Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo ad opere del 1999, col manga Cowboy Bebop i live action L'estate di Kikujiro e l'anime The Big O.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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7.0/10
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Questi brevi episodi sono concepiti come ulteriori storie da aggiungersi alla parte centrale della serie animata, quando l'equipaggio della nave spaziale è già al completo e la trama sulle storie dei singoli protagonisti non ha raggiunto ancora il suo climax. Personalmente ho trovato molto carini questi tre numeri, con uno stile di disegno che inizialmente sembra cozzare con quello della serie animata, ma poi diventa piacevole e curato nel proseguire della lettura, un po' perché l'occhio si abitua al cambiamento, un po' perché l'autore evidentemente sembra diventare più sicuro nel caratterizzare i personaggi.
Sinceramente non credo che avrei potuto apprezzare il manga senza aver visto prima l'anime. Sono talmente abituata a quella serie che la familiarità con i protagonisti è ormai totale, e dubito che chi non ha mai visto il cartone potrebbe apprezzare il fumetto.

Per me è stato piacevolissimo immergermi ancora una volta nelle fantastiche avventure dei cowboy spaziali: è un po' come riprendere e approfondire le vicende di personaggi che si pensava non avessero nient'altro da offrire, che magari si erano lasciati a malincuore con l'ultimo episodio, dunque agli appassionati o anche più semplicemente a chi ha apprezzato la serie animata, ritrovarli su un manga non può che far piacere.

Tuttavia il fumetto su certe scene d'azione e sulla trama di alcune delle storie sembra perdersi un po', e diventa confusionario. A tratti non si capisce bene cosa succeda, se non rileggendo più volte le stesse battute. Anche un paio di episodi risultano un po' banalotti, ma la lettura scorre lo stesso, forse grazie alla comicità di alcuni momenti che, proprio come nella serie animata, si alternano con successo a situazioni più introspettive o serie. Ad ogni modo trovo bello il fatto che parti di vita dei protagonisti in questi tre volumi vengano un po' approfonditi, anche se sono elementi a sé stanti, che non possono ovviamente influire sul corso della trama dell'anime. È come se ci fosse data la possibilità di scoprire meglio il passato di persone che "conosciamo".

Proprio per questo, però, se non ci fosse stato alcun legame con qualcosa di già visto e apprezzato, dubito che questo fumetto si sarebbe meritato un voto alto, soprattutto ovviamente per l'inconcludenza della trama, visto che si tratta di episodi fini a se stessi, iscritti in un disegno più ampio (quello dell'anime) che non emerge in nessun modo.

Conclusioni: i tre volumi non ripercorrono le vicende dell'anime, ma sono pensati come episodi indipendenti con gli stessi personaggi e ambientazione. Vi permettono di scoprire qualcosa in più sui protagonisti e vivere qualche altra avventura in loro compagnia. Io vi consiglio di leggerlo, quindi, solo se già conoscete l'anime e vi va di passare un altro po' di tempo in compagnia dei vostri amici cowboy. Al contrario, se lo leggete e vi piaciucchia, decidetevi a guardare l'anime che ne vale la pena e vi spiegherà molte cose! Da acquistare come lettura piacevole e disimpegnata, ma non di certo come "cult" imprescindibile.



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Il burbero, il bambino e l'angelo campanellino

Artista inventivo e poliedrico (attore, regista, showman televisivo, poeta, romanziere e pittore), Takeshi Kitano si è fatto conoscere in Italia vincendo il Leone d'oro alla Mostra di Venezia del 1997 con "Hana-bi", un poliziesco melodrammatico ed esistenziale. Con il suo lavoro successivo, "L'estate di Kikujiro" (1999), il regista porta nelle sale un on the road spiazzante, poetico e infantile, che oscilla tra ironia e malinconia.

Masao è un bambino introverso e fondamentalmente triste. Non ha mai conosciuto i suoi genitori e vive da sempre con sua nonna. All'inizio delle vacanze estive trova una vecchia foto e, colto da uno slancio affettivo, decide risolutamente di partire alla ricerca di sua madre alla volta di una località di mare. Kikujiro è uno sgangherato bullo di quartiere, sfaticato e attaccabrighe, a cui Masao è stato affidato da un amica di sua nonna per affiancarlo nel tragitto. Fra i due si instaurerà un'amicizia tutta speciale e il loro viaggio attraverso il Giappone sarà un percorso formativo per entrambi, fra piccole e grandi avventure.

Dismessi gli abiti del glaciale poliziotto di "Hana-bi", questa volta Beat Takeshi indossa quelli insoliti del genitore di circostanza, e il tormentato pessimismo che permea la sua opera precedente qui lascia il posto ad una moderata e tiepida fiducia. Il principale punto di riferimento (per ammissione dello stesso regista) è "Il monello" di Charlie Chaplin, ma si passa anche per la tradizione moderna del road movie infantile di "Paper moon" e "Alice nelle città". Il legame tra adulto e bambino è infatti una delle chiavi di lettura del film: i due protagonisti, superate le iniziali incomprensioni e titubanze, impareranno a conoscersi e ad affezionarsi, non senza l'aiuto degli stravaganti personaggi che incontreranno per istrada, ognuno dei quali lascerà loro qualcosa.
Formalmente delizioso e accattivante, il film riesce nell'intento di regalare meraviglia e suggestioni con disarmante semplicità. Un prato verde, una piscina vuota, una fermata del bus sperduta in aperta campagna, fanno da sfondo naturale alla strana coppia. Con una direzione scarna ed essenziale, il regista coniuga il suo talento innato per il contrasto cromatico con un certo gusto per il paesaggio, il tutto cosparso da irresistibili spunti di comicità giocosa ed eccentrica ai limiti del demenziale. Il gioco è un'altra delle cifre del film: Kitano mette in scena surreali siparietti improvvisati, in bilico tra sogno e realtà, dove i personaggi si muovono come buffe marionette. Questi intermezzi spezzano il ritmo del racconto e donano alla pellicola un'aura di incanto e di prodigio creativo.
La colonna sonora di Joe Hisaishi si innesta magnificamente nella dialettica delle immagini, talvolta colmando le lunghe pause nei dialoghi, talvolta donando alle scene un'atmosfera di sospesa e sognante spensieratezza. Il bellissimo tema principale "Summer" fa breccia da subito nel cuore dello spettatore e vi rimane a lungo anche dopo la visione, con le sue note rasserenanti e piene di speranza.

"L'estate di Kikujiro" è un film che diverte e commuove, con il suo equilibrio instabile tra letizia e mestizia riesce a strappare al contempo sorrisi e lacrime; ma è anche un appassionato inno all'amicizia e alla fantasia tratteggiato con matite color pastello e destinato a rimanere nella memoria come un bel ricordo d'estate.



7.0/10
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Qual è il mistero di Paradigm City? Perché tutti i suoi abitanti non hanno alcun ricordo di quanto accaduto quarant'anni prima? Cosa sono i giganteschi robot che sporadicamente appaiono in città mettendola a ferro e fuoco? Roger Smith, professione negoziatore, con il suo lavoro si trova presto a indagarci, venendo a contatto con una realtà incredibile che cambierà per sempre la sua vita, mettendola seriamente in pericolo. Fortunatamente, a proteggerlo ha dalla sua parte alleati fidati: Norman, maggiordomo tuttofare; Dorothy, ragazza cyborg dalla grande agilità, e il gigantesco, potentissimo robot da combattimento Big O...

Nel biennio 1998-1999 Sunrise trova la sua più ispirata vena artistica, tirando fuori una sfilza di opere estremamente autoriali che ben gli fanno meritare la nomea di studio d'animazione tra i più importanti in ambito internazionale, legato non più solo alla faccia "matura" del genere robotico, ma anche alla sperimentazione in altri generi narrativi. Sono gli anni in cui escono, a distanza ravvicinata, gioiellini del livello di "Brain Powerd", "Gasaraki", "Cowboy Bebop", "Infinite Ryvius", "∀ Gundam", "The Big O".

Opera avveniristica che segna davvero la cifra sperimentale Sunrise, "The Big O" è mystery di cifra americana filtrato da sensibilità giapponese, dove si incrociano tempi narrativi rarefatti, atmosfere tenebrose e un tangibile senso di sporcizia e degrado di derivazione noir anni '40, con robottoni giganti e personalità psicopatiche di matrice nipponica. Un ispirato connubio narrativo, enunciato da una prestigiosa collaborazione produttiva - Sunrise e un colosso americano dell'intrattenimento del livello di Cartoon Network - e una opening leggendaria che rilegge il Flash Gordon's theme dei Queen, che è il primo del suo genere, seguito quasi un decennio dopo con gli adattamenti Mad House di "Iron Man", "X-Men" e "Wolverine" e, per rimanere in ambito super-eroistico, con il divertente "Tiger & Bunny" diretto da uno degli stessi creatori del cult Sunrise. Evidentemente il sottocosmo degli eroi mascherati a stelle e strisce rappresenta forte influenza per svariate produzioni nipponiche, e anche "The Big O" non sfugge alla regola, nonostante parli di tutt'altro, facendosi spesso accostare al Batman animato della Warner Bros per il design grafico estremamente simile e paralleli tra il protagonista-milionario Roger Smith e Bruce Wayne, tra il suo maggiordomo Norman e Alfred. Ma sono giusto affinità estetiche e poco altro. Geniale sintesi tra culture e influenze di diversi Paesi, "The Big O" è la personale creazione del regista Kazuyoshi Katayama e del designer Keiichi Sato, che con la sceneggiatura scritta dal rinomato Chiaki J. Konaka dà vita a una delle più affascinanti incursioni a memoria d'uomo nello steampunk.

Proprio da uno dei papà di "Serial Experiments Lain" deriva il problema - anche se tale termine è forse ingeneroso contando la caratura dello sceneggiatore - maggiore dell'opera, lo script così complesso e articolato da sembrare in più frangenti confusionario, privo di intermezzi leggeri per tirare il fiato e assimilare con calma le informazioni. Le indagini di Roger Smith alla scoperta della sua identità e dei segreti di Paradigm City sono pesanti da seguire: colpa di un chara design americaneggiante e quadrato - simile a quello di Batman, appunto - poco incisivo e attraente, ma anche di una ostica regia che, sforzandosi di essere evocativa ed estremamente lenta come i noir che vorrebbe omaggiare, risulta facilmente letargica, portando a noia, col pericolo concreto di non permettere di seguire lucidamente gli sviluppi dell'intreccio. "The Big O" è una di quelle opere che, similmente a "Gasaraki", presuppongono una visione a cervello attivo, ponendo tutto l'interesse dello spettacolo nella complessità della storia, non importa a discapito di una certa freddezza generale. Un meccanismo che funziona egregiamente attestando le qualità artistiche della produzione, ma non permette di sentirsi troppo emotivamente legati a lei. Per qualche strana sinergia di forze, però, a costo di non recepire tutte le sfumature dell'intreccio, la visione è a sprazzi talmente carismatica da risollevare pienamente il giudizio.

È opera che vive di momenti estremamente suggestivi, molti dei quali per merito della magnifica colonna sonora di Toshihiko Sahashi, i cui temi ora epici, ora corali, ora gregoriani, regalano fortissima intensità alle scene, sopratutto a quelle di rivelazioni importanti o della lotta tra il Big O e il robot nemico di turno, quasi sempre all'interno della città di Paradigm - a ricordare i film di Godzilla degli anni '60 - e coreografate con una cura tale da far spalancare le mascelle. Il robottone protagonista è un capolavoro del mecha design, tra i più carismatici della Storia grazie alle sue spalle gigantesche e verticali fuse nel braccio e le incredibili armi: la sua enorme stazza è glorificata dalla fisicità delle animazioni, fluide a livello di un filmone cinematografico, che rendono ogni singolo scontro, per quanto sempre breve, puro spettacolo di lamiere e viti in movimento. Aiutano a sopportare meglio la lentezza di Big O il simpatico protagonista Roger Smith, ma sopratutto le atmosfere torbide, vero marchio di fabbrica di un noir basato su lunghi silenzi, dialoghi sussurrati, tempi narrativi rarefatti e antagonisti grotteschi, inquietanti e psicopatici che ricordano non poco certi villain delle storie di Yasuhiro Imagawa. Unico, vero limite dell'opera, appunto, rimane il ritmo pachidermico. "The Big O" è molto, troppo registicamente raffinato, al punto da sembrare in qualche frangente di un'irritante snobberia. Lo si avverte in ogni inquadratura, nei dialoghi lentissimi, nelle animazioni spesso minimali quando non si tratta di scene d'azione. E la visione, a meno non sia pienamente attiva, rischia di diventare presto stancante e in alcuni punti insopportabile, perché tanta autorialità per molti è, anche giustamente, di troppo.

La valutazione finale non può prescindere da questo: "The Big O" è concretamente una bella serie, potenzialmente splendida, che seguita con attenzione rivela una storia intrigante e ben sviluppata e con un finale all'altezza dei misteri che la reggono (seppur semi-incompleto, portandosi via un buon numero di sottotrame che, purtroppo, visti i bassi share che negano una nuova stagione, non sono più chiuse). Finale che, negli stessi anni del Matrix cinematografico, ha il merito di riportare in auge forti cenni di cyberpunk in animazione, seppur impossibili da rivelare pena distruggere uno dei misteri più importanti della serie. Apprezzarla è un conto, viverla è però un altro: se una regia soporifera e pochissima azione non sono deterrenti, probabile che chi legge l'adorerà. Altrimenti, rischia di annoiarsi, non riuscendo neanche a seguirla bene. Ognuno stabilisca la sua soglia di tolleranza.

Voto: 7 su 10