall'inizio, così come la vicenda che scatena gli eventi narrati: un serpente-drago attacca la Torre e gli umani con un esercito di "maghi oscuri", privando il mondo della magia. Iniziamo così ad intravedere alcuni dei coprotagonisti che abitano questa terra fantasy e i principali "phantom", evocazioni di eroi appartenuti al passato che aiutano gli umani nelle battaglie. All'improvviso ci si ritrova nel nostro mondo, o meglio in quello di una liceale giapponese un po' imbranata sia negli sport che nello studio. A causa di una evocazione viene trascinata a Babel, provocando la sua sparizione nel nostro mondo e ponendola di fronte ad una realtà di guerra e sofferenza. Chiamata come salvatrice dell'umanità in crisi, si troverà invece ad essere una debole, una giovane goffa e indifesa da essere protetta, deludendo tutte le altre persone. Da qui partirà la sua battaglia sia fisica, per sconfiggere in combattimento i nemici e scoprire i suoi poteri innati, che mentale, per acquistare la consapevolezza di non essere solo un peso per gli altri.
La debolezza della ragazza è palese anche nel nostro mondo, nella sua realtà. A scuola viene rimproverata perché distratta, nello sport perché impacciata, a casa dalla madre perché "se non sei brava a fare niente, evita di fare qualcosa". Nel mondo di Babel si trova fin da subito a disagio, persino i bambini la deridono come incapace, per non parlare dei guerrieri forgiati da mille battaglie che riponevano nella sua evocazione tutte le loro speranze. Dovrà piano piano capire che anche lei è importante, come ciascuno che la circonda. Nessuno è uno strumento, un oggetto che può essere più o meno utile, ma ognuno è un essere con una sua dignità, persino il peggiore dei nemici.

Dal punto di vista tecnico l'uso della CGI è veramente imponente in tutte le macchine, i maghi oscuri, i mostri, le magie, però si amalgama bene ad un'animazione tradizionale che in alcune sequenze presenta anche dei virtuosismi. La durata di quasi due ore non è per nulla pesante e scorre bene, alternando scene d'azione, di vita quotidiana e d'introspezione. Il tutto condito da un discreto reparto sonoro, che regala due canzoni molto belle. Il design dei personaggi è molto particolareggiato, tranne per la protagonista, che è la classica studentessa in marinaretta, così come quello di macchinari e magie ricorda proprio lo stile dei videogiochi; per quanto riguarda i paesaggi e l'ambiente, è moto scarno e resta poco di questo mondo che sembra fatto soli di sassi e muri rotti.

Resta il problema di numerosi personaggi secondari che vengono introdotti verso la fine, ma dei quali non sappiamo niente, quasi a voler buttarli nella mischia solo per far contenti i fan della serie videoludica.
In conclusione, è una storia fantasy ricca d'azione, ma che sorprende parlando del riscatto di una persona, di come dobbiamo capire che noi siamo importanti e di come lo sia anche chi ci circonda.

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“Mairimashita! Iruma-kun” è la prova che, volendo, si possono utilizzare idee già ampiamente sfruttate, in modo comunque efficace.

In breve, Iruma è un ragazzotto dall’anima gentile e solare, con ottimi riflessi e un vorace appetito. Non riesce a non essere altruista e accondiscendente col prossimo, e questo nella vita gli è valso, realisticamente, una bella dose di sfruttamento, ingratitudine e problemi. Per sua “fortuna”, possiede i genitori peggiori del mondo, che, dopo averlo fatto sgobbare per pagarsi i propri vizi, lo hanno deliberatamente venduto a una creatura infernale per un bel gruzzoletto. Tuttavia, grazie, forse, al suo karma positivo, Iruma, invece di essere squartato o usato per qualche oscuro rituale, si ritroverà presto nello stato di famiglia di Sullivan, un potentissimo demone in crisi di terza età, che lo porterà nella sua dimensione unicamente per viziarlo, spacciandolo per il proprio nipotino.

Guardando le puntate, ci si rende presto conto che a parte le doti magiche e alcune rimanenze culturali in cose come l’inno scolastico, i demoni hanno uno stile di vita piuttosto simile a quello nostro. La cosa geniale sta nel fatto che per loro gli esseri umani sono mere figure folcloristiche, e, andando avanti con gli episodi, ci viene anche fatto capire che l’idea di tornare agli “antichi fasti” è considerata agghiacciante, almeno quanto per noi sarebbe quella di poter tornare al nazismo. Tutto nella serie si svolge in un mondo alternativo a misura di terrestre, con un concetto più arcaico di classe sociale, ma non troppo stringente. Quello che conta per i demoni non è tanto dove nasci, per quanto ciò possa donare poteri distintivi molto utili, quanto piuttosto i risultati che raggiungi, le tue capacità effettive e i gradini che di conseguenza riesci a scalare. La scuola superiore è per i demoni il debutto in tal senso, perché va bene l’anzianità, ma contano di più le mostrine ottenute; se poi ti accontenti di rimanere al primo livello del gradino sociale, accetti pure la possibilità di venir denigrato dagli altri. Tra l'altro, le peculiarità magiche di tipo genetico, la roba sharingan per intenderci, pur essendo intese come rare, sembrano in realtà abbastanza diffuse.

Per quanto non ci venga urlato in faccia, l’intento generale dell’opera è palesemente quello di voler equiparare gli umani ai diavoli, o meglio, al peso che possono avere certe regole sociali, governi, individui singoli e stile di vita, piuttosto che la natura razziale in sé. Un punto di vista che, alla lontanissima, mi ha rammentato uno degli archi narrativi di R.A.Salvatore dedicati al suo spadaccino Drizzt Do' Urden, in particolare il primo libro della trilogia dedicata all'infanzia nella competitiva e spietata Menzoberranzan. In quel caso, non si offriva una soluzione, né tantomeno una speranza per i drow, da troppo tempo vittime e a loro volta araldi di una autorità deviata e incontrastabile, ma similmente, seppur in un'ottica capovolta, tanto male si trovava Iruma coi suoi simili, tanto bene si troverà con i nemici della sua specie, nonostante il pericolo di essere smascherato, braccato e (ma ci credo poco) divorato. I difetti principali dei demoni sono infatti visti solo in certe situazioni, e si tratta di cose piuttosto ordinarie, come l’accidia nello svolgere il proprio dovere, l’egoismo verso i più ingenui, la maleducazione e la noncuranza quando un loro simile, specie se non consanguineo, è in pericolo. Tutta roba in cui i figli di Adamo ed Eva eccellono da millenni.

A fare compagnia al nostro bonaccione dalla zazzera blu, vi sarà ovviamente un’adeguata classe di soggettoni piantagrane: tizi affetti da ipersonnia, dediti al taccheggio, al gioco d’azzardo o a tacchinare disperatamente le compagne. A parte poi l’immancabile generalessa di ferro del consiglio studentesco, stavolta in vesti giunoniche e con il classico lato romantico nascosto; molto meno scontata e altrettanto utile sarà la presenza di Kalego, un arcigno, carismatico e altamente competente “Professor Piton”, che, per causa (involontaria) del protagonista, dovrà rivedere più volte i suoi concetti di pazienza e imbarazzo. Per quanto riguarda i membri della classe, visto lo spazio limitato, per ora solo quattro di loro verranno approfonditi a dovere, ovvero: i due ‘best-compagnucci-del-cuore’ di Iruma, un energumeno egocentrico (ma meno fesso di quanto si direbbe) e... la idol di turno. Sì, ci sono idol nel mondo dei demoni e... sì, purtroppo mi rendo perfettamente conto che non è nulla di cui dovrei sorprendermi.

Dato che ci accompagneranno per tutti gli episodi, due parole aggiuntive, almeno sui due mammalucchi che si incolleranno a Iruma, credo sia giusto scriverle. Sarò schietto con voi, non mi hanno fatto impazzire e non li vedo in alcun modo migliori del restante gruppo di compagni di classe, anche paragonati a quelli più in ombra.

Ma conosciamoli meglio: il primo di loro due è Asmodeus Alice, un androgino dall’aria nobile e coi capelli color ‘ravanello pallido’, che partirà come il classico fascinoso montato, per poi ridursi rapidamente a un triste zerbinetto innamoratissimo. Il contrasto tra la ‘figaggine’ che trasmette alle donne e i suoi atteggiamenti di devozione assoluta fa sorridere, ma nonostante le sue indubbie capacità ‘piromantiche’ e una madre seducente di cui si vergogna, Asmodeus è decisamente piatto come personaggio.
Leggermente meglio va invece con l’altro membro del trio ‘sfiga’, ovvero con l’allegra Valac Clara, a cui inizialmente ho augurato la stessa sorte che riservarono alla goffa segretaria Kisaragi in “Elfen Lied”. La ragazzetta coi capelli color spinacio e il cervello di Arale è il tipico personaggio demente a 360°, quello iperattivo che per appiccicare un chiodo al muro lo martellerebbe con la fronte, al pari di una vecchia barzelletta. Eppure, vuoi l’abitudine di vederla in giro, vuoi per la sua gaia famigliola, e quel paio di momenti semi-teneri a lei dedicati, si finisce per affezionarsi a questa pazza, come se fosse un curioso animaletto domestico.

La domanda che bisognerebbe porsi a questo punto è: “Vi è una trama principale?” Beh, diciamo di sì... ma per ora è presa molto, molto alla larga. In quel mondo vi è da lungo tempo in sospeso l’elezione del sovrano assoluto dei demoni, del pilastro su cui poggiano le basi stesse di quel regno. Una posizione prestigiosa e terribilmente delicata, a cui il nonno di Iruma potrebbe aspirare, se solo lo volesse. Vi sono inoltre discordanze di pareri su come dovrebbero vivere i demoni, e si percepisce che un destino in mente per il ragazzo potrebbe esserci, un domani, ma in questa stagione il suo coinvolgimento in fatti un minimo rilevanti sarà limitato alle ultime puntate, che avranno comunque scarso impatto sulla vita quotidiana di Iruma. Del resto, il nipotastro di Sullivan è un sempliciotto che sulla Terra non si era mai posto un obiettivo da raggiungere, e, nonostante cerchi di migliorarsi, tenderà sempre a vivere alla giornata. Benché goda di una buona considerazione generale, egli non ha doti guerriere, e le sue occasionali capacità magiche sono un prestito temporaneo. La nuova vita che conduce è per lui già un grosso traguardo, si contenterebbe di trascorrere serenamente la sua gioventù, ma, per poter far questo, senza deludere chi gli sta intorno e farsi scoprire, sarà necessario adattarsi alle lezioni, non esattamente composte da noiose prove scritte, e dovrà pure rimboccarsi le maniche nelle gare sportive e trovare il proprio posto nella giungla dei circoli scolastici.

Leggendo un pezzettino dell’opera cartacea, più o meno intorno a un fatto avvenuto in un parco divertimenti, mi sono potuto sincerare che, nel breve termine, il protagonista non subirà stravolgimenti, inoltre mi è stato confermato che i compagni, così come alcuni professori, verranno approfonditi. Insomma, “Mairimashita! Iruma-kun” non pare un’opera ristagnante sul solo protagonista e le sue due spalle comiche. Si intravedono all’orizzonte fasi da battle-shonen, e questo un po' mi preoccupa, ma... sono ottimista che la storia riuscirà a mantenere un certo equilibrio. Al momento, escludendo il suo mandante, l’unico qualificabile davvero come cattivo pare uscito da un film di Shyamalan, e oltre ad essermi piaciuto per la sua imperfezione e la sua impermeabilità al buonismo, mi aspetto in futuro da parte sua anche un rapporto tossico in stile DC. Come dire... per essere il 'villain' di un’opera giapponese destinata ai giovani, mi è parso un’alternativa promettente rispetto al tipico superdotato.

Devo essere onesto, vista la base di partenza, mi aspettavo pochino, e di certo non stiamo parlando di un capolavoro, eppure l’odissea scolastica di Iruma-Kun si è rivelata una delle visioni più gradevoli avute lo scorso anno. La chiusura migliore sarebbe stata con l'episodio 20, ma, bene o male, l'elemento che suscita curiosità c'è, e un periodo di nuova leggerezza si addice al prodotto.