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Un film per tutti e per nessuno.

"Tenshi no Tamago", che tradotto significa "L'uovo dell'angelo", è un lungometraggio partorito dalla feconda unione dei due geni di Mamoru Oshii e Yoshitaka Amano. Tale perla è da ritenersi "sine dubio" uno dei film d'animazione maggiormente sperimentali e atipici mai creati, sia considerando la foggia estetica sia andando a guardare la sfera narrativa e concettuale: un vero e proprio "unicum" nell'ambito della cinematografia nipponica. Purtroppo la sua uscita nelle sale è stata accolta con freddezza dal pubblico e presto il suo nome è svanito dalle scene, obliato nei meandri del tempo, per rimanere noto e apprezzato solo da pochissimi appassionati.
Si tratta di un film molto particolare, caratterizzato da continui intrecci di allegorie, simboli e metafore, tanto che il compito di districarne il senso appare significativamente difficoltoso. In realtà si tratta di un lungometraggio a cui non si può dare un'unica interpretazione, è la sensibilità dello spettatore a fare da padrona e a plasmarne il senso.

"Tenshi no Tamago" è, in primo luogo, un'affascinante esperienza estetica di grande caratura e raffinatezza, una poesia di immagini, di suoni, ma soprattutto di silenzi, capace di grande suggestione. Sin dagli esordi ci immerge in scenari cupi e opprimenti, i fondali appaiono quasi dipinti e vividi, tanta è la loro accuratezza. Le animazioni si rivelano eleganti e aggraziate, studiate nel dettaglio: si noti ad esempio il fluire dei capelli della bambina, questi vengono disegnati uno per uno e l'effetto si palesa tremendamente realistico. Le musiche, composte da cori eterei, quasi sacri, concretizzano un'atmosfera onirica, ai limiti tra sogno e realtà.
In tale contesto, alienante e stordente, si muoveranno le uniche due figure presenti: una bambina, custode dell'uovo titolare del film, e un uomo in viaggio, armato di un fucile a forma di croce e le cui mani sono segnate dalle stimmate.
La scena si divide precipuamente tra gli ambienti all'interno dell'arca e la fatiscente e inquietante città morta sulle rive del mare.

Un'esegesi completa di ogni sequenza richiederebbe troppo spazio e apparirebbe quantomeno fuori luogo in questa sede. Sembra quindi doveroso, all'estensore di questa recensione, trattare solo alcuni simbolismi cardine, per offrire un piccolo assaggio dei possibili significati del film, che si giostrano in un sottofondo concettuale variamente assortito, tra esistenzialismo, nichilismo e religiosità.
In primis si può scovare agevolmente un sostanzioso numero di riferimenti alle religioni cristiana ed ebraica: i pesci e i pescatori, il fucile a forma di croce, l'angelo, l'albero della vita, la cattedrale gotica, l'arca. Non ritengo che in questa sede siano stati posti in essere per mero gusto esotico e trastullo estetico, sia andando a considerare l'importanza di alcuni passi biblici recitati in alcune sequenze, sia alla luce del fatto che poco tempo prima di realizzare il film Oshii si era interessato al cristianesimo, per poi abbandonarlo. Una premessa importante, viste le tematiche in questione.

Ma andiamo al punto fondamentale, il fulcro dell'opera è costituito dal rapporto tra le due allegorie della bambina e dell'uomo, e nella loro relazione con l'uovo. I dialoghi sono ridotti all'osso, e spesso sembra che le due figure siano incapaci di comunicare tra loro. Il loro rapporto e atteggiamento con l'uovo è antitetico e configgente. La bambina infatti confida ciecamente che in esso vi sia custodito un tesoro prezioso e di inestimabile valore, che esso nasconda una verità rassicurante, tanto che crede di sentire dei rumori provenire dall'interno. Si tratta di un atteggiamento quasi "religioso", che si fonda sulla fede, su un'intima e innocente convinzione personale. Al contrario l'uomo, il guerriero, è in preda al dubbio, anela la conoscenza non bastandogli la parola della bambina, incarna uno spirito quasi filosofico, scientifico (ancora, la bambina potrebbe simboleggiare la purezza e ingenuità dell'infanzia, mentre l'uomo l'età adulta che ne tradisce le ingenue speranze). Egli non sa resistere alla tentazione della conoscenza e viene meno al suo patto, tradendo l'innocente fiducia della ragazzina, rompe il fragile scrigno per denudare la verità e vederla con i suoi occhi, finendo tuttavia per rivelare che esso è vuoto. Al suo risveglio (forse una metafora del disincanto, del destarsi da un sogno) la piccola si troverà innanzi all'empia scena, comprendendo che tutto ciò in cui fino a quel momento aveva creduto e confidato era solamente un prodotto della sua mente, un'illusione. L'intero mondo in cui credeva si basava su false convinzioni che aveva costruito lei stessa in base alle sue speranze, l'uovo infatti è vuoto. Incapace di accettare una simile verità si lancia in una disperata e futile corsa verso il nulla, verso un baratro (simbolo della mancanza di ogni certezza, di ogni appiglio), per poi cadere da un precipizio e affogare in un corso d'acqua. Stupenda e intrisa di lirismo è l'immagine che vede l'avvicinarsi della bambina al riflesso della "lei" adulta generatosi sulla superficie dell'acqua: le due si fondono e danno vita a un'innumerevole quantità di nuove uova, di altri dubbi di cui il mondo adulto e disilluso è triste annunciatore.

Altre due sequenze, tra le innumerevoli allegorie di quest'opera, sono a mio avviso da ricordare, sempre per ricondursi al tema nichilistico: quella dei pescatori, cui abbiamo già fatto riferimento, e quella finale.
I pescatori sono raffigurati come degli uomini grigi e inespressivi, tutti identici tra loro tanto da non poterli distinguere. Sono una massa uniforme che si produce in una continua, insensata e quanto mai distruttiva caccia a delle ineffabili ombre a forma di pesce, che tuttavia non possono sperare di catturare con i loro arpioni. Gli uomini infine sono uguali, cadono nel medesimo errore di credere in mendaci ideali, di dedicare la loro vita alla rincorsa di ombre, di sogni e chimere che non esistono, come ad esempio il senso dell'esistenza oppure di Dio, e altri falsi idoli comuni alla stirpe di Adamo. La verità è che non esiste alcuna divinità (simboleggiata dal pesce anche nel rosone della cattedrale), essa è solo un'ombra cui l'uomo non può fare a meno di dare la caccia, ma che non può afferrare.
La scena conclusiva, infine, fa trasparire un forte senso di insignificanza delle vicende e dei dolori umani, che scorrono inutilmente, meno rilevanti di un pezzetto di muffa e muschio sulla chiglia di una nave. L'imbracazione, rovesciata, sembra un'arca che è naufragata, portando l'umanità alla deriva di un oceano nero e denso come la pece. Una conclusione cupa e sconfortante, di rara suggestione.