Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo a film d'autore, con Perfect Blue, Pompoko e Kiki Delivery Service.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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10.0/10
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Perfect thrill

Opera prima di Satoshi Kon nelle vesti di regista e character designer, "Perfect blue" è un lungometraggio del 1998 prodotto dalla Madhouse. In principio b-movie destinato al solo mercato home-video, il film riscuote un tale consenso di critica e di pubblico che ben presto trova una distribuzione anche nelle sale, vincendo diversi premi in giro per il mondo.

La storia ruota intorno a Mima, band leader di un trio 'idol' di discreto successo, le Cham. Quando si presenta l'occasione di dare una svolta alla sua carriera, evolvendo da cantante ad attrice, Mima si lancia con impegno e ambizione nella nuova avventura. Ma il passaggio non è del tutto indolore e il cambio di 'immagine' comporta sacrifici e traumatici compromessi. A complicarle ulteriormente la vita il morboso accanimento di uno stalker, fan nostalgico della idol, che la perseguita con la sua presenza ossessiva. Gli eventi precipiteranno quando quest'ultimo comincerà a lasciarsi dietro di sé una scia di sangue, e per Mima, ormai in preda al terrore, si spalancheranno le porte di una tormentata e allucinante discesa agli inferi …

"Perfect blue" è uno psicho-thriller (il primo anime del genere) a tinte fosche maledettamente ben congegnato. Geniale e astuto, il regista prende le mosse dalle classiche basi narrative del giallo e del noir per svilupparle con la grammatica e le tecniche dell'anime che gli consentono una libertà d'azione e rappresentazione apparentemente illimitata. Con un accattivante stile visionario mette in scena una successione di shock e cortocircuiti narrativi con effetti destabilizzanti, mescolando diversi livelli di percezione (la realtà, la finzione, l'incubo e l'allucinazione) che si confondono a vicenda in un flusso continuo d'immagini sempre più frenetico e visualizzando in modo efficace e suggestivo i disturbi della personalità e la confusione mentale della protagonista.

Affascinato dai processi di produzione del cinema e dello spettacolo, il regista si sofferma a osservare con occhio critico il 'dietro le quinte' e lascia trasparire, fra le righe, un'amara riflessione sui cinici meccanismi dello show business e sulle derive dei media, ponendo l'accento sul lato morboso del web e sul problema dello sdoppiamento d'identità internet-realtà, anticipando una tematica che sarà al centro dell'attenzione di tanti altri cineasti dopo di lui.
La solida e compatta sceneggiatura di Sadayuki Murai, che si confronta con Hitchcock e De Palma, riesce a tenere saldamente i fili della suspense tessendo una trama a incastri perfetti, e il montaggio, calibrato come un orologio sui tempi di una psicosi latente e perturbante, scandisce il ritmo in un crescendo di tensione.
Bellissime le musiche minimali e introspettive di Masahiro Ikumi che contribuiscono a creare l'atmosfera di asfissiante e claustrofobica inquietudine, mentre il j-pop di plastica, facile e orecchiabile, delle Cham ricorre come un 'fil rouge' per tutto il film e suona come un apologo del mondo delle 'idol' e della loro apparente purezza.

Satoshi Kon, che già aveva collaborato con maestri del calibro di Katsuhiro Otomo e Mamoru Oshii, con "Perfect Blue" acquista una nuova dimensione artistica, autonoma e indipendente, si propone come personaggio di primo piano della scena anime e comincia a esprimere la sua poetica e il suo personalissimo linguaggio che svilupperà nelle sue opere successive e lo distinguerà per originalità e raffinata ricerca stilistica.



6.0/10
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Autoriale e lodevole nei suoi messaggi, ma realizzato in modo opinabile, tanto da scontentare ogni genere di pubblico, "Pom Poko" arriva inspiegabilmente in Italia a 17 anni dall'originale proiezione nelle sale. Molti sono i dubbi sul perché Lucky Red abbia recuperato dai meandri dell'animazione dimenticata proprio un film simile; off target ieri come oggi, si spera abbia il successo necessario a spianare l'arrivo in Italia anche di Only Yesterday.

Per il suo penultimo film Isao Takahata scrive e dirige, dietro un un soggetto di Miyazaki a sua volta ispirato a un racconto contenuto nell'antologia "Le stelle gemelle" di Kenji Miyazawa (pubblicato in Italia dalla rivista Il Giappone), la bizzarra storia di una comunità di tanuki (l'equivalente nipponico, o quasi, dei procioni) "umanizzati" e in lotta con gli umani per arrestare il progetto di urbanizzazione che sta distruggendo il loro habitat. Film ecologista come ci si aspetta da Studio Ghibli, e calato a fine anni '60, con i dialoghi, i modi di parlare e gli slogan sessantottini, "Pom Poko" assume anche connotati esplicitamente politici.

I tanuki protagonisti parlano di lotta armata e piani quinquennali, e arrivano anche a uccidere esseri umani durante la loro ribellione. "Pom Poko" è un film particolarmente originale e meritevole nel suo messaggio di condanna contro la rivoluzione industriale e il capitalismo, ma non riesco a capire a chi è rivolto. Per i punti sopracitati, ma sopratutto rimarcando il fatto che la lotta dei tanuki, pur condotta con fare gioioso e scanzonato e con immagini tipicamente infantili, contempli anche l'uccisione dei nemici e la perdita dei propri "uomini", difficilmente può essere apprezzato da un pubblico under-10, sopratutto per l'assenza di un protagonista di riferimento. La storia non è narrata dal punto di vista di un eroe al centro della guerra, ma è la vera e propria cronaca del conflitto vissuto in modo corale dall'intera comunità di tanuki.

Il marchio Ghibli si ravvisa nelle atmosfere divertite, nelle numerose canzoni, nelle deliziose animazioni e location realizzate con gioiosa cura figurativa, ma tali elementi non bastano a far apprezzare "Pom Poko" dai bambini. Questi non capiranno bene o male nulla della trama impegnata e metaforica, non saranno coinvolti dal cumulo quasi infinito di dialoghi, non troveranno modo di provare empatia con alcun eroe. Per gli adulti, stessa questione o quasi, visto che il timbro umoristico e infantile della narrazione e l'idea di assistere per due ore a bestiole che discutono nel loro "soviet" dei piani per vincere, senza che alcun tanuki sia sufficientemente caratterizzato da farsi ricordare, portano a vivere "Pom Poko" come un film tedioso e in alcuni frangenti interminabile.

Per il pubblico italiano, poi, il gradimento sarà ancora più difficoltoso. I bambini si addormenteranno senza speranza, ma adulti e ragazzi, anche quelli dotati di infarinatura politica per apprezzare le metafore del film, potrebbero sentirsi sconcertati dall'apparato folkloristico dell'opera. "Pom Poko" è un film profondamente giapponese e legato indissolubilmente a quella cultura: la trovata dei tanuki e delle volpi che prendono sembianze umane rispecchia le leggende del luogo, così come la credenza che essi siano in contatto con il mondo degli spiriti, che i loro testicoli siano giganteschi e portino fortuna, e diversi altri tratti, citazioni e idee, tutto a rispecchiare il background culturale del Giappone.

Rimarrebbe incivile stroncare un film che, mediamente noioso e pur incapace di piacere a una grossa parte di pubblico - diciamo quasi la totalità di quello occidentale - è comunque costruito e diretto con "autorialità" difficilmente replicabili. Se duole stendere un velo pietoso sull'empatia nulla che si instaura con queste creature simpatiche ma neanche troppo, e sul relativo interesse per la loro battaglia, si finisce sedotti dalla poesia con con cui Takahata ritrae, umanizzandoli nei tanuki, i sentimenti, i modi di pensare e gli stessi riti sociali del tipico salaryman sessantottino. "Pom Poko" è un film sicuramente prolisso, ma reca in sé quel tratto poetico e intellettuale che ben pochi registi, oltre a Takahata, sono riusciti a esprimere.



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Parlare di questo lungometraggio per la sottoscritta è molto difficile perché è stato il mio secondo colpo di fulmine nei confronti di un film Ghibli dopo "Ponyo sulla scogliera" e, sempre per la seconda volta, a colpirmi è stata una delle opere di Hayao Miyazaki che i critici nostrani insistono a definire minori. A tali illuminati conoscitori dei disegni animati vorrei ricordare che "Majo no takkyubin" (questo il titolo originale) è stato per l'appunto il primo grande successo di Studio Ghibli, i cui incassi al botteghino spinsero l'azienda ad assumere animatori fissi anziché a cottimo; che dopo ventiquattro anni non ha perso un'oncia della sua bellezza o della sua efficacia, come possono testimoniare frotte di bambini partecipi e entusiasti nelle sale; che senza l'avvento di Kiki i cartoni animati giapponesi sarebbero oggi privi di streghette a cavalcioni di una scopa, di giovani nerd e di adorabili mici neri, in sostanza più tristi e vuoti.

È un titolo che spicca nella filmografia di Hayao Miyazaki, Kiki consegne a domicilio, se si prova a contestualizzarlo: tra l'anacronistico languore di "Il mio vicino Totoro" e il "divertisissement" citazionistico di "Porco Rosso", il regista se ne esce con una storia di formazione pura e cruda, ispirata al romanzo di Eiko Kadono e ambientata negli anni '50. Prende una tredicenne di campagna e la catapulta, con la sola compagnia di un gatto, in una metropoli di matrice europea caotica e pulsante. Poco importa che si tratti di una strega in apprendistato, perché nel mondo che fa da sfondo alla vicenda la magia è una capacità come un'altra per tirare a campare. Ecco un'altra anomalia: il volo, elemento cardine di Miyazaki, pur occupando gran parte della durata del film con eccelse acrobazie, ha valore semantico eccezionale nella produzione dell'autore. Non rappresenta altro che l'unico "valore aggiunto" dell' "animale sociale di nome Kiki", il suo unico talento. Se non sapesse volare la ragazzina non potrebbe fare la conoscenza della signora Osono, trovare una casa, un lavoro e quindi ambientarsi in una città in principio inospitale. Senza la magia non sarebbe in grado di parlare con Jiji, suo unico confidente. E se, con la crescita, dovesse perdere il suo dono innato, che ne sarebbe di lei?

Kiki consegne a domicilio è un film con poche ambizioni ma realizzato in stato di grazia: diverte, insegna, non si addormenta (croce di molte opere di Studio Ghibli), ha in sé il meglio dell'animazione per l'adolescenza e presenta, soprattutto, una carrellata di personaggi veri e memorabili. Non si riscontrano bianchi e neri assoluti: la stessa protagonista è preda di invidie, capricci e sbalzi di umore tipici dell'età, che la rendono meno angelicata e più simpatica rispetto all'eroina ghibliana tipica. C'è un po' di Nadia in Kiki e un po' di Jean in Tombo, nelle giuste proporzioni. Ci sono molte altre peculiarità fra gli umani che meritano di essere scoperte con la visione; forse le vere star sono gli animali, ritratti con la loro mimica corporea naturale, mai superflui. Jiji avrebbe meritato una serie tutta sua, e Jeff una parte in un lungometraggio di Oshii.

Giunta alla fine della recensione mi trovo ad emettere un verdetto e a rispondere all'inevitabile domanda: perché "solo" otto? Perché Kiki consegne a domicilio è, come accennato sopra, un film semplice, carino, diretto, che ha poco o nulla della poetica di Hayao Miyazaki e magari è il motivo per cui mi è piaciuto tanto. Non è uno spettacolo imprescindibile, di quelli che si consigliano a tutti, ma uno di quelli che ti fanno alzare dalla poltrona del cinema o del salotto con un sorriso e tanta voglia di fare: questo, nel nostro grigio, deprimente mondo, è un talento prezioso.

Nota personale sul nuovo adattamento: Lucky Red ha acquisito e tradotto il film ex-novo, epurandolo dalle storpiature dell'edizione Buena Vista. Sono state restaurate le canzoni originali sottotitolate, ripristinati i dialoghi censurati e sostituiti alcuni interpreti italiani. Se Manuel Meli ha centrato appieno il fanatismo infantile di Tombo, ho delle riserve sul timbro di Eva Padoan in quanto calza meglio su Kiki rispetto a Ursula. D'altronde Domitilla D'amico è una bravissima doppiatrice ma la sua voce è maturata troppo per la streghetta, e non si possono scindere i due ruoli. Ilaria Stagni ha superato se stessa nel ruolo di Jiji, con risultati esaltanti.