Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

7.0/10
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"Koikimo" è un josei travestito da shōjo.
Delicato nei tratti, negli accadimenti, nella narrazione.
Nella cornice, pastello chiaro, di vita quotidiana si racconta la vita del giovane impiegato Ryo amasuka: ventisettenne brillante, esteticamente piacevole, impeccabile nel lavoro, donnaiolo per noia o per fuga.

Una "società", che ha voce nei colleghi e nelle colleghe di lavoro, e solo un sottofondo, lo giudica adulto, arrivato, desiderabile... ma, come spesso accade, i traguardi canonici e apparenti convivono o nascondono un vuoto interiore.
È nella circostanza di quel vuoto, una dignitosa e rispettabile torre d'avorio, che avviene l'incontro con Ichika Arima. Ichika è una giovane studentessa; nel viavai d'una stazione, nel primissimo episodio, salva Ryo da una brutta caduta sulle scale: una caduta e un salvataggio metaforico che è già di per sé motore autonomo del racconto.

Sarà la specchiata normalità di Ichiko a dare una boccata di ossigeno a Ryo, a disvelare aspirazioni nascoste: quelle di normalità, appunto, come anche quelle di sentimenti genuini, una vita più vera.
Da giovane sessualmente (iper)attivo, ideale di distaccata e arrogante perfezione, ne scaturisce un Ryo inedito: goffo, invasivo, autoironico, alla continua ricerca, fuori misura, delle attenzioni della liceale.
A Ichiko, sopraffatta, il compito di scoprire mano mano se e quanto di buono si trova in lui.

A partire da un appartamento freddo nei quartieri alti a un nido familiare da ricostruire, con le paure del mettersi in gioco, del divario d'età e con l'aiuto sempre presente di una sorella ritrovata (Rio), "Koikimo" altro non è che il racconto di una riscoperta di sé.

Ma è proprio questo che "Koikimo" racconta? Certamente sì, ma, per ritornare alla delicatezza prima menzionata, lo fa senza la necessità d'indugiare, sorvola i temi e questi ne emergono egualmente forti... è forse questo che più di tutto colpisce.

L'invadenza di Ryo può essere infastidente? La sua perfezione idealizzata? Ichiko eccessivamente adorabile e composta? Sicuramente sì - e non è detto ciò sia obbligatoriamente un difetto - ma dietro un tratteggio che può essere tacciato di banalità c'è molta freschezza, una maturità inaspettata.

Nei suoi scorrevoli dodici episodi non c'è alcuna pretesa; eppure è un lavoro che non si lascia andar via come niente... confezionato, pensato e realizzato con un suo senso che si difende. Non è poi, cosa da poco.

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Sulla scia degli anime che trattano storie d’amore, ho deciso di guardare “Koi wa Ameagari no You ni”, e non ne sono rimasta delusa.

Quest’anime vede due protagonisti, Kondo, manager quarantacinquenne di un ristorante, divorziato, e Akira, una studentessa diciassettenne. Ci si aspetterebbe lecitamente una storia d’amore vera e propria, e invece quest’anime rovescia il paradigma e scava in questi personaggi.
Da una parte c’è Kondo, che ha lasciato cadere i suoi sogni di scrittore e che verso la letteratura ha un’ossessione, ma si considera un ragazzo a un punto morto della vita. È proprio la costante dichiarazione d’amore di Akira a spingerlo a interrogarsi su chi è, chi era e cosa vuole diventare.
Akira, da parte sua, è un’atleta reduce da un infortunio che le ha impedito di correre, la sua grande passione. Vive senza motivazione, non capisce più come approcciare l’amica di sempre che ancora la vorrebbe veder correre fianco a lei e vincere, se solo affrontasse la riabilitazione.
I loro due mondi si incontrano e si fondono: da una parte Akira spinge Kondo a fare i conti con sé stesso e a capire che non può rinunciare al suo sogno di scrittore, dismesso alle difficoltà matrimoniali. Con la fiducia che lei gli infonde nei sogni, nella giovinezza, gli dà la forza di andare oltre al grigiore in cui era assopito; dall’altra c’è Akira, taciturna ma sensibile, che vive i problemi della sua vita senza trovare soluzioni, che Kondo con parole ispirate le offre, riscoprendo così, contemporaneamente, molto di sé stesso.

La pioggia è il filo rosso di questo anime: nelle sue varie forme dà il ritmo a questa particolare storia d’amore, gettando un parallelo tra la sua caduta più o meno gentile o più o meno improvvisa, con i ritmi lenti di questa relazione. Ogni episodio ha la magia di un sasso gettato in uno stagno: i cerchi si allargano con grazia e c’è la curiosità contemplativa di capire come reagiranno incontrando vari ostacoli.

Quest’anime è delicato, poetico. Sono bellissime le immagini della biblioteca-acquario e i momenti in cui si manifestano il vento e magiche sfumature dorate con bolle leggere. È poi valorizzato da altri personaggi, come l’amica di Akira o l’amico di Kondo, che danno più spessore personale, e non di coppia, ai due protagonisti.

L’opening è azzeccata e colorata, l’ending è molto bella con il pianoforte, delicata come l’anime.
Il chara design a volte è un po’ deformed in alcuni personaggi, ma tutto sommato si tollera, vista la bellezza della protagonista.

Concludendo, lo consiglio proprio per i temi maturi che tratta, non solo l’amore, ma anche la ricerca di sé stessi e della propria auto-realizzazione, e per la poesia leggera che traspira da tutta la pioggia che avvolge quest’anime.

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N2T2U 2 NO TO2I2A

Sordido pioniere dello shonen-ai e nel contempo d’uno shoujo ai limiti del paradossale, “Natsu e no Tobira”, suo malgrado, si palesa come antesignano sui generis, capace di racchiudere tutto e niente, patriarca di un disagio raramente vissuto davanti a uno schermo in quattro terzi, il tutto trasposto da un manga (ormai vintage) di Takemiya, stessa autrice de “Il poema del vento e degli alberi”, primo manga yaoi della storia.
Pronti via, ed ecco che una splendida melodia ci prende per mano. Ma... cosa succede? Le note si strozzano, tremano, complice una “pellicola” antidiluviana, e, quando il tutto finalmente si raddrizza, facciamo finalmente conoscenza con una colonna sonora semplicemente fantastica, sublime, malinconica e irresistibile: sarà l’unico punto di forza di quest’opera imbarazzante.
Dall’angolo più ingiallito degli acerbi anni ottanta (appena usciti dai brillanti settanta, fra ciuffi cotonati, vitine di vespa, arti sproporzionati e pantaloni a zampa d’elefante), emergono colori acquarellati (male), sfondi appena accennati, inquietanti, capaci di trasmettere una tristezza senza precedenti; ciò non è altro che l’anfiteatro nel quale si esibiranno alcuni collegiali francesi di fine Ottocento. Ogni elemento pare emergere in punta di piedi, parte di un incipit incomprensibile, confuso ancor di più da sfondi onirici, sfumature angoscianti che presagiscono tutto tranne che una bella estate di gioie adolescenziali.

Quel che sembrerebbe essere l’ibrido grottesco fra un film di Alvaro Vitali e la versione mediocre delle fantasie di Lars Von Trier, scopriamo esser ambientato in un collegio d’Oltralpe.
Qui facciamo la conoscenza di Marion, giovane, biondissimo e affascinante studente che nulla sa della complessità dell’amore, dei suoi tormenti e delle sue intensissime gioie, né può immaginare l’amarezza di noi spettatori nel sorbirci un simile film per cinquanta minuti filati. Marion è compagno di altri altolocati giovincelli frequentanti il sopracitato istituto - di soli maschi - in quel di Francia. L’unica ragazza in vista è Ledania, figlia del preside dell’istituto, desideratissima e corteggiata da tutti i maschi, orgogliosi bellimbusti che s’azzuffano e sfidano per contendersi la sua mano.
Lei, tuttavia, è segretamente innamorata proprio di Marion, il quale non la considera minimamente, per nulla attratto dai contorti meccanismi del cuore, tant’è che pare volerne stare lontano il più possibile.
Tutto ciò cambierà, quando, in uno dei tanti duelli fra maschietti-trogloditi dell’istituto, da un treno in piena corsa, fermato in extremis proprio a causa di tale sfida (credetemi, l’intera scena non ha alcun senso!), scenderà un’avvenente donna di mezz’età di nome Sara Vieda, scalpitante ‘milfona’ dal bacio facile e dalle voglie imprevedibili, incline a tendenze che oggi potremmo valutare tranquillamente al limite del penale, ma che in questo obsoleto contesto assumeranno un significato fondamentale ai fini della sgangherata trama.
A prescindere dalla funzionalità, la sua comparsa lascia davvero perplessi, proprio come tante altre scelte narrative: spesso le azioni dei protagonisti appaiono impulsive, casuali, insensate o forzate. Scatti d’umore e reazioni immotivate al limite del grottesco sostituiscono atteggiamenti che ci aspetteremmo più realistici; parimenti, ben si nota la mancanza d’approfondimenti sulle questioni romantiche e sofferte che avrebbero trasformato questo imbarazzante connubio fra Giovannona Coscialunga franco-iberica e mister Lolito in qualcosa di quantomeno accettabile.
Al di là dalle scelte degli autori, quest’opera s’impronta sin da subito e a tutti i costi come una rudimentale fiera del grottesco, donando ai posteri un intero vassoio di disagio assortito, una bibita al gusto di fallimento da bersi tutta d’un fiato per provare una discreta nausea, che difficilmente ci lascerà senza turbamenti. Sia ben chiaro: tali turbamenti non nascono dai temi che l’anime tratta, perché come scheletro narrativo sembrerebbe delinearsi una vicenda davvero intrigante, ricca di spunti importanti, un prodotto di formazione adolescenziale sia drammatico che conturbante, intento ad esplorare situazioni contorte e - per il tempo - davvero spinose da affrontare. Tali sopracitati turbamenti sono inevitabilmente generati dal miserabile, squallido e insensato modo con cui vengono esposti.

“Natsu e no Tobira” mostra un metodo di scorrimento inquietante, con pause narrative spesso inutili, imbarazzanti osservazioni da parte di un narratore sovente fuori luogo e - cromaticamente parlando - sfumature di vacui, smorti acquarelli che, di tanto in tanto, sembrano azzeccarci poco con le variegate frequenze emotive. La pletora di musiche malinconiche tanto belle quanto confondenti non aiutano a ricomporre un puzzle che pare mancare di tanti, importantissimi tasselli: è evidente che il prodotto sia invecchiato malissimo e, probabilmente, già al tempo faceva storcere il naso.
Le analogie nipponiche che si dedicano al tormento giovanile si sprecano. Adolescenti in piena fase turbolenta, anime incomplete, né ancora uomini né più innocenti ragazzini; il solito guardar avanti, oltre, verso un futuro più ottimistico è un discorso che qui regge poco, poco pertinente ai confusi e variegati eventi che vengono gettati davanti agli occhi dello spettatore, ammassandosi senza logica.
Avvertiamo le influenze di Ryoko Ikeda e della sua amatissima Oscar, ma “Le rose di Versailles” non aiutano certo a far fiorire questo campo di ortiche: il perno della vicenda è la comparsa, come anticipato, di Sara Vieda, bellissima donna dallo charme smisurato che, senza motivi apparenti, s’invaghisce del giovanissimo Marion, tirando fuori una filanda di motivi (scuse) per giustificare il suo desiderio, in primis la volontà di far scoprire al giovane e ignaro sbarbatello le differenze fra amore e sesso, i piaceri della carne e la leggiadria di due anime unite in un intenso amplesso mosso da mani esperte. Sorriso da infoiata, occhio voglioso a mezz’asta e sguardo di chi la sa fin troppo lunga: impossibile resisterle, se sei un giovincello confuso e in piena tempesta ormonale, e che, soprattutto, non ha mai assaggiato “l’unico frutto dell’amor” (citazione trash, in linea col prodotto recensito).
Il biondino spavaldo che fino a un minuto prima non sopportava le timide ma dolcissime occhiate di Ledania (prototipo della giovane pura e innocente, ahinoi soprammobile di poca rilevanza in una vicenda intrisa di falso machismo), cede immantinente alle avances e alle cosce profumate della viziosa madama, pronta a trascinarlo in una notte d’estasi e piaceri mai provati prima. Anche qui troviamo scelte registiche imbarazzanti, trovate grottesche che, invece di solleticare la fantasia e dare l’input per una trasgressione decisamente anticonvenzionale, fanno soltanto scuotere la testa: proprio quando l’anime mostra il “meglio” di sé, ovvero nella parte centrale - più intensa e ardente -, tali trovate fanno crepare l’intonaco delle buone intenzioni e tutto vien giù velocemente.

C’è ben poco da parafrasare: in una Francia post-reazionaria, questa vicenda, che come da titolo apre le porte a un’estate di travagli e cuori infranti, tenta di raccontare ogni aspetto di un romanticismo demodé, reo di concetti ormai sopiti, antichi e fuori registro per i nostri tempi, ma, si sa, le pulsioni adolescenziali sono identiche in ogni epoca, e la malinconia crescente di una storia che presto volgerà in tragedia fanno accrescere un rimpianto davvero grande, perché le basi per un prodotto davvero interessante c’erano tutte. Si continua ad assistere alla visione sperando in qualche spunto decisivo che svolti da una diffusa sensazione di fastidio, mentre invece accade l’opposto: il fastidio diviene irritazione, quando vengono introdotti altri elementi che dovrebbero aggiungere pathos e sofferenza, mentre finiscono per ispirare costernazione e delusioni frammentate. Un po' come quando trovi un paio di scarpe che sembrano carine, ma, una volta calzate, risultano insopportabili dopo solo due passi.
Tutto ruota comunque attorno a Marion e alle sue esperienze estive fino a un epilogo di tragedie, sfortune e delusioni, una fra tante la comparsa del marchese a cui Sara Vieda appartiene (?).
Marion è quindi una Lolita al maschile, ferito, confuso, eppure limpido e innocentissimo, calamitato e sconclusionato, protagonista di una vicenda fastidiosa e sbiadita.
Alcuni tratti quasi onirici paiono trasformare il metodo narrativo da realistico a un vago introspettivo, e tale trovata, invece di arricchire l’opera a livello poetico, confonde ancor di più lo spettatore.
Chiaramente anacronistica, invece, per i tempi che corrono - e come accennato precedentemente – la mercificazione di Ledania, bambolina-soprammobile che sembra dover esistere esclusivamente per apparire bella e contesa, la “fanciulla da sposare”, carina e basta, mai interpellata sui propri sentimenti, fino a quando non sarà lei ad esternarli: è appannaggio dei protagonisti decidere se amarla, sposarla, respingerla, come se il suo parere conti zero, essendo la storia ambientata negli ultimi anni del 1800 (e quindi, storicamente pertinente). Tuttavia, la giovane bistrattata riuscirà ad avere il suo piccolo momento di rivalsa proprio verso un finale confuso e sconcertante.

Già, il finale.
Un doppio climax troppo frettoloso e troppo forzato, con atteggiamenti ridicolmente esasperati (un vero scempio aver bruciato il tormento di uno dei compagni di Marion con un espediente narrativo rapido e poco curato!), e un percorso che permette di arrivarci (male), che non convince affatto.
“Natsu e no Tobira” è a tutti gli effetti un trash sentimentale con tratti di genio interpretati nel peggiore dei modi, un voler narrare le stagioni dell’amore e dell’erotismo in maniera goffa e per nulla convincente, tramite animazioni mediocri e dialoghi mediamente ridicoli.
A metà fra l’insopportabile e l’improbabile, a distanza di tanti anni la visione risulta decisamente insulsa e fallimentare: avrebbe potuto raccontarci molto, e in fondo lo fa, ma è come ascoltare un’intensa poesia di d’Annunzio recitata da un ubriaco in preda a spasmi epilettici.
Nel 1975 esordiva il manga di “Caro Fratello”, che affrontava tematiche simili e con toni forse ancor più forti, ma di tutt’altra caratura, metro di paragone impietoso. Unica nota davvero positiva, da ribadire, una colonna sonora splendida (il pezzo finale interpretato da Kentaro Haneda è sublime).
È vero, siamo di fronte a un antenato di un mix di generi oggi esplorati in lungo e in largo, e sappiamo tutti che senza questi primi esperimenti non ci sarebbe stato seguito, ma la valutazione complessiva non può che essere decisamente negativa.
Squallido, mal narrato, sconclusionato.