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"Genio e sregolatezza fa più effetto, ma la normalità è la vera conquista". (Fabrizio Caramagna)

Ogni tanto mi concedo la visione di un film anime al cinema e non potevo mancare l'appuntamento con l'ultima fatica della premiata (e apprezzata) ditta Naoko Yamada alla regia e Reiko Yoshida alla sceneggiatura. Investimento minimo (eufemismo) ben ripagato sia dalla qualità di "I colori dell'anima" sia dall'opportunità sempre piuttosto rara di beneficiare del c.d. grande schermo (non proprio grandissimo - saletta da 32 posti) e dall'audio stereo (non dolby, purtroppo, vista anche la preponderanza della musica nel film) correttamente posizionato che rende un minimo di "tridimensionalità" all'audio.

Avendo già visto "A silent voice" e "Liz e l'uccellino azzurro" non mi aspettavo rivoluzioni nello stile narrativo già apprezzato nelle due precedenti opere. E infatti dal punto di vista della sceneggiatura ho ritrovato un po' quelli che sono gli stilemi tipici di Yamada e Yoshida: molto orientale, contemplativo, ricco di dettagli descritti con cura maniacale, metaforico/allegorico in cui nessun elemento grafico e sonoro è stato inserito casualmente, obbligando lo spettatore a sforzarsi di interpretare ciò che sta osservando per intuire cosa stia cercando di trasmettere la regista.

"I colori dell'anima" racconta una storia in apparenza come tante e "normale" di tre ragazzi alle prese con il solito "coming of age": Totsuko, Kimi e Rui sono studenti delle superiori che a vario titolo hanno vissuto e vivono le classiche situazioni di ricerca di un proprio posto nel mondo, alla scoperta di se stessi e all'affermazione del proprio io nell'eterna e irrisolvibile dicotomia tra ciò che vorrebbero essere e ciò che gli altri vorrebbero che fossero. Quindi quale sarebbe il "quid novi" di questo film rispetto alla moltitudine di opere sul tema?
Ancora una volta il "quid" che contraddistingue il film d'animazione non è il "cosa" ma il "come" della narrazione. Del resto dal duo artistico consolidato non mi sarei aspettato situazioni di conflitto esasperato ed esplicito, melodrammi, contrapposizioni, azioni e reazioni all'eccesso cui tanti anime ci hanno abituato per rappresentare il modo con cui gli adolescenti tendono ad approcciare i coetanei e il mondo adulto con le sue costrizioni, consuetudini, regole, lacci e lacciuoli che se da un lato obbligano a "crescere", dall'altro tendono a rendere i giovani adulti nel peggiore dei casi dei disillusi, alienati e tormentati dai rimpianti.

In "I colori dell'anima" non si ha nulla di tutto ciò, perché la storia è narrata proprio dal punto di vista piuttosto realistico dei tre protagonisti che sono tre normalissimi e classici bravi ragazzi, con le loro ingenuità, sogni, visione della realtà molto semplice e priva di qualsiasi "sovrastruttura" adulta che non appartiene loro: una storia di innocenza non ancora "perduta" in cui la fanciullezza non ha ancora completamente abdicato nei confronti dell'assunzione delle responsabilità e dei doveri.

Tale aspetto è tanto più evidente in Totsuko Higurashi che oltre ad essere ancora una bambinona sognatrice ha anche un particolare "dono": riuscire a vedere il colore dell'aura che ogni persona emana e che dovrebbe caratterizzare/contraddistinguere lo spirito della persona.
In realtà il fenomeno è definito in ambito medico come "sinestesia", ossia un "fenomeno neurologico in cui la stimolazione di un senso o di una parte del cervello porta all'involontaria esperienza in un secondo senso o parte del cervello" (descrizione tratta dalla rete). A mero titolo di esempio, la sinestesia denominata "grafema-colore" determina una percezione in cui la vista di lettere o numeri induce la percezione di colori associati in modo automatico e involontario.

Riconosco che in questa occasione il duo Yamada/Yoshida mi ha parzialmente sorpreso rispetto al passato: l'introduzione di un elemento pseudo-soprannaturale (definibile anche "patologico"), che caratterizza il nome del film e che resta poco spiegato nella storia, è una trovata che tuttavia tende a mascherare un possibile significato attribuibile alla trama e che si potrebbe comprendere nel finale, quando Totsuko finalmente intuisce il colore che contraddistingue il suo spirito, e nella scena post-credits (mi raccomando, non lasciate la sala o la visione del film ai titoli di coda...).

L'ambientazione in una scuola cattolica femminile, si rigida ma anche fin troppo comprensiva nei confronti di coloro trasgrediscono a mo' di marachelle le sue regole, e l'utilizzo di una chiesa in disuso su un'isoletta come sala prove musicali in cui i tre protagonisti iniziano a coltivare e sviluppare la loro comune passione verso la nobile arte della musica possono far meditare sulla profonda influenza che la fede, con i suoi riti e regole, opera sulla vita dei personaggi del film, nel bene e anche nel male, fino all'apoteosi quasi "orgiastica" del concerto di Totsuko, Kimi e Rui in cui danno sfoggio delle loro capacità musicali anche con testi non propriamente definibili banali e superficiali che danno loro modo di esprimere quello che realmente sentono e vivono.
Se la scuola cattolica con le sue limitazioni sembra rappresentare un ostacolo al libero esplicarsi delle aspirazioni di due dei tre protagonisti, la chiesa abbandonata (in un certo senso priva dei fedeli e delle regole) sembra invece accogliere i tre aspiranti musicisti senza remore, quasi a rappresentare una fede più pura e semplice, capace di accogliere chiunque senza imporre alcun precetto o visione della vita, nel probabile vero spirito ecclesiale delle comunità cristiane dei primordi.

La musica è il backbone del film e si rinnova la collaborazione di Naoko Yamada con il musicista Kensuke Ushio, con cui la regista ha già collaborato per "A silent voice" e "Liz e l'uccellino azzurro". Le tre canzoni suonate dal trio al festival della scuola cattolica ("Apology Letter - The good, the true, the beautiful", "Walk" e "Amen, I'm going somewhere" attribuibili per ispirazione rispettivamente a Rui, Kimi e Totsuko) sono orecchiabili, carine e non certo genere jpop (per fortuna). Quel genere di musica elettronica, synth-pop-rock, con i testi scritti dalla stessa regista, a miglior dimstrazione della poliedricità della regista, che, se non ho preso un abbaglio sonoro, ha pure inserito una piccola parte di "Born slippy" di Underworld, reso celebre in quanto inserito nella colonna sonora del film "Trainspotting" - 1996), strizzando l'occhio ai "giovani" della sua generazione.

Dal punto di vista tecnico, allo stile di N. Yamada non riesco a trovare difetti evidenti. il chara design pur non entusiasmandomi (gusti meramente personali) è di una raffinatezza e morbidezza incredibili. Totsuko è rappresentata fisicamente come lo spettatore potrebbe aspettarsela visto il suo carattere ingenuo, pacioso, infantile, gentile e premuroso: una ragazzina un po' in carne, lieneamenti dolci, forme morbide e nessuna esagerazione di femminilità, neppure dal punto di vista dell'abbigliamento. Una sorta di quei putti/angioletti di Fiorucci... Stesse considerazioni per Kimi: sicuramente più carina (ma anche un po' tormentata) ma non per questo nè esibizionista nè civettuola nè estrema nei suoi comportamenti e atteggiamenti. Le animazioni sono di pregio e si apprezzano al meglio nelle scene di musica per la loro fluidità.

Lo stile dei disegni e dei colori così acquarellati, stile pastello, e non vividi o saturi, attribuiscono alle immagini una senzazione di dolcezza e tepore in linea con la storia e i presunti messaggi che la regista sembra voler veicolare. E la morbidezza non va a scapito della definizione dei dettagli: certe inquadrature in cui la regista da sfoggio delle sue abilità tecniche con panning lenti e molti effetti bokeh, rendono al meglio certi passaggi tecnici quali, mi vengono in mente fra i tanti, quei frame relativi alle gocce della fontana e ai riflessi dei personaggi sull'acqua increspata dalla caduta dell'acqua stessa... Il doppiaggio italiano, a tratti mi è sembrato un po' enfatico e nei toni talvolta fuori luogo rispetto al tenore delle scene narrate e delle immagini. E non vuol essere una critica ai doppiatori: spesso mi è capitato di vedere anime in lingua originale sottotitolati che tuttavia non mi hanno convinto comunque nel doppiaggio.

Ma è quindi un film perfetto, allo stesso livello delle produzioni del passato della regista? Ad essere un po' pignoli, ma credo si tratti di gusti personali, la leggerezza della trama e il parziale mancato approfindimento di due dei tre protagonisti può dare la vaga sensazione di incompiutezza. Al solito, per i più pragmatici e concreti, il film "non conclude" (come scriverebbe Pirandello). Lascia in apparenza tutto sospeso.
Il film assomiglia più ad una carezza senza parole che lascia il beneficiario un po' interdetto a pensare su cosa ha visto e sentito. Anche la metafora dei colori dell'anima sembra passare un po' in sordina: rappresenta il titolo del film ma non sembra essere il leit motiv dell'opera.

Tuttavia, concludo con una mia personalissima idea del film che mi ha suscitato la rivelazione del colore dell'anima dei tre protagonisti percepita da Totsuko: i tre colori base che utilizzati con il metodo definibile come additivo e mischiati assieme al 100% costituiscono il bianco e la loro totale assenza il nero e le loro diverse combinazioni tutti gli altri colori come metafora della combinazione dei tre ragazzi capaci di trasformare le loro talentuose singolarità musicali in un unicum paragonabile ad un affresco di infiniti colori armoniosi.

"Everyone must choose the colour they live [...] I don't live, live like the blind..." cantavano i Ti.pi.cal. in una canzoncina estiva del 1995 che guardacaso è intitolata "The colour inside"...

Ancora una volta mi inchino al talento artistico di una delle mie registe preferite...