Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
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Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
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Koikimo
7.0/10
"Koikimo" è un josei travestito da shōjo.
Delicato nei tratti, negli accadimenti, nella narrazione.
Nella cornice, pastello chiaro, di vita quotidiana si racconta la vita del giovane impiegato Ryo amasuka: ventisettenne brillante, esteticamente piacevole, impeccabile nel lavoro, donnaiolo per noia o per fuga.
Una "società", che ha voce nei colleghi e nelle colleghe di lavoro, e solo un sottofondo, lo giudica adulto, arrivato, desiderabile... ma, come spesso accade, i traguardi canonici e apparenti convivono o nascondono un vuoto interiore.
È nella circostanza di quel vuoto, una dignitosa e rispettabile torre d'avorio, che avviene l'incontro con Ichika Arima. Ichika è una giovane studentessa; nel viavai d'una stazione, nel primissimo episodio, salva Ryo da una brutta caduta sulle scale: una caduta e un salvataggio metaforico che è già di per sé motore autonomo del racconto.
Sarà la specchiata normalità di Ichiko a dare una boccata di ossigeno a Ryo, a disvelare aspirazioni nascoste: quelle di normalità, appunto, come anche quelle di sentimenti genuini, una vita più vera.
Da giovane sessualmente (iper)attivo, ideale di distaccata e arrogante perfezione, ne scaturisce un Ryo inedito: goffo, invasivo, autoironico, alla continua ricerca, fuori misura, delle attenzioni della liceale.
A Ichiko, sopraffatta, il compito di scoprire mano mano se e quanto di buono si trova in lui.
A partire da un appartamento freddo nei quartieri alti a un nido familiare da ricostruire, con le paure del mettersi in gioco, del divario d'età e con l'aiuto sempre presente di una sorella ritrovata (Rio), "Koikimo" altro non è che il racconto di una riscoperta di sé.
Ma è proprio questo che "Koikimo" racconta? Certamente sì, ma, per ritornare alla delicatezza prima menzionata, lo fa senza la necessità d'indugiare, sorvola i temi e questi ne emergono egualmente forti... è forse questo che più di tutto colpisce.
L'invadenza di Ryo può essere infastidente? La sua perfezione idealizzata? Ichiko eccessivamente adorabile e composta? Sicuramente sì - e non è detto ciò sia obbligatoriamente un difetto - ma dietro un tratteggio che può essere tacciato di banalità c'è molta freschezza, una maturità inaspettata.
Nei suoi scorrevoli dodici episodi non c'è alcuna pretesa; eppure è un lavoro che non si lascia andar via come niente... confezionato, pensato e realizzato con un suo senso che si difende. Non è poi, cosa da poco.
Delicato nei tratti, negli accadimenti, nella narrazione.
Nella cornice, pastello chiaro, di vita quotidiana si racconta la vita del giovane impiegato Ryo amasuka: ventisettenne brillante, esteticamente piacevole, impeccabile nel lavoro, donnaiolo per noia o per fuga.
Una "società", che ha voce nei colleghi e nelle colleghe di lavoro, e solo un sottofondo, lo giudica adulto, arrivato, desiderabile... ma, come spesso accade, i traguardi canonici e apparenti convivono o nascondono un vuoto interiore.
È nella circostanza di quel vuoto, una dignitosa e rispettabile torre d'avorio, che avviene l'incontro con Ichika Arima. Ichika è una giovane studentessa; nel viavai d'una stazione, nel primissimo episodio, salva Ryo da una brutta caduta sulle scale: una caduta e un salvataggio metaforico che è già di per sé motore autonomo del racconto.
Sarà la specchiata normalità di Ichiko a dare una boccata di ossigeno a Ryo, a disvelare aspirazioni nascoste: quelle di normalità, appunto, come anche quelle di sentimenti genuini, una vita più vera.
Da giovane sessualmente (iper)attivo, ideale di distaccata e arrogante perfezione, ne scaturisce un Ryo inedito: goffo, invasivo, autoironico, alla continua ricerca, fuori misura, delle attenzioni della liceale.
A Ichiko, sopraffatta, il compito di scoprire mano mano se e quanto di buono si trova in lui.
A partire da un appartamento freddo nei quartieri alti a un nido familiare da ricostruire, con le paure del mettersi in gioco, del divario d'età e con l'aiuto sempre presente di una sorella ritrovata (Rio), "Koikimo" altro non è che il racconto di una riscoperta di sé.
Ma è proprio questo che "Koikimo" racconta? Certamente sì, ma, per ritornare alla delicatezza prima menzionata, lo fa senza la necessità d'indugiare, sorvola i temi e questi ne emergono egualmente forti... è forse questo che più di tutto colpisce.
L'invadenza di Ryo può essere infastidente? La sua perfezione idealizzata? Ichiko eccessivamente adorabile e composta? Sicuramente sì - e non è detto ciò sia obbligatoriamente un difetto - ma dietro un tratteggio che può essere tacciato di banalità c'è molta freschezza, una maturità inaspettata.
Nei suoi scorrevoli dodici episodi non c'è alcuna pretesa; eppure è un lavoro che non si lascia andar via come niente... confezionato, pensato e realizzato con un suo senso che si difende. Non è poi, cosa da poco.
Dopo la pioggia
8.0/10
Sulla scia degli anime che trattano storie d’amore, ho deciso di guardare “Koi wa Ameagari no You ni”, e non ne sono rimasta delusa.
Quest’anime vede due protagonisti, Kondo, manager quarantacinquenne di un ristorante, divorziato, e Akira, una studentessa diciassettenne. Ci si aspetterebbe lecitamente una storia d’amore vera e propria, e invece quest’anime rovescia il paradigma e scava in questi personaggi.
Da una parte c’è Kondo, che ha lasciato cadere i suoi sogni di scrittore e che verso la letteratura ha un’ossessione, ma si considera un ragazzo a un punto morto della vita. È proprio la costante dichiarazione d’amore di Akira a spingerlo a interrogarsi su chi è, chi era e cosa vuole diventare.
Akira, da parte sua, è un’atleta reduce da un infortunio che le ha impedito di correre, la sua grande passione. Vive senza motivazione, non capisce più come approcciare l’amica di sempre che ancora la vorrebbe veder correre fianco a lei e vincere, se solo affrontasse la riabilitazione.
I loro due mondi si incontrano e si fondono: da una parte Akira spinge Kondo a fare i conti con sé stesso e a capire che non può rinunciare al suo sogno di scrittore, dismesso alle difficoltà matrimoniali. Con la fiducia che lei gli infonde nei sogni, nella giovinezza, gli dà la forza di andare oltre al grigiore in cui era assopito; dall’altra c’è Akira, taciturna ma sensibile, che vive i problemi della sua vita senza trovare soluzioni, che Kondo con parole ispirate le offre, riscoprendo così, contemporaneamente, molto di sé stesso.
La pioggia è il filo rosso di questo anime: nelle sue varie forme dà il ritmo a questa particolare storia d’amore, gettando un parallelo tra la sua caduta più o meno gentile o più o meno improvvisa, con i ritmi lenti di questa relazione. Ogni episodio ha la magia di un sasso gettato in uno stagno: i cerchi si allargano con grazia e c’è la curiosità contemplativa di capire come reagiranno incontrando vari ostacoli.
Quest’anime è delicato, poetico. Sono bellissime le immagini della biblioteca-acquario e i momenti in cui si manifestano il vento e magiche sfumature dorate con bolle leggere. È poi valorizzato da altri personaggi, come l’amica di Akira o l’amico di Kondo, che danno più spessore personale, e non di coppia, ai due protagonisti.
L’opening è azzeccata e colorata, l’ending è molto bella con il pianoforte, delicata come l’anime.
Il chara design a volte è un po’ deformed in alcuni personaggi, ma tutto sommato si tollera, vista la bellezza della protagonista.
Concludendo, lo consiglio proprio per i temi maturi che tratta, non solo l’amore, ma anche la ricerca di sé stessi e della propria auto-realizzazione, e per la poesia leggera che traspira da tutta la pioggia che avvolge quest’anime.
Quest’anime vede due protagonisti, Kondo, manager quarantacinquenne di un ristorante, divorziato, e Akira, una studentessa diciassettenne. Ci si aspetterebbe lecitamente una storia d’amore vera e propria, e invece quest’anime rovescia il paradigma e scava in questi personaggi.
Da una parte c’è Kondo, che ha lasciato cadere i suoi sogni di scrittore e che verso la letteratura ha un’ossessione, ma si considera un ragazzo a un punto morto della vita. È proprio la costante dichiarazione d’amore di Akira a spingerlo a interrogarsi su chi è, chi era e cosa vuole diventare.
Akira, da parte sua, è un’atleta reduce da un infortunio che le ha impedito di correre, la sua grande passione. Vive senza motivazione, non capisce più come approcciare l’amica di sempre che ancora la vorrebbe veder correre fianco a lei e vincere, se solo affrontasse la riabilitazione.
I loro due mondi si incontrano e si fondono: da una parte Akira spinge Kondo a fare i conti con sé stesso e a capire che non può rinunciare al suo sogno di scrittore, dismesso alle difficoltà matrimoniali. Con la fiducia che lei gli infonde nei sogni, nella giovinezza, gli dà la forza di andare oltre al grigiore in cui era assopito; dall’altra c’è Akira, taciturna ma sensibile, che vive i problemi della sua vita senza trovare soluzioni, che Kondo con parole ispirate le offre, riscoprendo così, contemporaneamente, molto di sé stesso.
La pioggia è il filo rosso di questo anime: nelle sue varie forme dà il ritmo a questa particolare storia d’amore, gettando un parallelo tra la sua caduta più o meno gentile o più o meno improvvisa, con i ritmi lenti di questa relazione. Ogni episodio ha la magia di un sasso gettato in uno stagno: i cerchi si allargano con grazia e c’è la curiosità contemplativa di capire come reagiranno incontrando vari ostacoli.
Quest’anime è delicato, poetico. Sono bellissime le immagini della biblioteca-acquario e i momenti in cui si manifestano il vento e magiche sfumature dorate con bolle leggere. È poi valorizzato da altri personaggi, come l’amica di Akira o l’amico di Kondo, che danno più spessore personale, e non di coppia, ai due protagonisti.
L’opening è azzeccata e colorata, l’ending è molto bella con il pianoforte, delicata come l’anime.
Il chara design a volte è un po’ deformed in alcuni personaggi, ma tutto sommato si tollera, vista la bellezza della protagonista.
Concludendo, lo consiglio proprio per i temi maturi che tratta, non solo l’amore, ma anche la ricerca di sé stessi e della propria auto-realizzazione, e per la poesia leggera che traspira da tutta la pioggia che avvolge quest’anime.
Natsu e no tobira
4.0/10
N2T2U 2 NO TO2I2A
Sordido pioniere dello shonen-ai e nel contempo d’uno shoujo ai limiti del paradossale, “Natsu e no Tobira”, suo malgrado, si palesa come antesignano sui generis, capace di racchiudere tutto e niente, patriarca di un disagio raramente vissuto davanti a uno schermo in quattro terzi, il tutto trasposto da un manga (ormai vintage) di Takemiya, stessa autrice de “Il poema del vento e degli alberi”, primo manga yaoi della storia.
Pronti via, ed ecco che una splendida melodia ci prende per mano. Ma... cosa succede? Le note si strozzano, tremano, complice una “pellicola” antidiluviana, e, quando il tutto finalmente si raddrizza, facciamo finalmente conoscenza con una colonna sonora semplicemente fantastica, sublime, malinconica e irresistibile: sarà l’unico punto di forza di quest’opera imbarazzante.
Dall’angolo più ingiallito degli acerbi anni ottanta (appena usciti dai brillanti settanta, fra ciuffi cotonati, vitine di vespa, arti sproporzionati e pantaloni a zampa d’elefante), emergono colori acquarellati (male), sfondi appena accennati, inquietanti, capaci di trasmettere una tristezza senza precedenti; ciò non è altro che l’anfiteatro nel quale si esibiranno alcuni collegiali francesi di fine Ottocento. Ogni elemento pare emergere in punta di piedi, parte di un incipit incomprensibile, confuso ancor di più da sfondi onirici, sfumature angoscianti che presagiscono tutto tranne che una bella estate di gioie adolescenziali.
Quel che sembrerebbe essere l’ibrido grottesco fra un film di Alvaro Vitali e la versione mediocre delle fantasie di Lars Von Trier, scopriamo esser ambientato in un collegio d’Oltralpe.
Qui facciamo la conoscenza di Marion, giovane, biondissimo e affascinante studente che nulla sa della complessità dell’amore, dei suoi tormenti e delle sue intensissime gioie, né può immaginare l’amarezza di noi spettatori nel sorbirci un simile film per cinquanta minuti filati. Marion è compagno di altri altolocati giovincelli frequentanti il sopracitato istituto - di soli maschi - in quel di Francia. L’unica ragazza in vista è Ledania, figlia del preside dell’istituto, desideratissima e corteggiata da tutti i maschi, orgogliosi bellimbusti che s’azzuffano e sfidano per contendersi la sua mano.
Lei, tuttavia, è segretamente innamorata proprio di Marion, il quale non la considera minimamente, per nulla attratto dai contorti meccanismi del cuore, tant’è che pare volerne stare lontano il più possibile.
Tutto ciò cambierà, quando, in uno dei tanti duelli fra maschietti-trogloditi dell’istituto, da un treno in piena corsa, fermato in extremis proprio a causa di tale sfida (credetemi, l’intera scena non ha alcun senso!), scenderà un’avvenente donna di mezz’età di nome Sara Vieda, scalpitante ‘milfona’ dal bacio facile e dalle voglie imprevedibili, incline a tendenze che oggi potremmo valutare tranquillamente al limite del penale, ma che in questo obsoleto contesto assumeranno un significato fondamentale ai fini della sgangherata trama.
A prescindere dalla funzionalità, la sua comparsa lascia davvero perplessi, proprio come tante altre scelte narrative: spesso le azioni dei protagonisti appaiono impulsive, casuali, insensate o forzate. Scatti d’umore e reazioni immotivate al limite del grottesco sostituiscono atteggiamenti che ci aspetteremmo più realistici; parimenti, ben si nota la mancanza d’approfondimenti sulle questioni romantiche e sofferte che avrebbero trasformato questo imbarazzante connubio fra Giovannona Coscialunga franco-iberica e mister Lolito in qualcosa di quantomeno accettabile.
Al di là dalle scelte degli autori, quest’opera s’impronta sin da subito e a tutti i costi come una rudimentale fiera del grottesco, donando ai posteri un intero vassoio di disagio assortito, una bibita al gusto di fallimento da bersi tutta d’un fiato per provare una discreta nausea, che difficilmente ci lascerà senza turbamenti. Sia ben chiaro: tali turbamenti non nascono dai temi che l’anime tratta, perché come scheletro narrativo sembrerebbe delinearsi una vicenda davvero intrigante, ricca di spunti importanti, un prodotto di formazione adolescenziale sia drammatico che conturbante, intento ad esplorare situazioni contorte e - per il tempo - davvero spinose da affrontare. Tali sopracitati turbamenti sono inevitabilmente generati dal miserabile, squallido e insensato modo con cui vengono esposti.
“Natsu e no Tobira” mostra un metodo di scorrimento inquietante, con pause narrative spesso inutili, imbarazzanti osservazioni da parte di un narratore sovente fuori luogo e - cromaticamente parlando - sfumature di vacui, smorti acquarelli che, di tanto in tanto, sembrano azzeccarci poco con le variegate frequenze emotive. La pletora di musiche malinconiche tanto belle quanto confondenti non aiutano a ricomporre un puzzle che pare mancare di tanti, importantissimi tasselli: è evidente che il prodotto sia invecchiato malissimo e, probabilmente, già al tempo faceva storcere il naso.
Le analogie nipponiche che si dedicano al tormento giovanile si sprecano. Adolescenti in piena fase turbolenta, anime incomplete, né ancora uomini né più innocenti ragazzini; il solito guardar avanti, oltre, verso un futuro più ottimistico è un discorso che qui regge poco, poco pertinente ai confusi e variegati eventi che vengono gettati davanti agli occhi dello spettatore, ammassandosi senza logica.
Avvertiamo le influenze di Ryoko Ikeda e della sua amatissima Oscar, ma “Le rose di Versailles” non aiutano certo a far fiorire questo campo di ortiche: il perno della vicenda è la comparsa, come anticipato, di Sara Vieda, bellissima donna dallo charme smisurato che, senza motivi apparenti, s’invaghisce del giovanissimo Marion, tirando fuori una filanda di motivi (scuse) per giustificare il suo desiderio, in primis la volontà di far scoprire al giovane e ignaro sbarbatello le differenze fra amore e sesso, i piaceri della carne e la leggiadria di due anime unite in un intenso amplesso mosso da mani esperte. Sorriso da infoiata, occhio voglioso a mezz’asta e sguardo di chi la sa fin troppo lunga: impossibile resisterle, se sei un giovincello confuso e in piena tempesta ormonale, e che, soprattutto, non ha mai assaggiato “l’unico frutto dell’amor” (citazione trash, in linea col prodotto recensito).
Il biondino spavaldo che fino a un minuto prima non sopportava le timide ma dolcissime occhiate di Ledania (prototipo della giovane pura e innocente, ahinoi soprammobile di poca rilevanza in una vicenda intrisa di falso machismo), cede immantinente alle avances e alle cosce profumate della viziosa madama, pronta a trascinarlo in una notte d’estasi e piaceri mai provati prima. Anche qui troviamo scelte registiche imbarazzanti, trovate grottesche che, invece di solleticare la fantasia e dare l’input per una trasgressione decisamente anticonvenzionale, fanno soltanto scuotere la testa: proprio quando l’anime mostra il “meglio” di sé, ovvero nella parte centrale - più intensa e ardente -, tali trovate fanno crepare l’intonaco delle buone intenzioni e tutto vien giù velocemente.
C’è ben poco da parafrasare: in una Francia post-reazionaria, questa vicenda, che come da titolo apre le porte a un’estate di travagli e cuori infranti, tenta di raccontare ogni aspetto di un romanticismo demodé, reo di concetti ormai sopiti, antichi e fuori registro per i nostri tempi, ma, si sa, le pulsioni adolescenziali sono identiche in ogni epoca, e la malinconia crescente di una storia che presto volgerà in tragedia fanno accrescere un rimpianto davvero grande, perché le basi per un prodotto davvero interessante c’erano tutte. Si continua ad assistere alla visione sperando in qualche spunto decisivo che svolti da una diffusa sensazione di fastidio, mentre invece accade l’opposto: il fastidio diviene irritazione, quando vengono introdotti altri elementi che dovrebbero aggiungere pathos e sofferenza, mentre finiscono per ispirare costernazione e delusioni frammentate. Un po' come quando trovi un paio di scarpe che sembrano carine, ma, una volta calzate, risultano insopportabili dopo solo due passi.
Tutto ruota comunque attorno a Marion e alle sue esperienze estive fino a un epilogo di tragedie, sfortune e delusioni, una fra tante la comparsa del marchese a cui Sara Vieda appartiene (?).
Marion è quindi una Lolita al maschile, ferito, confuso, eppure limpido e innocentissimo, calamitato e sconclusionato, protagonista di una vicenda fastidiosa e sbiadita.
Alcuni tratti quasi onirici paiono trasformare il metodo narrativo da realistico a un vago introspettivo, e tale trovata, invece di arricchire l’opera a livello poetico, confonde ancor di più lo spettatore.
Chiaramente anacronistica, invece, per i tempi che corrono - e come accennato precedentemente – la mercificazione di Ledania, bambolina-soprammobile che sembra dover esistere esclusivamente per apparire bella e contesa, la “fanciulla da sposare”, carina e basta, mai interpellata sui propri sentimenti, fino a quando non sarà lei ad esternarli: è appannaggio dei protagonisti decidere se amarla, sposarla, respingerla, come se il suo parere conti zero, essendo la storia ambientata negli ultimi anni del 1800 (e quindi, storicamente pertinente). Tuttavia, la giovane bistrattata riuscirà ad avere il suo piccolo momento di rivalsa proprio verso un finale confuso e sconcertante.
Già, il finale.
Un doppio climax troppo frettoloso e troppo forzato, con atteggiamenti ridicolmente esasperati (un vero scempio aver bruciato il tormento di uno dei compagni di Marion con un espediente narrativo rapido e poco curato!), e un percorso che permette di arrivarci (male), che non convince affatto.
“Natsu e no Tobira” è a tutti gli effetti un trash sentimentale con tratti di genio interpretati nel peggiore dei modi, un voler narrare le stagioni dell’amore e dell’erotismo in maniera goffa e per nulla convincente, tramite animazioni mediocri e dialoghi mediamente ridicoli.
A metà fra l’insopportabile e l’improbabile, a distanza di tanti anni la visione risulta decisamente insulsa e fallimentare: avrebbe potuto raccontarci molto, e in fondo lo fa, ma è come ascoltare un’intensa poesia di d’Annunzio recitata da un ubriaco in preda a spasmi epilettici.
Nel 1975 esordiva il manga di “Caro Fratello”, che affrontava tematiche simili e con toni forse ancor più forti, ma di tutt’altra caratura, metro di paragone impietoso. Unica nota davvero positiva, da ribadire, una colonna sonora splendida (il pezzo finale interpretato da Kentaro Haneda è sublime).
È vero, siamo di fronte a un antenato di un mix di generi oggi esplorati in lungo e in largo, e sappiamo tutti che senza questi primi esperimenti non ci sarebbe stato seguito, ma la valutazione complessiva non può che essere decisamente negativa.
Squallido, mal narrato, sconclusionato.
Sordido pioniere dello shonen-ai e nel contempo d’uno shoujo ai limiti del paradossale, “Natsu e no Tobira”, suo malgrado, si palesa come antesignano sui generis, capace di racchiudere tutto e niente, patriarca di un disagio raramente vissuto davanti a uno schermo in quattro terzi, il tutto trasposto da un manga (ormai vintage) di Takemiya, stessa autrice de “Il poema del vento e degli alberi”, primo manga yaoi della storia.
Pronti via, ed ecco che una splendida melodia ci prende per mano. Ma... cosa succede? Le note si strozzano, tremano, complice una “pellicola” antidiluviana, e, quando il tutto finalmente si raddrizza, facciamo finalmente conoscenza con una colonna sonora semplicemente fantastica, sublime, malinconica e irresistibile: sarà l’unico punto di forza di quest’opera imbarazzante.
Dall’angolo più ingiallito degli acerbi anni ottanta (appena usciti dai brillanti settanta, fra ciuffi cotonati, vitine di vespa, arti sproporzionati e pantaloni a zampa d’elefante), emergono colori acquarellati (male), sfondi appena accennati, inquietanti, capaci di trasmettere una tristezza senza precedenti; ciò non è altro che l’anfiteatro nel quale si esibiranno alcuni collegiali francesi di fine Ottocento. Ogni elemento pare emergere in punta di piedi, parte di un incipit incomprensibile, confuso ancor di più da sfondi onirici, sfumature angoscianti che presagiscono tutto tranne che una bella estate di gioie adolescenziali.
Quel che sembrerebbe essere l’ibrido grottesco fra un film di Alvaro Vitali e la versione mediocre delle fantasie di Lars Von Trier, scopriamo esser ambientato in un collegio d’Oltralpe.
Qui facciamo la conoscenza di Marion, giovane, biondissimo e affascinante studente che nulla sa della complessità dell’amore, dei suoi tormenti e delle sue intensissime gioie, né può immaginare l’amarezza di noi spettatori nel sorbirci un simile film per cinquanta minuti filati. Marion è compagno di altri altolocati giovincelli frequentanti il sopracitato istituto - di soli maschi - in quel di Francia. L’unica ragazza in vista è Ledania, figlia del preside dell’istituto, desideratissima e corteggiata da tutti i maschi, orgogliosi bellimbusti che s’azzuffano e sfidano per contendersi la sua mano.
Lei, tuttavia, è segretamente innamorata proprio di Marion, il quale non la considera minimamente, per nulla attratto dai contorti meccanismi del cuore, tant’è che pare volerne stare lontano il più possibile.
Tutto ciò cambierà, quando, in uno dei tanti duelli fra maschietti-trogloditi dell’istituto, da un treno in piena corsa, fermato in extremis proprio a causa di tale sfida (credetemi, l’intera scena non ha alcun senso!), scenderà un’avvenente donna di mezz’età di nome Sara Vieda, scalpitante ‘milfona’ dal bacio facile e dalle voglie imprevedibili, incline a tendenze che oggi potremmo valutare tranquillamente al limite del penale, ma che in questo obsoleto contesto assumeranno un significato fondamentale ai fini della sgangherata trama.
A prescindere dalla funzionalità, la sua comparsa lascia davvero perplessi, proprio come tante altre scelte narrative: spesso le azioni dei protagonisti appaiono impulsive, casuali, insensate o forzate. Scatti d’umore e reazioni immotivate al limite del grottesco sostituiscono atteggiamenti che ci aspetteremmo più realistici; parimenti, ben si nota la mancanza d’approfondimenti sulle questioni romantiche e sofferte che avrebbero trasformato questo imbarazzante connubio fra Giovannona Coscialunga franco-iberica e mister Lolito in qualcosa di quantomeno accettabile.
Al di là dalle scelte degli autori, quest’opera s’impronta sin da subito e a tutti i costi come una rudimentale fiera del grottesco, donando ai posteri un intero vassoio di disagio assortito, una bibita al gusto di fallimento da bersi tutta d’un fiato per provare una discreta nausea, che difficilmente ci lascerà senza turbamenti. Sia ben chiaro: tali turbamenti non nascono dai temi che l’anime tratta, perché come scheletro narrativo sembrerebbe delinearsi una vicenda davvero intrigante, ricca di spunti importanti, un prodotto di formazione adolescenziale sia drammatico che conturbante, intento ad esplorare situazioni contorte e - per il tempo - davvero spinose da affrontare. Tali sopracitati turbamenti sono inevitabilmente generati dal miserabile, squallido e insensato modo con cui vengono esposti.
“Natsu e no Tobira” mostra un metodo di scorrimento inquietante, con pause narrative spesso inutili, imbarazzanti osservazioni da parte di un narratore sovente fuori luogo e - cromaticamente parlando - sfumature di vacui, smorti acquarelli che, di tanto in tanto, sembrano azzeccarci poco con le variegate frequenze emotive. La pletora di musiche malinconiche tanto belle quanto confondenti non aiutano a ricomporre un puzzle che pare mancare di tanti, importantissimi tasselli: è evidente che il prodotto sia invecchiato malissimo e, probabilmente, già al tempo faceva storcere il naso.
Le analogie nipponiche che si dedicano al tormento giovanile si sprecano. Adolescenti in piena fase turbolenta, anime incomplete, né ancora uomini né più innocenti ragazzini; il solito guardar avanti, oltre, verso un futuro più ottimistico è un discorso che qui regge poco, poco pertinente ai confusi e variegati eventi che vengono gettati davanti agli occhi dello spettatore, ammassandosi senza logica.
Avvertiamo le influenze di Ryoko Ikeda e della sua amatissima Oscar, ma “Le rose di Versailles” non aiutano certo a far fiorire questo campo di ortiche: il perno della vicenda è la comparsa, come anticipato, di Sara Vieda, bellissima donna dallo charme smisurato che, senza motivi apparenti, s’invaghisce del giovanissimo Marion, tirando fuori una filanda di motivi (scuse) per giustificare il suo desiderio, in primis la volontà di far scoprire al giovane e ignaro sbarbatello le differenze fra amore e sesso, i piaceri della carne e la leggiadria di due anime unite in un intenso amplesso mosso da mani esperte. Sorriso da infoiata, occhio voglioso a mezz’asta e sguardo di chi la sa fin troppo lunga: impossibile resisterle, se sei un giovincello confuso e in piena tempesta ormonale, e che, soprattutto, non ha mai assaggiato “l’unico frutto dell’amor” (citazione trash, in linea col prodotto recensito).
Il biondino spavaldo che fino a un minuto prima non sopportava le timide ma dolcissime occhiate di Ledania (prototipo della giovane pura e innocente, ahinoi soprammobile di poca rilevanza in una vicenda intrisa di falso machismo), cede immantinente alle avances e alle cosce profumate della viziosa madama, pronta a trascinarlo in una notte d’estasi e piaceri mai provati prima. Anche qui troviamo scelte registiche imbarazzanti, trovate grottesche che, invece di solleticare la fantasia e dare l’input per una trasgressione decisamente anticonvenzionale, fanno soltanto scuotere la testa: proprio quando l’anime mostra il “meglio” di sé, ovvero nella parte centrale - più intensa e ardente -, tali trovate fanno crepare l’intonaco delle buone intenzioni e tutto vien giù velocemente.
C’è ben poco da parafrasare: in una Francia post-reazionaria, questa vicenda, che come da titolo apre le porte a un’estate di travagli e cuori infranti, tenta di raccontare ogni aspetto di un romanticismo demodé, reo di concetti ormai sopiti, antichi e fuori registro per i nostri tempi, ma, si sa, le pulsioni adolescenziali sono identiche in ogni epoca, e la malinconia crescente di una storia che presto volgerà in tragedia fanno accrescere un rimpianto davvero grande, perché le basi per un prodotto davvero interessante c’erano tutte. Si continua ad assistere alla visione sperando in qualche spunto decisivo che svolti da una diffusa sensazione di fastidio, mentre invece accade l’opposto: il fastidio diviene irritazione, quando vengono introdotti altri elementi che dovrebbero aggiungere pathos e sofferenza, mentre finiscono per ispirare costernazione e delusioni frammentate. Un po' come quando trovi un paio di scarpe che sembrano carine, ma, una volta calzate, risultano insopportabili dopo solo due passi.
Tutto ruota comunque attorno a Marion e alle sue esperienze estive fino a un epilogo di tragedie, sfortune e delusioni, una fra tante la comparsa del marchese a cui Sara Vieda appartiene (?).
Marion è quindi una Lolita al maschile, ferito, confuso, eppure limpido e innocentissimo, calamitato e sconclusionato, protagonista di una vicenda fastidiosa e sbiadita.
Alcuni tratti quasi onirici paiono trasformare il metodo narrativo da realistico a un vago introspettivo, e tale trovata, invece di arricchire l’opera a livello poetico, confonde ancor di più lo spettatore.
Chiaramente anacronistica, invece, per i tempi che corrono - e come accennato precedentemente – la mercificazione di Ledania, bambolina-soprammobile che sembra dover esistere esclusivamente per apparire bella e contesa, la “fanciulla da sposare”, carina e basta, mai interpellata sui propri sentimenti, fino a quando non sarà lei ad esternarli: è appannaggio dei protagonisti decidere se amarla, sposarla, respingerla, come se il suo parere conti zero, essendo la storia ambientata negli ultimi anni del 1800 (e quindi, storicamente pertinente). Tuttavia, la giovane bistrattata riuscirà ad avere il suo piccolo momento di rivalsa proprio verso un finale confuso e sconcertante.
Già, il finale.
Un doppio climax troppo frettoloso e troppo forzato, con atteggiamenti ridicolmente esasperati (un vero scempio aver bruciato il tormento di uno dei compagni di Marion con un espediente narrativo rapido e poco curato!), e un percorso che permette di arrivarci (male), che non convince affatto.
“Natsu e no Tobira” è a tutti gli effetti un trash sentimentale con tratti di genio interpretati nel peggiore dei modi, un voler narrare le stagioni dell’amore e dell’erotismo in maniera goffa e per nulla convincente, tramite animazioni mediocri e dialoghi mediamente ridicoli.
A metà fra l’insopportabile e l’improbabile, a distanza di tanti anni la visione risulta decisamente insulsa e fallimentare: avrebbe potuto raccontarci molto, e in fondo lo fa, ma è come ascoltare un’intensa poesia di d’Annunzio recitata da un ubriaco in preda a spasmi epilettici.
Nel 1975 esordiva il manga di “Caro Fratello”, che affrontava tematiche simili e con toni forse ancor più forti, ma di tutt’altra caratura, metro di paragone impietoso. Unica nota davvero positiva, da ribadire, una colonna sonora splendida (il pezzo finale interpretato da Kentaro Haneda è sublime).
È vero, siamo di fronte a un antenato di un mix di generi oggi esplorati in lungo e in largo, e sappiamo tutti che senza questi primi esperimenti non ci sarebbe stato seguito, ma la valutazione complessiva non può che essere decisamente negativa.
Squallido, mal narrato, sconclusionato.
Opera interessante, non male... rispecchia il genere e si lascia guardare tranquillamente, io darei anche mezzo voto in in più per un bel 7.5
Koi wa ameagari no you ni o Dopo la pioggia:
Opera interessantissima, da vedere e saper "leggere", molto bello il finale... condivido per il comparto op-ed, eccellenti, anche qui io darei mezzo voto in più: 8.5
D'altro canto invece consiglio assolutamente la visione Koi wa Ameagari no You ni, una delle migliori trasposizioni che riesce a mostrare un rapporto maturo e mai fuori contesto, dando stralci di SoL come su poche produzioni ho visto fare, senza contare il fatto che ha tra le migliori ending mai prodotte su un prodotto televisivo di animazione giapponese.
Complimenti al recensore.
Shit, here we goi again [cit.]
Koikimo è nella lista da visionare ma non come priorità…
L’altro non lo visto e non mi interessa.
Ha valore come testimonianza di un'epoca e niente più. IMHO, ovviamente
Dopo la Pioggia è un bell'anime, ma gli hanno tolto quasi tutte tutte sottotrame del manga. Peccato, perchè altrimenti sarebbe stata una trasposizione perfetta. 7
Koikimo è stato targhettizzato come josei soltanto perchè il manga era serializzato in una rivista josei, ma in realtà è una romcom seinen (e neanche troppo seinen, aggiungerei), e dello shoujo non ha proprio niente. Non l'ho trovato nulla di che, per me è da 6.
Non fidarti delle valutazioni/pareri di un anime volontariamente e inspiegabilemte massacrato a prescindere. Ti consiglio di visionarlo e farti una tua opinione, anche perché, ovviamente, manco a ripetermi, non sono d'accordo con le opinioni della cricca.
Buona recensione di Dopo la pioggia, ho molto apprezzato la serie. ^.^
Ancora ricordo quando nel lontano 1968, anno delle rivolte studentesche, la buon vecchia Keiko Takemiya mi fece un torto ancora oggi fresco nella mia memoria: mi abbandonò su un'isola deserta. Da allora ho deciso che lei sarebbe stata la mia nemica giurata e le avrei sempre remato contro. In ogni parte del mondo ho diffuso le mie recensioni brutali delle sue opere che, manco ve lo sto a dire, non ho mai visto, per orgoglio personale. Orgoglio e pregiudizio sempre.
Secondo me sarebbe un ottimo spunto per una trama dal gusto fantasy.
No, fammi capire... Anche tu? Nell'ormai lontano 1968 io avevo 4 anni, ma il ricordo è marchiato indelebilmente a fuoco nella mia memoria. Come potrei dimenticare? Fu allora che, in vacanza nella Riviera dei Fiori, la perfidissima Keiko Takemiya ebbe a risentirsi di quella mocciosa che giocava a palla lì vicino disturbando il suo meritatissimo riposo e le sguinzagliò contro i suoi cani... Da allora non sopporto i cani e massacrerò sempre e comunque a prescindere tutti i suoi lavori.
Infatti, al Poema del vento e degli alberi ho assegnato un ridicolo 7. Terra e... non ho potuto esimermi dall'affossarlo con un misero 9.
La odio.
Incommensurabilmente.
A prescindere, sì.
Beh sì, a prescindere. Non sembrate molto affidabili nel recensire anime datati ^^'
Però suvvia, ancora a fare questi teatrini/capricci come i bambini? 😂😂
Perché non lasci che sia Kirk a decidere se vederlo o meno? Magari gli piace, non deve per forza non piacergli a prescindere. 😂
P.s. nei teatrini siamo i numeri uno, pensa che @dawnraptor è, non ironicamente, un’attrice coi fiocchi.
Ovviamente non avete ancora capito che avete torto non nel voto dato, ma nel vostro approcciarvi all'opera (molto mediocre e per certi versi discutibile, e se qui c'è qualcuno che lo nega non sono certo io) come se fosse un Redo of Healer qualunque. Ma ormai è assodato che le mie sono parole buttate al vento (virtuale), quindi non sprecherò altro tempo... Tanto più che non ho nessun compagno d'arme che accorre prontamente a difendermi e sostenermi.
P.s. Grazie alla redazione per questi momenti indimenticabili.
Costui o costei potrà ben spiegarmi il perché del mio torto, il mio errore nell'approcciarmi a un'opera mediocre e il corretto modo di visionare ogni lavoro nel contesto dell'epoca, evitando di esprimere giudizi che potrebbero colpire la sovreccitata sensibilità altrui.
Pace e bene, cugine e cugini, anche un nick può soffrire di eccesso di ridicolo. Fatevi un ghiacciolo, che fa caldo!
Prego. Ma non farci l'abitudine, perchè è l'ultima volta.
Aridaje. ^^' Se sei convinto di qualcosa non vuol dire che sia la realtà.
Non posso parlare a nome di Scarlet nè di chiunque altro, ma per quanto riguarda me il problema non è il voto. E poi, voto e parere sono due cose diverse leggermente diverse, o almeno così è per me. Keiko Takemiya non è intoccabile, ma appunto è Keiko Takemiya. A me non sono quasi mai piaciute le opere di Masaaki Yuasa (che è ben più "intoccabile" della Takemiya, lol) ma non mi sognerei mai di dargli voti così bassi, nè tantomeno di definire un suo lavoro trash, cringe o degno di una soap opera.
Sempre almeno per quanto mi riguarda, dipende. Se un'opera è davvero brutta, ridicola e imbarazzante è una cosa, ma se è semplicemente scadente o mediocre è un'altra. E per me Natsu e no Tobira appartiene alla categoria dei mediocri con potenzialità non sfruttate. Ammetto che se non avesse la firma della Takemiya gli avrei dato 5 e mezzo invece di 6.
Inoltre c'è anche la questione del periodo storico: non si può giudicare un'opera che appartiene ad un determinato periodo come se fosse uscita ieri. Ma, a leggere le vostre recensioni, sembra che quasi tutti voi abbiate scambiato questo OAV per una trashata qualsiasi degli anni 2010-20.
Queste comunque sono tutte cose che avevo già abbondantemente spiegato la prima volta.
L'indignazione la vedi solo tu, e quanto a risate me ne faccio sempre abbondanti, grazie anche ad una parte consistente dell'utenza di AC e alla gente in generale. Adieu e buona fortuna.
fantastico, la mia rubrica preferita!!!
e rieccoci
@vale. ahahah oddio ahah
n
credo che se hai letto cio che ho scritto su per giu hai capito che robaccia è ,ma devi vederlo e dare un tuo giudizio a riguardo. magari un po ti piace! anche se è LA FIERA DEL CRINGE
no ma ora che ci penso, fu sempre natsu e no tobira al centro del ciclone anche l'altra volta?
ahah oddio ahahah
comunque:
sottoscrivo il lavoro mediocre e imbarazzante, sebbene antesignano come descritto dalla rece.
Beh Felpato, ovviamente anche questa volta, ti sbagli. Le opere le visiono strafregandomene altamente di chi sia l'autore/l'autrice. Non vorrei turbare i suoi fan, ma non so minimamente lei chi sia né tantomeno me ne può fregare! Il problema è la concezione che avete di quest'opera, ne parlate come se fosse la cosa più terribile uscita since ever e per questo operate una sorta di "denigrazione" in massa spingendo alcuni curiosi (vedi Kirk che magari voleva visionarla per pura e semplice curiosità) a rinunciare solo leggendo una vostra recensione a caso (anche perché sono tutte uguali, dite tutti le stesse cose). Non ho detto a Kirk che è stupendo e deve per forza vederlo, se vuole vederlo bene, se non vuole vederlo bene lo stesso. A differenza vostra, a me non cambia assolutamente nulla! xD
Questo messaggio mi diverte. Non appena ho scritto quella cosa vi siete indignati e avete cominciato a fare i "leoni da tastiera". Per quel che mi riguarda, io mi faccio grosse risate.
Capito, siamo dei miserabili che scoraggiano la povera utenza dal guardare un anime perché, dopo averlo visto, pensiamo tutti giustamente che sia una ciofeca e non ci esimiamo dallo scriverlo in una recensione. Non è l'anime che è una ciofeca, o anche se lo fosse, non avremmo dovuto dirlo.
Anche tutti quelli che guardano gli episodi di qualche anime trash e spolliciano rosso come se piovesse non dovrebbero farlo, perché potrebbero scoraggiare la povera utenza sperduta dal guardare un possibile capolavoro.
Frega niente a nessuno che su Wolfwalkers abbiamo dato tutti giudizi più che positivi. Anzi, sarà ulteriore prova di gomblotto: ci siamo messi d'accordo preventivamente per divinizzare un anime, così come ci siamo malignamente accordati per affossarne un altro.
Avete raggione. Laqualunquemente.
Grazie Redazione, per averci consentito questa serata di divertimento. E' stato spassoso.
Viaggia su quel binario melò che ha fatto la fortuna della Takemiya e del genere che lei e quelle del Gruppo 24 hanno praticamente creato.
Ovviamente se uno non parte già col tema di Amami Alfredo in testa, diventa tutto più..."inconsueto".
Avendo visto tutte e tre le opere, vorrei provare a rispondere a questa domanda in testa alla rubrica.
In "Koikimo" si parte avendo la sensazione che la storia tra loro due sia mediocre, che lui (molto più grande di lei) sia un po' sciocco, e che la sua attrazione sia più un capriccio. Ma non sarà così. E qui mi fermo altrimenti rischio di cadere in spoiler.
In "Dopo la pioggia" è lei (la più piccola tra i due) a correre dietro a lui, e se da un primo impatto sembra che la storia possa avere un potenziale un po' intrigante, in realtà non sarà così, e tutto si dipanerà in maniera molto delicata. Il punto di forza sarà il protagonista maschile, è lui che fa la differenza, e non la ragazza che (perdonate se uso un espressione già utilizzata
In "Natsu e no tobira" i personaggi con la personalità di una cassapanca sono più di uno... e in questo caso è lei ad essere quella più matura, ma di sicuro il loro "amore" non lo è.
Ovviamente per farvi una vostra opinione, consiglio, oltre la lettura di queste belle recensioni, anche la visione di tutte e tre le opere: la prima e la seconda, se siete dei romantici, la terza perché sembra molto dibattuta.
Ma poi... La domanda più importante rimane: "Quanto è importante la differenza d'età in una relazione amorosa?"
e niente ormai sono un fan delle tue stroncature
(quel giovannona-coscialunga franco-iberica mi ha fatto morire)
ricambio il sorriso, nel modo più gentile e amichevole possibile
non sono d'accordo col tuo concetto ma difendo fino alla morte il tuo modo di esprimerlo. ritieniti abbracciato virtualmente
potrei arrossire.
No, non è vero, ma ti ringrazio un altro fan, ma niente only, non sono il tipo di mettere a nudo le mie rece.
boiate a parte, curioso che siano piu amate le mie stroncature che le glorificazioni ahahha
hehhehe ero sicuro avresti colto con facilità
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