Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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L'isola di Giovanni
9.0/10
Ogni Paese ha la propria data sacra ed intoccabile, quella che ha lasciato un segno indelebile nella storia, per i cambiamenti di cui si è fatta foriera e che, per questo motivo, non potrà mai essere dimenticata. Per l’Italia, questa data è il 17 marzo 1861, anno dell’unificazione nazionale. Per gli Stati Uniti, è il 4 luglio 1776, giorno dell’Indipendenza. Per il Giappone, invece, è il 14 agosto 1945, anno della resa incondizionata proclamata dall’Imperatore Showa, che sanciva la sconfitta giapponese nel secondo conflitto mondiale. Resa che si aggiungeva ai tragici avvenimenti di qualche giorno addietro, l’esplosione delle due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki, avvenute rispettivamente il 6 e il 9 agosto. Queste tre date rimarranno ben impresse nella mente dei giapponesi ancora per molti anni. Non deve sorprendere, dunque, che nel 2014, a quasi settant’anni di distanza, un autore come Shigemichi Sugita, decida di tornare sull'argomento. A riprova di come, tutto ciò, abbia rappresentato e rappresenti ancora oggi, una ferita insanabile per ogni cittadino del Sol Levante.
A differenza di grandi capolavori del panorama nipponico, incentrati sulla guerra e sui tragici avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki, come “Gen di Hiroshima”, “L’isola di Giovanni” di Shigemichi Sugita decide, invece, di puntare il proprio sguardo sul periodo post-bellico. Interessandosi, in particolar modo, a cosa accadde ai giapponesi che videro i propri spazi invasi dalle temibili armate russe e di come queste ultime si resero protagoniste di violenze e deportazioni. Il tutto, genuinamente filtrato, attraverso gli innocenti occhi di Giovanni e Campanella, due bambini dal cuore puro e dotati di una grande immaginazione.
Nella piccola isola di Shikotan, vivono due fratelli, Junpei e Kanta, ovvero Giovanni e Campanella, nomi dei due protagonisti di un racconto giapponese molto famoso in patria, "Una notte sul treno della Via Lattea" di Kenji Miyazawa. Nonostante la guerra stia imperversando in Giappone e nel resto del mondo, i due fratelli vivono una vita tranquilla e questo perché, da loro, la guerra non è arrivata, o almeno, non nelle sue forme più cruente. Il 14 agosto 1945, però, quando l’imperatore dichiara la resa giapponese, l’isola di Shikotan viene occupata militarmente dalle truppe russe. Da questo momento in poi, per Giovanni e Campanella, così come per gli abitanti dell’isola, le cose cambiano radicalmente. Molte famiglie sono costrette a cedere una parte della loro casa ai russi che, intanto, hanno dato inizio a continui moti di deportazione di massa. Il cibo viene razionato, le barche dei pescatori distrutte. Si innesca, ben presto, un vero e proprio scontro tra civiltà e culture diverse. Uno scontro che, soltanto grazie alla purezza e genuinità dei bambini, riuscirà a trasformarsi in incontro e nella possibilità di una convivenza pacifica con l’altro.
Ed è proprio nella convivenza con l’altro, con il nemico, che troviamo uno dei temi portanti del film. Una convivenza, invero, difficile, tra due popoli inconciliabili. Da una parte quello giapponese, un popolo prospero, che farà della solidarietà e del vivere in comunità due dei pilastri della propria società; dall’altra quello russo, un popolo dedito alla guerra, poco socievole e, da sempre, guardato con sospetto. Eppure, lì dove gli adulti vedono uno scontro certo, Giovanni e Campanella, intravedono la possibilità di conoscere l’altro e imparare a conviverci. Due veri promotori di integrazione sociale. Loro, che sono due sognatori senza speranza, spalancano le porte del proprio sogno, per farlo conoscere al mondo intero. Ecco, quindi, che a bordo del treno della Via Lattea, i due fratelli non precludono l’accesso a nessuno, nemmeno alla bellissima Tanya, la ragazza russa che insieme alla sua famiglia, si è “appropriata” della casa di Junpei e Kanta. I tre passeranno tanti momenti assieme, sia felici che tristi. Ed è attraverso le sequenze che li vedono protagonisti, che passano i messaggi più importanti dell’opera. Certo, la guerra fa schifo, perché divide i popoli e non fa distinzioni, colpendo anche i più piccoli, che la guerra non riescono a comprenderla. Certo, i vinti devono patire delle sofferenze atroci, ma i vincitori non se la passano tanto meglio, perché cambiare casa ogni anno, non è affatto facile e non lo è nemmeno integrarsi in un posto nuovo, dove tra l’altro, sei guardato con sospetto. Certo, la guerra impone delle regole rigide da rispettare, ma ai bambini delle regole non interessa nulla, specialmente a Giovanni e Campanella che, finché la loro immaginazione sarà viva, continueranno a viaggiare nell’universo sconfinato, senza catene e senza divisioni, a bordo del loro treno, aprendo le porte a chiunque vorrà entrare, perché a questo mondo si sta bene solo in compagnia, la solitudine lasciamola a chi piace alzare i muri e imporre i limiti.
D’altronde, questi sono solo nella nostra mente, mentre i sogni ci rendono liberi.
A differenza di grandi capolavori del panorama nipponico, incentrati sulla guerra e sui tragici avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki, come “Gen di Hiroshima”, “L’isola di Giovanni” di Shigemichi Sugita decide, invece, di puntare il proprio sguardo sul periodo post-bellico. Interessandosi, in particolar modo, a cosa accadde ai giapponesi che videro i propri spazi invasi dalle temibili armate russe e di come queste ultime si resero protagoniste di violenze e deportazioni. Il tutto, genuinamente filtrato, attraverso gli innocenti occhi di Giovanni e Campanella, due bambini dal cuore puro e dotati di una grande immaginazione.
Nella piccola isola di Shikotan, vivono due fratelli, Junpei e Kanta, ovvero Giovanni e Campanella, nomi dei due protagonisti di un racconto giapponese molto famoso in patria, "Una notte sul treno della Via Lattea" di Kenji Miyazawa. Nonostante la guerra stia imperversando in Giappone e nel resto del mondo, i due fratelli vivono una vita tranquilla e questo perché, da loro, la guerra non è arrivata, o almeno, non nelle sue forme più cruente. Il 14 agosto 1945, però, quando l’imperatore dichiara la resa giapponese, l’isola di Shikotan viene occupata militarmente dalle truppe russe. Da questo momento in poi, per Giovanni e Campanella, così come per gli abitanti dell’isola, le cose cambiano radicalmente. Molte famiglie sono costrette a cedere una parte della loro casa ai russi che, intanto, hanno dato inizio a continui moti di deportazione di massa. Il cibo viene razionato, le barche dei pescatori distrutte. Si innesca, ben presto, un vero e proprio scontro tra civiltà e culture diverse. Uno scontro che, soltanto grazie alla purezza e genuinità dei bambini, riuscirà a trasformarsi in incontro e nella possibilità di una convivenza pacifica con l’altro.
Ed è proprio nella convivenza con l’altro, con il nemico, che troviamo uno dei temi portanti del film. Una convivenza, invero, difficile, tra due popoli inconciliabili. Da una parte quello giapponese, un popolo prospero, che farà della solidarietà e del vivere in comunità due dei pilastri della propria società; dall’altra quello russo, un popolo dedito alla guerra, poco socievole e, da sempre, guardato con sospetto. Eppure, lì dove gli adulti vedono uno scontro certo, Giovanni e Campanella, intravedono la possibilità di conoscere l’altro e imparare a conviverci. Due veri promotori di integrazione sociale. Loro, che sono due sognatori senza speranza, spalancano le porte del proprio sogno, per farlo conoscere al mondo intero. Ecco, quindi, che a bordo del treno della Via Lattea, i due fratelli non precludono l’accesso a nessuno, nemmeno alla bellissima Tanya, la ragazza russa che insieme alla sua famiglia, si è “appropriata” della casa di Junpei e Kanta. I tre passeranno tanti momenti assieme, sia felici che tristi. Ed è attraverso le sequenze che li vedono protagonisti, che passano i messaggi più importanti dell’opera. Certo, la guerra fa schifo, perché divide i popoli e non fa distinzioni, colpendo anche i più piccoli, che la guerra non riescono a comprenderla. Certo, i vinti devono patire delle sofferenze atroci, ma i vincitori non se la passano tanto meglio, perché cambiare casa ogni anno, non è affatto facile e non lo è nemmeno integrarsi in un posto nuovo, dove tra l’altro, sei guardato con sospetto. Certo, la guerra impone delle regole rigide da rispettare, ma ai bambini delle regole non interessa nulla, specialmente a Giovanni e Campanella che, finché la loro immaginazione sarà viva, continueranno a viaggiare nell’universo sconfinato, senza catene e senza divisioni, a bordo del loro treno, aprendo le porte a chiunque vorrà entrare, perché a questo mondo si sta bene solo in compagnia, la solitudine lasciamola a chi piace alzare i muri e imporre i limiti.
D’altronde, questi sono solo nella nostra mente, mentre i sogni ci rendono liberi.
"Sarusuberi: Miss Hokusai" è un film anime uscito nella primavera del 2015, che, visto su consiglio di alcuni amici, si è scoperto essere un'opera molto suggestiva, ambientata negli anni intorno al 1830 nell'antica Tokyo dell'era Edo. L'anime è tratto dal manga del 1983 di Hinako Sugiura, saggista ed esperta di usi e costumi dell'epoca Edo oltre che mangaka.
Il film animato vede alla regia Keiichi Hara e ha vinto diversi riconoscimenti, ponendosi come una delle produzioni di punta dell'animazione giapponese. Dello stesso regista ho visto anche "Colorful", film anime del 2010 di cui ho avuto modo di apprezzare sia la trama sia lo stile narrativo e registico: Hara si è dimostrato nuovamente molto bravo e abile a rendere i dialoghi e i momenti di silenzio e interazione tra i personaggi.
E il soggetto narrato in "Miss Hokusai" si presta bene al suo stile: il film narra una parte della vita di Ô-Ei, figlia di secondo letto del pittore Katsushika Hokusai durante il periodo degli anni '30 del secolo XIX, e ne esce un quadro di una donna dal grande talento artistico ma anche dal grande spirito autonomo e dalla personalità forte e indipendente.
Grazie all'anime mi sono documentato un pochino sulla vita di Ô-Ei e ho avuto modo di scoprire che ha collaborato con il padre, producendo diverse opere che poi sono state diffuse sotto il nome del genitore.
Della vita di Ô-Ei non sono riuscito ad ottenere molte informazioni. Dovrebbe essere nata quando Hokusai (1760-1849) aveva trentasette anni e altri figli, tra i quali la pittrice Otetsu, morta in giovane età. Lei ha comunque rappresentato la vera erede artistica del pittore.
Ô-Ei si sposò con un mercante, Minamizawa Tomei, e studiò arte presso il pittore Tsutsumi Torin. Ma dopo poco tempo divorziò dal marito. E così tornò a vivere con il padre Hokusai, collaborando con lui nella sua arte, e iniziò a produrre anche opere proprie. E, mutatis mutandis, il film animato sembrerebbe proprio documentare questa fase della sua vita, ma, data la giovane età del personaggio del film, si potrebbe anche ipotizzare che il film consideri la Ô-Ei prima del matrimonio.
In ogni caso, dopo il divorzio, Ô-Ei visse con il padre e lo accudì nella sua vecchiaia fino alla sua morte.
Sembra che Ô-Ei condividesse con Hokusai una vita quotidiana alquanto disordinata, dove l’interesse per l'arte escludesse ogni altra preoccupazione per la vita di tutti i giorni; pertanto, piuttosto che provvedere anche alla pulizia e manutenzione dell’abitazione, Ô-Ei e Hokusai erano soliti trasferirsi periodicamente di casa, dedicandosi completamente al loro lavoro.
Tale circostanza appare anche nel film, dove si vede che vivono in una casa disordinata e piena di fogli e bozzetti di scarto dei loro disegni, lasciando lo spettatore un po' perplesso su come vivessero e sullo spreco di una risorsa che credo al tempo non fosse proprio alla portata di tutti...
Entrambi gli artisti seguivano lo stile ukiyo-e, ossia della "pittura della vita che passa, del mondo fluttuante" che si diffuse tra il XVII e la fine del XIX secolo, e aprì il Giappone agli influssi occidentali, ma di questo stile e delle loro opere c'è solo un accenno in un breve passaggio un po' metaforico del film, di quella che è l'opera più famosa di Hokusai, l' "Onda di Kanagawa". Era una forma d'arte meno solenne di quella in voga all'epoca, che era più elitaria, trattando scene di vita quotidiana con soggetti più comuni.
Ô-Ei ha prodotto molte opere sia a sua firma sia per il padre, a soggetto di creature mitologiche e ritratti di donne, con uno stile più dinamico rispetto a quello tradizionale giapponese, con forme stilizzate e colori uniformi. Dopo la morte del padre Ô-Ei visse la sua vecchiaia in solitudine in un quartiere di Edo (Tokyo), guadagnandosi da vivere vendendo i suoi quadri. Si ipotizza che il suo decesso sia databile nel 1866.
La storia di Ô-Ei è stata ripresa da Hinako Sugiura che, tra il 1983 e il 1987, l'ha trasposta nel manga "Sarusuberi" ("Mirto crespo"), in cui Ô-Ei viene descritta come uno spirito libero e creativo, che vive all'ombra della celebrità del padre.
Da ultimo, nel 2015, abbiamo il film in recensione, in cui il personaggio viene raccontato come una donna giovane e a suo modo affascinante: riservata ma anche disinvolta nel lavoro, molto affettuosa nei confronti della sorellina quanto insofferente alle convenzioni sociali e all'ingombrante padre.
In questa ricostruzione del regista Keiichi Hara, ispirata anche al fumetto della Sugiura, Ô-Ei sembra avere un rapporto di amore e odio nei confronti del padre, che appare un personaggio piuttosto atarassico, tanto grande come artista ma umanamente molto semplice, umile e (in apparenza...) incapace di accettare la cecità di un’altra figlia, Onao, che non va mai a trovare.
Di sicuro la visione del film va inquadrata nell'ottica della società giapponese del tempo, dei ruoli familiari e sociali e del prevalente maschilismo. Dal film emerge la personalità della pittrice anche nel suo non essere una donna "tradizionale" dedita alla famiglia e alla cura del marito, dei figli e della casa, che esterna il suo talento all'ombra del padre, vivendo un po' in modo indipendente, libero (parzialmente...) dalle convenzioni della società dell'epoca.
Ma esce anche l'immagine di una donna sensibile, molto affezionata alla sorellina "sfortunata" di cui cerca di prendersi cura, dedicandole quanto possibile del suo tempo. Proprio le scene in cui le due sorelle sono assieme, interagendo più con i gesti e i silenzi piuttosto che con i dialoghi, rappresentano il punto forte dell'anime. Tale caratteristica sembra essere un "marchio di fabbrica" del regista Keiichi Hara, avendo già visto "Colourful" del 2010: particolarmente poetiche le scene del ponte, della gita in barca e soprattutto del momento del gioco nella neve. Scene che dimostrano la grande abilità di Hara nel descrivere momenti "slice of life", rendendoli oltremodo delicati, dolci e capaci di trasmettere allo spettatore le sensazioni della protagonista nel momento in cui si compiace della felicità della sorellina.
Hara è riuscito anche a trasmettere l'essenza dello spirito "libero" di Ô-Ei: non sono casuali le scene in cui va a "sperimentare" un bordello maschile, per capire come dare un tocco di sensualità alle sue opere, essendo tacciata di non conoscere l'amore fisico perché non ancora fidanzata/sposata...
Sempre sul tema dell'originalità e indipendenza della pittrice, credo che si possano spiegare in senso metaforico anche l'opening e l'ending del film, piuttosto rockeggianti e molto in contrasto con l'ambientazione dell'opera.
Per il resto, Hara è riuscito a utilizzare l'arte e le vicende di Ô-Ei per rappresentare quel periodo storico della prima metà del XIX sec. del Giappone secondo la visione dell'arte fluttuante, utilizzando le rappresentazioni figurative tipiche di quel movimento artistico: le illustrazioni sulla natura come i fiori, gli insetti, i demoni e mostriciattoli del folklore, le illustrazioni erotiche, i ritratti femminili come quelli delle cortigiane, i paraventi, ecc.
Anche i continui richiami all'aldilà sono molto impregnati delle concezioni tipiche del periodo. E ho trovato molto suggestiva una scena particolare, che non svelo, che dimostra che comunque il maestro Hokusai era molto affezionato anche alla figlia più piccola...
"Miss Hokusai" è sicuramente una piccola e imprescindibile gemma dell'animazione giapponese: forse è un po' "episodico" e non ben amalgamato e fluido negli eventi descritti e può sembrare ad uno sguardo superficiale lento e contemplativo. Ma la sua visione è decisamente consigliata a chi ha già avuto modo di apprezzare le opere precedenti di Hara.
Il film animato vede alla regia Keiichi Hara e ha vinto diversi riconoscimenti, ponendosi come una delle produzioni di punta dell'animazione giapponese. Dello stesso regista ho visto anche "Colorful", film anime del 2010 di cui ho avuto modo di apprezzare sia la trama sia lo stile narrativo e registico: Hara si è dimostrato nuovamente molto bravo e abile a rendere i dialoghi e i momenti di silenzio e interazione tra i personaggi.
E il soggetto narrato in "Miss Hokusai" si presta bene al suo stile: il film narra una parte della vita di Ô-Ei, figlia di secondo letto del pittore Katsushika Hokusai durante il periodo degli anni '30 del secolo XIX, e ne esce un quadro di una donna dal grande talento artistico ma anche dal grande spirito autonomo e dalla personalità forte e indipendente.
Grazie all'anime mi sono documentato un pochino sulla vita di Ô-Ei e ho avuto modo di scoprire che ha collaborato con il padre, producendo diverse opere che poi sono state diffuse sotto il nome del genitore.
Della vita di Ô-Ei non sono riuscito ad ottenere molte informazioni. Dovrebbe essere nata quando Hokusai (1760-1849) aveva trentasette anni e altri figli, tra i quali la pittrice Otetsu, morta in giovane età. Lei ha comunque rappresentato la vera erede artistica del pittore.
Ô-Ei si sposò con un mercante, Minamizawa Tomei, e studiò arte presso il pittore Tsutsumi Torin. Ma dopo poco tempo divorziò dal marito. E così tornò a vivere con il padre Hokusai, collaborando con lui nella sua arte, e iniziò a produrre anche opere proprie. E, mutatis mutandis, il film animato sembrerebbe proprio documentare questa fase della sua vita, ma, data la giovane età del personaggio del film, si potrebbe anche ipotizzare che il film consideri la Ô-Ei prima del matrimonio.
In ogni caso, dopo il divorzio, Ô-Ei visse con il padre e lo accudì nella sua vecchiaia fino alla sua morte.
Sembra che Ô-Ei condividesse con Hokusai una vita quotidiana alquanto disordinata, dove l’interesse per l'arte escludesse ogni altra preoccupazione per la vita di tutti i giorni; pertanto, piuttosto che provvedere anche alla pulizia e manutenzione dell’abitazione, Ô-Ei e Hokusai erano soliti trasferirsi periodicamente di casa, dedicandosi completamente al loro lavoro.
Tale circostanza appare anche nel film, dove si vede che vivono in una casa disordinata e piena di fogli e bozzetti di scarto dei loro disegni, lasciando lo spettatore un po' perplesso su come vivessero e sullo spreco di una risorsa che credo al tempo non fosse proprio alla portata di tutti...
Entrambi gli artisti seguivano lo stile ukiyo-e, ossia della "pittura della vita che passa, del mondo fluttuante" che si diffuse tra il XVII e la fine del XIX secolo, e aprì il Giappone agli influssi occidentali, ma di questo stile e delle loro opere c'è solo un accenno in un breve passaggio un po' metaforico del film, di quella che è l'opera più famosa di Hokusai, l' "Onda di Kanagawa". Era una forma d'arte meno solenne di quella in voga all'epoca, che era più elitaria, trattando scene di vita quotidiana con soggetti più comuni.
Ô-Ei ha prodotto molte opere sia a sua firma sia per il padre, a soggetto di creature mitologiche e ritratti di donne, con uno stile più dinamico rispetto a quello tradizionale giapponese, con forme stilizzate e colori uniformi. Dopo la morte del padre Ô-Ei visse la sua vecchiaia in solitudine in un quartiere di Edo (Tokyo), guadagnandosi da vivere vendendo i suoi quadri. Si ipotizza che il suo decesso sia databile nel 1866.
La storia di Ô-Ei è stata ripresa da Hinako Sugiura che, tra il 1983 e il 1987, l'ha trasposta nel manga "Sarusuberi" ("Mirto crespo"), in cui Ô-Ei viene descritta come uno spirito libero e creativo, che vive all'ombra della celebrità del padre.
Da ultimo, nel 2015, abbiamo il film in recensione, in cui il personaggio viene raccontato come una donna giovane e a suo modo affascinante: riservata ma anche disinvolta nel lavoro, molto affettuosa nei confronti della sorellina quanto insofferente alle convenzioni sociali e all'ingombrante padre.
In questa ricostruzione del regista Keiichi Hara, ispirata anche al fumetto della Sugiura, Ô-Ei sembra avere un rapporto di amore e odio nei confronti del padre, che appare un personaggio piuttosto atarassico, tanto grande come artista ma umanamente molto semplice, umile e (in apparenza...) incapace di accettare la cecità di un’altra figlia, Onao, che non va mai a trovare.
Di sicuro la visione del film va inquadrata nell'ottica della società giapponese del tempo, dei ruoli familiari e sociali e del prevalente maschilismo. Dal film emerge la personalità della pittrice anche nel suo non essere una donna "tradizionale" dedita alla famiglia e alla cura del marito, dei figli e della casa, che esterna il suo talento all'ombra del padre, vivendo un po' in modo indipendente, libero (parzialmente...) dalle convenzioni della società dell'epoca.
Ma esce anche l'immagine di una donna sensibile, molto affezionata alla sorellina "sfortunata" di cui cerca di prendersi cura, dedicandole quanto possibile del suo tempo. Proprio le scene in cui le due sorelle sono assieme, interagendo più con i gesti e i silenzi piuttosto che con i dialoghi, rappresentano il punto forte dell'anime. Tale caratteristica sembra essere un "marchio di fabbrica" del regista Keiichi Hara, avendo già visto "Colourful" del 2010: particolarmente poetiche le scene del ponte, della gita in barca e soprattutto del momento del gioco nella neve. Scene che dimostrano la grande abilità di Hara nel descrivere momenti "slice of life", rendendoli oltremodo delicati, dolci e capaci di trasmettere allo spettatore le sensazioni della protagonista nel momento in cui si compiace della felicità della sorellina.
Hara è riuscito anche a trasmettere l'essenza dello spirito "libero" di Ô-Ei: non sono casuali le scene in cui va a "sperimentare" un bordello maschile, per capire come dare un tocco di sensualità alle sue opere, essendo tacciata di non conoscere l'amore fisico perché non ancora fidanzata/sposata...
Sempre sul tema dell'originalità e indipendenza della pittrice, credo che si possano spiegare in senso metaforico anche l'opening e l'ending del film, piuttosto rockeggianti e molto in contrasto con l'ambientazione dell'opera.
Per il resto, Hara è riuscito a utilizzare l'arte e le vicende di Ô-Ei per rappresentare quel periodo storico della prima metà del XIX sec. del Giappone secondo la visione dell'arte fluttuante, utilizzando le rappresentazioni figurative tipiche di quel movimento artistico: le illustrazioni sulla natura come i fiori, gli insetti, i demoni e mostriciattoli del folklore, le illustrazioni erotiche, i ritratti femminili come quelli delle cortigiane, i paraventi, ecc.
Anche i continui richiami all'aldilà sono molto impregnati delle concezioni tipiche del periodo. E ho trovato molto suggestiva una scena particolare, che non svelo, che dimostra che comunque il maestro Hokusai era molto affezionato anche alla figlia più piccola...
"Miss Hokusai" è sicuramente una piccola e imprescindibile gemma dell'animazione giapponese: forse è un po' "episodico" e non ben amalgamato e fluido negli eventi descritti e può sembrare ad uno sguardo superficiale lento e contemplativo. Ma la sua visione è decisamente consigliata a chi ha già avuto modo di apprezzare le opere precedenti di Hara.
Revenger
7.0/10
Le voci dicono che, imprimendo il segno dei denti su una moneta d’oro (koban), se il vostro odio è sufficientemente profondo, i Revenger porteranno a termine qualsiasi vendetta. E come l’acqua con un mulino, sono proprio queste monete intrise d’odio a far muovere gli eventi in questa serie.
Il protagonista è Kurima Raizo, un samurai al servizio del signore locale Matsumine. Abilissimo nell’arte della spada, gli viene commissionato l’omicidio di Hirata Genshin, padre della sua promessa sposa, accusato di essere coinvolto nel contrabbando di oppio a Nagasaki. Ligio al dovere, Raizo adempie al suo compito, ma scopre ben presto di essere stato solo usato. Ridotto in fin di vita dalle guardie di Matsumine, viene salvato da un gruppo di persone molto particolari che si definiscono factotum della vendetta, guidati da Usui Yuen. In realtà, Hirata Genshin stava indagando lui stesso sul contrabbando e si era rivolto a Yuen nel caso avesse fallito le sue indagini.
Iniziano così le vicende di Raizo, che insieme ai Revenger cercherà i veri responsabili dietro al contrabbando di oppio, per espiare le sue colpe e trovare un modo per far pace con il suo passato.
La ricerca dei responsabili dietro al contrabbando d’oppio e la vendetta nei loro confronti è il filo conduttore dell’intera opera. A questa trama orizzontale, nei primi episodi, si sovrappongono delle trame verticali che in genere si esauriscono in un episodio. Questo è usato come espediente per presentare sia gli effetti negativi della diffusione dell’oppio sia per approfondire i personaggi principali, ma inizialmente il ritmo ne risente leggermente. Tuttavia si riprende bene nella seconda parte, man mano che i Revenger si avvicinano alla verità.
I toni dell'opera sono seri e i temi affrontati impegnativi. Il problema della diffusione dell'oppio era molto spinoso all'epoca, poteva mettere in ginocchio un'intera città, e viene mostrato sotto molti punti di vista (dagli effetti sociali a quelli politici e sanitari).
Sui personaggi ho giudizi contrastanti, non tutti mi hanno convinta completamente.
Il protagonista è ben caratterizzato, ma durante tutta la serie attraversa un percorso di cambiamento e ricerca interiore che gli impedirà di assolvere completamente al suo ruolo di protagonista. Questa mancanza alle volte rallenta un po' il ritmo della storia, ma nella maggior parte dei casi viene colmata da Yuen, che assolve perfettamente al ruolo di cooprotagonista. Usui Yuen è un uomo carismatico e criptico, sempre composto anche nelle situazioni più critiche, ammalia e tiene bene la scena, ma sappiamo poco del suo passato, e questo rende difficoltoso comprendere e accettare il suo fervore religioso.
Di quelli secondari, alcuni sono molto interessanti e particolari, soprattutto Nio, un ragazzino dal passato tutt’altro che facile e con un senso della morale per niente comune, accolto da Yuen tra i Revenger. Altri sono meno convincenti, soprattutto tra i principali antagonisti.
Il finale è coerente e ben reso, forse avrebbe meritato un episodio in più per essere più d’impatto, ma comunque conclude degnamente la serie.
Nel complesso è una buona serie, tiene alta l'attenzione e merita una visione.
Il protagonista è Kurima Raizo, un samurai al servizio del signore locale Matsumine. Abilissimo nell’arte della spada, gli viene commissionato l’omicidio di Hirata Genshin, padre della sua promessa sposa, accusato di essere coinvolto nel contrabbando di oppio a Nagasaki. Ligio al dovere, Raizo adempie al suo compito, ma scopre ben presto di essere stato solo usato. Ridotto in fin di vita dalle guardie di Matsumine, viene salvato da un gruppo di persone molto particolari che si definiscono factotum della vendetta, guidati da Usui Yuen. In realtà, Hirata Genshin stava indagando lui stesso sul contrabbando e si era rivolto a Yuen nel caso avesse fallito le sue indagini.
Iniziano così le vicende di Raizo, che insieme ai Revenger cercherà i veri responsabili dietro al contrabbando di oppio, per espiare le sue colpe e trovare un modo per far pace con il suo passato.
La ricerca dei responsabili dietro al contrabbando d’oppio e la vendetta nei loro confronti è il filo conduttore dell’intera opera. A questa trama orizzontale, nei primi episodi, si sovrappongono delle trame verticali che in genere si esauriscono in un episodio. Questo è usato come espediente per presentare sia gli effetti negativi della diffusione dell’oppio sia per approfondire i personaggi principali, ma inizialmente il ritmo ne risente leggermente. Tuttavia si riprende bene nella seconda parte, man mano che i Revenger si avvicinano alla verità.
I toni dell'opera sono seri e i temi affrontati impegnativi. Il problema della diffusione dell'oppio era molto spinoso all'epoca, poteva mettere in ginocchio un'intera città, e viene mostrato sotto molti punti di vista (dagli effetti sociali a quelli politici e sanitari).
Sui personaggi ho giudizi contrastanti, non tutti mi hanno convinta completamente.
Il protagonista è ben caratterizzato, ma durante tutta la serie attraversa un percorso di cambiamento e ricerca interiore che gli impedirà di assolvere completamente al suo ruolo di protagonista. Questa mancanza alle volte rallenta un po' il ritmo della storia, ma nella maggior parte dei casi viene colmata da Yuen, che assolve perfettamente al ruolo di cooprotagonista. Usui Yuen è un uomo carismatico e criptico, sempre composto anche nelle situazioni più critiche, ammalia e tiene bene la scena, ma sappiamo poco del suo passato, e questo rende difficoltoso comprendere e accettare il suo fervore religioso.
Di quelli secondari, alcuni sono molto interessanti e particolari, soprattutto Nio, un ragazzino dal passato tutt’altro che facile e con un senso della morale per niente comune, accolto da Yuen tra i Revenger. Altri sono meno convincenti, soprattutto tra i principali antagonisti.
Il finale è coerente e ben reso, forse avrebbe meritato un episodio in più per essere più d’impatto, ma comunque conclude degnamente la serie.
Nel complesso è una buona serie, tiene alta l'attenzione e merita una visione.
L'isola di Giovanni è a tratti poesia pura, rovinata solo leggermente da una traduzione su cui soprassedere.
Miss Hokusai mi è piaciuto meno: più slegato, meno armonico: tante splendide pennellate che, alla fine, mancano di coesione e falliscono nel presentare un quadro organico. Bello, ma non eccelso.
Il terzo mi manca.
E' di Cannarsi, così come Miss Hokusai. Ma se non ricordo male il secondo l'ho visto coi sottotitoli, quindi non saprei.
Da Revenger mi aspettavo di più, invece è un'altra opera di Urobuchi che non riesce ad esprimere le sue potenzialità. Non lo Psycho Pass in salsa samurai che avrebbe dovuto essere quindi, ma comunque è una serie piacevole da guardare, e anche io gli ho dato 7.
@dawnraptor consiglio di amici...ti giuro mi sto ribaltando AHAHAHAHAHAH
@esseci @felpato12 badate qui. quasi all in
caro miro, ricordo perfettamente.
bella serata in "compagnia di amici"; appunto!
Mica potevo dire i magnifici 7
@dawnraptor eccallà...ahahahha
@mirokusama ovviamente top serata. adoro il cinema nostrano ahahah
Cari @alucard80 e @dawnraptor, mantengo il "segreto" sulla "loggia" dei magnifici... in realtà "su consiglio di amici" l'ho inserito io nella rece ... che "ingenuo"...
@dawnraptordirei piu...loggia 22....... 😅
Comunque, lasciatevelo dire, secondo me avete tutti degli ottimi amici...
Complimenti ai recensori!
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