Recensione
Ghost Hound
8.0/10
Prendete Lain, frullatela con Mushishi e metteteci dentro pure un bel po’ di turbe psico-ormonali adolescenziali. Approssimativamente vi verrà fuori Ghost Hound.
Ecco, ora che ho sparato la mia solita sintesi babbiona semiseria, diventiamo un po’ più seri perché quest’anime è terribilmente serio, e c’è tanto di cui parlare.
Taro – un marmocchio bassissimo che da bambino è stato rapito con la sorella che c’è rimasta secca perché l’allegro rapitore ha pensato bene di farsi investire mentre i due erano rinchiusi senza acqua – è rimasto psicologicamente traumatizzato dalla morte della sorella, rimuovendo parti dell’accaduto e addirittura il viso della stessa. Tuttavia ha dei sogni inquietanti che riporta puntualmente su nastro, e la situazione si evolverà in modo sovrannaturale, poiché scoprirà di poter proiettare la propria mente e farla vagare in una specie di dimensione (Kakuriyo) sovrapposta al mondo reale. Da Tokyo arrivano uno psicologo apposta per psicoanalizzare Taro, e il nuovo compagno di classe Masayuki, ragazzo impiccione e disinvolto, con il padre che lavora al centro di ricerche biotecnologiche e un trascorso torbido alle spalle. Lo psicologo inizierà a far venire a galla il passato di Taro e tutti i suoi dubbi sul rapimento – i cui risvolti fondamentali sono ancora avvolti nel mistero – , e Masayuki farà da collante tra Taro e il cugino Makoto (che suona una chitarra strafighissima!), misantropo duro e tenebroso, orfano di padre, abbandonato dalla madre e allevato dalla nonna che è una vecchia megera spiritata a capo di un culto mistico. I tre andranno in giro per il Kakuriyo sotto le sembianze di bambini fluorescenti col culo a bertuccia, e scopriranno un mondo oscuro fatto di spiriti e presenze ignote alle persone del mondo “reale” – tutto sotto l’ombra della diga e del villaggio sommerso ai suoi piedi. E qui entra in scena il motore della vicenda, ovvero la piccola Miyako – custode e sacerdotessa col padre del tempio in cima alla montagna – che si rivela in grado di vedere le proiezioni astrali dei tre e il cui corpo diviene tramite per apparizioni divinatorie.
Procedendo con un ritmo volutamente lento e sonnambulico, fatto di suoni liminali, distorti e disturbanti che permeano l’atmosfera enigmatica della seria, ci addentreremo in una narrazione terribilmente celebrale e colta, in cui a teorie psicologiche e a studi fisiologici si accompagnano l’attenta analisi introspettiva dei protagonisti e la loro evoluzione mentale ed emotiva, unite a un’aura di sospensione in cui all’impossibilità di comprendere la dimensione Kakuriyo si combinano ipotesi sulla percezione dello spazio-tempo e teorie di fisica quantistica. E, certo, i cartelli del fansub aiutano parecchio, ma bisogna avere delle basi solidissime per non annegare nella profondità di comprensione scavata da Ghost Hound.
Ora, rispetto a Mushishi viene curato meno il lato spirituale/sovrannaturale del mondo sovrapposto, che resta avvolto da un mistero inspiegabile che lascia lo spettatore libero di trarre le sue conclusioni tra le diverse teorie prese in esame dalla riflessione di Taro. Qui sono la psicologia e le ricerche percettive a farla da padrone, mettendo in discussione i concetti di visione sensibile e di tangibilità della realtà. Sul lato grafico non è supermega, ma i disegni lineari e morbidi sono più che dignitosi – a tratti anche molto sensuali – e i colori rendono bene l’atmosfera, anche se i fondali sono buoni ma non reggono il confronto con il dettaglio naturalistico meraviglioso di Mushishi. Proprio da quest’ultimo si differenzia la narrazione, perché la varietà dei personaggi porta avanti una trama matura in cui gli stessi evolvono in modo molto interessante e convincente, e in cui tutti i vari aspetti morbosi delle vicende sono legati da un filo invisibile che congiunge passato e presente in una rappresentazione eccellente del passaggio generazionale all’interno del villaggio.
Andando contro, dico che il finale è azzeccato (bellissima la riunione psichedelica degli hippy sulla montagna), perché la vicenda principale trova piena soluzione e perché costringere in una spiegazione definitiva il concetto dimensionale ambiguo portato avanti sarebbe stato una forzatura stonata. Invece dopo aver spremuto la comprensione, è meglio farle prendere un po’ d’aria e in pace trarre le conclusioni. Così Ghost Hound si svela lentamente ma inesorabilmente, imbriglia nella sua tela sofisticata e intellettuale, e rivela il suo grandissimo pregio/difetto: essere una serie complessissima e cerebrale – per un pubblico ristrettissimo, riflessivo e paziente (molto-molto paziente).
Ecco, ora che ho sparato la mia solita sintesi babbiona semiseria, diventiamo un po’ più seri perché quest’anime è terribilmente serio, e c’è tanto di cui parlare.
Taro – un marmocchio bassissimo che da bambino è stato rapito con la sorella che c’è rimasta secca perché l’allegro rapitore ha pensato bene di farsi investire mentre i due erano rinchiusi senza acqua – è rimasto psicologicamente traumatizzato dalla morte della sorella, rimuovendo parti dell’accaduto e addirittura il viso della stessa. Tuttavia ha dei sogni inquietanti che riporta puntualmente su nastro, e la situazione si evolverà in modo sovrannaturale, poiché scoprirà di poter proiettare la propria mente e farla vagare in una specie di dimensione (Kakuriyo) sovrapposta al mondo reale. Da Tokyo arrivano uno psicologo apposta per psicoanalizzare Taro, e il nuovo compagno di classe Masayuki, ragazzo impiccione e disinvolto, con il padre che lavora al centro di ricerche biotecnologiche e un trascorso torbido alle spalle. Lo psicologo inizierà a far venire a galla il passato di Taro e tutti i suoi dubbi sul rapimento – i cui risvolti fondamentali sono ancora avvolti nel mistero – , e Masayuki farà da collante tra Taro e il cugino Makoto (che suona una chitarra strafighissima!), misantropo duro e tenebroso, orfano di padre, abbandonato dalla madre e allevato dalla nonna che è una vecchia megera spiritata a capo di un culto mistico. I tre andranno in giro per il Kakuriyo sotto le sembianze di bambini fluorescenti col culo a bertuccia, e scopriranno un mondo oscuro fatto di spiriti e presenze ignote alle persone del mondo “reale” – tutto sotto l’ombra della diga e del villaggio sommerso ai suoi piedi. E qui entra in scena il motore della vicenda, ovvero la piccola Miyako – custode e sacerdotessa col padre del tempio in cima alla montagna – che si rivela in grado di vedere le proiezioni astrali dei tre e il cui corpo diviene tramite per apparizioni divinatorie.
Procedendo con un ritmo volutamente lento e sonnambulico, fatto di suoni liminali, distorti e disturbanti che permeano l’atmosfera enigmatica della seria, ci addentreremo in una narrazione terribilmente celebrale e colta, in cui a teorie psicologiche e a studi fisiologici si accompagnano l’attenta analisi introspettiva dei protagonisti e la loro evoluzione mentale ed emotiva, unite a un’aura di sospensione in cui all’impossibilità di comprendere la dimensione Kakuriyo si combinano ipotesi sulla percezione dello spazio-tempo e teorie di fisica quantistica. E, certo, i cartelli del fansub aiutano parecchio, ma bisogna avere delle basi solidissime per non annegare nella profondità di comprensione scavata da Ghost Hound.
Ora, rispetto a Mushishi viene curato meno il lato spirituale/sovrannaturale del mondo sovrapposto, che resta avvolto da un mistero inspiegabile che lascia lo spettatore libero di trarre le sue conclusioni tra le diverse teorie prese in esame dalla riflessione di Taro. Qui sono la psicologia e le ricerche percettive a farla da padrone, mettendo in discussione i concetti di visione sensibile e di tangibilità della realtà. Sul lato grafico non è supermega, ma i disegni lineari e morbidi sono più che dignitosi – a tratti anche molto sensuali – e i colori rendono bene l’atmosfera, anche se i fondali sono buoni ma non reggono il confronto con il dettaglio naturalistico meraviglioso di Mushishi. Proprio da quest’ultimo si differenzia la narrazione, perché la varietà dei personaggi porta avanti una trama matura in cui gli stessi evolvono in modo molto interessante e convincente, e in cui tutti i vari aspetti morbosi delle vicende sono legati da un filo invisibile che congiunge passato e presente in una rappresentazione eccellente del passaggio generazionale all’interno del villaggio.
Andando contro, dico che il finale è azzeccato (bellissima la riunione psichedelica degli hippy sulla montagna), perché la vicenda principale trova piena soluzione e perché costringere in una spiegazione definitiva il concetto dimensionale ambiguo portato avanti sarebbe stato una forzatura stonata. Invece dopo aver spremuto la comprensione, è meglio farle prendere un po’ d’aria e in pace trarre le conclusioni. Così Ghost Hound si svela lentamente ma inesorabilmente, imbriglia nella sua tela sofisticata e intellettuale, e rivela il suo grandissimo pregio/difetto: essere una serie complessissima e cerebrale – per un pubblico ristrettissimo, riflessivo e paziente (molto-molto paziente).