Quando Yu Yu Hakusho, a noi noto anche come Yu degli Spettri, vide la luce sulle pagine di Weekly Shōnen Jump, era il dicembre del 1990: un mese apparentemente fortunato per l’opera, visto che anche l’adattamento live action è uscito proprio a dicembre. Su quella che è probabilmente la rivista manga più famosa del mondo, un archetipo di personaggio era particolarmente popolare: quello dello yankee o teppista, studente ribelle rissoso e considerato un poco di buono ma dal grande, grandissimo cuore, anche se molto ben nascosto.
Con illustri predecessori del calibro di Shunsuke di Vino di Zucca e Tacchan di Touch (d’altronde Yusuke ha alcuni punti in comune coi fratelli Uesugi…), un intero schieramento di giovani combattenti ribelli animava le pagine della rivista, primo fra tutti Momotaro Tsurugi di Classe di Ferro/Sakigake!! Otokojuku, seguito poi da Jotaro Kujo di Le Bizzarre Avventure di JoJo, Taison Maeda di Rokudenashi Blues, Hanamichi Sakuragi di Slam Dunk e, ovviamente, Yusuke Urameshi, di Yu Yu Hakusho.
Pur non essendo un apripista degli yankee, la sua influenza Yusuke ce l’ha, raccogliendo lo spunto dei “protagonisti che possono vedere gli spettri” di JoJo Stardust Crusaders e sviluppandolo in un intreccio intensissimo di azione e yokai (mostri del folklore giapponese), che tanti altri mangaka useranno come punto di partenza in numerose opere successive.
Alla serie siamo profondamente affezionati anche noi italiani, grazie all’anime andato in onda su La7 e MTV nel periodo del boom dei primi anni 2000, libero dalle classiche censure Mediaset e, allo stesso tempo, graziato da un cast milanese con quasi tutte le star del doppiaggio di quel periodo; allo stesso modo, la prima edizione del manga fa parte a sua volta della prima “grande onda” di shōnen (manga per ragazzi) pubblicati da Star Comics a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.
La serie è estremamente popolare anche negli Stati Uniti, dove, sempre all’inizio del nuovo millennio, fu tra le poche fortunate a godere di una messa in onda “più o meno integrale”, dandogli una fama di opera più “cool” rispetto ad altre profondamente martoriate dalle censure statunitensi.
Con queste premesse di tutto rispetto, è chiaro che l’opera di Yoshihiro Togashi si trova in pieno territorio sacro del manga d’azione, e che una trasposizione live action di questa portata necessita più che mai di attenzione, cura e maestria nella realizzazione. E’ infatti un lavoro sempre delicatissimo e rischioso, perché si va a “toccare” qualcosa tanto intimo, quanto un ricordo d’infanzia/adolescenza, e tanto popolare da aver fatto investire tempo e denaro a milioni di persone, se si parla di opere di questo calibro.
Sarà riuscita, la miniserie Yu Yu Hakusho di Netflix disponibile dal 14 dicembre, a portare a termine degnamente questo delicatissimo compito?
Un ostacolo sempre molto grande, nell’adattamento dal vivo di manga e anime, soprattutto se longevi come quelli d’azione per ragazzi, sta nel riadattamento della trama entro i limiti di una serie tv o di un film: se con i fumetti occidentali basta fare un “collage” di storie ed elementi più o meno importanti a disposizione lungo decenni di pubblicazione (in una struttura che per molto tempo è stata autoconclusiva), cercando di ottenere un risultato (non sempre) soddisfacente, e con i videogiochi spesso c’è molta più libertà d’azione o una storia ben definita ma comunque più breve, il manga seriale fa del prolungamento narrativo e del centellinare degli eventi una necessità che diventa virtù, data la cadenza di pubblicazione settimanale in un numero di pagine relativamente elevato.
Così facendo, archi narrativi e combattimenti raggiungono livelli di epicità memorabili, perché accompagnano i lettori per lungo tempo, sia che ne fruiscano settimanalmente, sia che leggano le vicende ogni tot. mesi in volume.
Il problema è, appunto, come tradurre tutto questo in una serie da cinque, dieci, dodici episodi da un’ora o, cosa ancora più difficile, un film di due ore: quali personaggi ed eventi tenere, quali tagliare, quali ridimensionare e a quali dedicare particolare enfasi?
È necessaria una buona conoscenza dell’opera originale per prendere le decisioni giuste sotto questo punto di vista, ritrovandosi a fare gli equilibristi tra centinaia di capitoli, centinaia di personaggi, centinaia di eventi, combattimenti e scene memorabili (queste magari non centinaia, ma comunque tante).
L’adattamento dal vivo di Yu Yu Hakusho, per la regia di Shō Tsukikawa si ritrova con un’enorme gatta da pelare, cercando di condensare una larghissima fetta degli eventi più importanti dell’opera originale in cinque episodi da cinquanta minuti, e lo fa dimostrando un’enorme abilità nel giocare a Tetris, visto che riesce ad incastrare eventi e personaggi chiave qui e là cercando di mantenere quanta più fedeltà possibile all'opera originale.
Il rischio di pasticci e delusioni varie era enorme, ma per fortuna è stato scampato: pur rimescolando eventi e personaggi e condensando fortemente le vicende originali, questa reinterpretazione in carne e ossa dell’opera di Yoshihiro Togashi riesce a mantenere perfettamente intatto lo spirito dell’originale e tutti i suoi elementi cardine amatissimi dai fan, in un certo senso bissando l’ottimo lavoro di un altro adattamento dal vivo di una colonna del Jump anni ‘90: la serie di film dedicata a Rurouni Kenshin, casualmente anch’essa disponibile su Netflix benché inizialmente nata per il cinema, e, un po' meno casualmente, serie di film che condivide con questo Yu Yu Hakusho il direttore delle scene d'azione, Takahito Ouchi.
Avere a disposizione una trama consolidata e saperla adattare con capacità non è, però, tutto, quando si parla di realizzare un adattamento live action: serve, infatti, essere anche capaci negli elementi base della cinematografia e della televisione.
La prima cosa a saltare all’occhio sono i piani sequenza: diverse scene chiave sono realizzate senza stacchi, e, indipendentemente da quanto uso della CGI sia coinvolto nella loro realizzazione, il risultato è indubbiamente spettacolare. Scene di combattimento o, comunque, chiave, rendono molto bene con questo tipo di tecnica, molto complicata da realizzare soprattutto quando si tratta di scene d’azione, ed è palese che attori ed eventuali stuntmen si sono impegnati a fondo per realizzare sequenze convincenti; peraltro, questo tipo di sequenze ricorda sia le scene d’azione più spettacolari di molti anime shōnen moderni, sia le origini di Yu Yu Hakusho in formato televisivo, visto che lo Studio Pierrot, notoriamente d’alto livello sul lato tecnico, non solo ha animato divinamente la serie anime originale, ma a sua volta faceva ampio uso di piani sequenza in una delle sue prime opere importanti, ovvero Lamù/Urusei Yatsura. In quest’ultimo, però, questo tipo di scene era, naturalmente, più legato a situazioni comiche che a momenti concitati.
Anche la fotografia regala momenti decisamente interessanti, con un uso dei colori piuttosto variegato che permette di rendere ottimamente atmosfere diverse, e un paio d’inquadrature decisamente evocative e degne di nota. E, a proposito di questo, il modo in cui sono stati resi l’aldilà e il mondo demoniaco è decisamente impressionante, sia da un punto di vista strutturale che d’atmosfera, e certe scene (soprattutto una sul finale) meritano davvero un plauso per quanto riescano ad essere scenografiche e d’atmosfera.
A proposito di cose impressionanti, in quanto adattamento di un manga di Yoshihiro Togashi, inevitabilmente Yu Yu Hakusho ha scene di una violenza notevole, che non sono state affatto edulcorate in questa versione live action, cosa che, per certi versi, colpisce parecchio, ma sempre in positivo.
Non è tutto brutalità e distruzione, però: diverse sequenze più tranquille e silenziose aiutano tantissimo a dare maggiore equilibrio a un’opera che, per forza di cose, necessita di parecchie scene d’azione, e anche questo sa essere decisamente apprezzabile.
Un ultimo plauso va alla colonna sonora: i brani che fanno da sfondo alle vicende, e soprattutto agli spettacolari combattimenti, sanno supportare ottimamente quanto avviene su schermo e riescono a farsi ricordare anche a episodio concluso, elemento che, in qualsiasi opera dotata di sonoro, non va mai sottovalutato.
Se proprio gli si volesse trovare un difetto, che è tanto evidente quanto diffuso negli adattamenti live action anime, questo sta in un elemento imprescindibile per una serie d’azione per ragazzi anni ‘90: i capelli colorati dalle forme più disparate.
Se quelli di Keiko sono sin troppo normali (ma almeno, nella sua “normalità” si distingue dai matti che ha intorno…), quelli di altri personaggi, soprattutto Yukina, non nascondono il loro essere parrucche, e magari questo lato poteva essere curato un po’ di più, proprio perché è un difetto comunissimo di questo genere di operazioni.
Croce e delizia di ogni adattamento live action che si rispetti, il casting dei personaggi è sempre estremamente delicato, perché, soprattutto in opere spesso dalle tendenze fantasiose o caricaturali come i manga, risulta molto difficile trovare attori veramente somiglianti, e una buona fetta del lavoro la fa la recitazione.
Già esperto nell’interpretare teppisti da manga shōnen, in quanto protagonista degli adattamenti live action di Tokyo Revengers (ma tra Takemichi e Yusuke di differenze caratteriali ce ne sono tante…), Takumi Kitamura ci offre uno Yusuke Urameshi taciturno, svogliato, schivo ma anche energico, virile ed esplosivo, esattamente come dovrebbe essere: tra pose “da bullo” e scazzottate, il nostro eroe riesce benissimo ad assomigliare alla sua versione “su carta”, seppur le sue avventure, qui, siano molto più brevi.
Con un cognome così, Shūhei Uesugi non poteva che interpretare l’altro teppista dal cuore d’oro della compagnia, Kuwabara.
Costumi ed effetti speciali a parte, Kuwabara era probabilmente il più complicato del quartetto da trasporre, per via del suo look molto caricaturale nell’opera originale: seppur un po’ ridimensionato, però, Kuwabara rende, un po’ perché l’attore ci mette del suo nel renderlo un personaggio tanto divertente quanto coraggioso, un po’ perché quegli zigomi selvaggi li ha per davvero.
Dai tratti così delicati da fargli meritare una doppiatrice donna sia in originale (Megumi Ogata) sia in italiano (Dania Cericola), Kurama necessitava di un attore in grado di riprodurne il look androgino, e Jun Shison si è dimostrato all’altezza del compito: la dualità del personaggio, tanto gentile e bello quanto privo di mezze misure in combattimento, era fondamentale perché la sua trasposizione riuscisse bene, e per fortuna si è centrato in pieno l’obiettivo.
Anche se solo di un paio di centimetri, Kanata Hongō riesce comunque ad essere il più basso della compagnia, e con questo metà del lavoro per il personaggio di Hiei è fatto.
In realtà, dei quattro personaggi principali, il suo è forse quello che qui spicca di meno, non tanto per mancanze dell’attore o difetti di gestione, quanto per il carattere del personaggio stesso, sempre schivo, isolato e immerso nei suoi pensieri.
Da questo punto di vista, però, si può dire che sia comunque perfettamente riuscito, anche perché i suoi momenti, pochi ma importantissimi, li ha eccome.
Per quel che riguarda i personaggi secondari, qualche interpretazione degna di nota: i fratelli Toguro, seppur supportati da parecchi effetti speciali per via delle loro fisicità particolari, riescono ad essere decisamente convincenti, e se il minore, algido e granitico, non necessita di particolari acrobazie recitative (anche perché è perennemente nascosto dietro i suoi occhiali da sole…), il maggiore buca decisamente lo schermo con la sua personalità sopra le righe e giustamente detestabile.
La somiglianza di Tarukane con il Padrino di Marlon Brando è eccezionale, e aiuta tantissimo a dare quella sensazione di “manga dal vivo”, come pure il povero Keita Machida che avrà dovuto recitare tutto il tempo col ciuccio in bocca nel ruolo di Koenma, assolutamente non danneggiato dalla comprensibile assenza della sua forma “neonata”.
Per quanto non sia nuova a opere incentrate sull’azione, l’interpretazione della maestra Genkai da parte di Meiko Kaji risulta notevole dall’alto dei suoi 76 anni, dando per scontato che molte delle scene più concitate siano state realizzate da una controfigura; le sue apparizioni in forma giovane, invece, hanno tutta l’aria di un lavoro di deep fake, ma sono talmente brevi e “particolari” da non stonare eccessivamente.
Ultima, perché degna di chiudere in bellezza questa carrellata, è Kotone Furukawa su Botan: la foto personaggio rilasciata prima dell'uscita della serie non rende assolutamente giustizia all'interpretazione dell’attrice, che dona a Botan la stessa personalità allegra e divertente che un personaggio colorato ed energico, con quello spirito di “ragazza scesa dal cielo per scombinare la vita del protagonista” - erede ancora una volta di Lamù - può avere solo in un anime.
Le mancano solo gli occhi a U rovesciata quando sorride perché la realtà non è un anime anni ‘90, ma tutto il resto c'è e buca lo schermo, compreso il modo di tenersi le maniche del kimono con le mani tipico del personaggio. Manca il remo, ma si fa perdonare molto facilmente.
Nota italica finale per il più che buon doppiaggio romano, con un giusto equilibrio tra voci emergenti e colonne del calibro di Marco Vivio.
C’è, però, un ultimo fattore determinante nella realizzazione di un adattamento live action, essenziale specificatamente per questo genere di opere: il cuore.
Non basta trasporre una vicenda in modo più o meno fedele, è fondamentale dimostrare ai fan, giudici impietosi di questo genere d’operazioni, d’aver “studiato”, di conoscere, comprendere e possibilmente amare l’opera in questione; talvolta, il cuore messo in una trasposizione dal vivo può essere la spina dorsale di un adattamento, si veda il recente caso di One Piece.
Di cuore, in Yu Yu Hakusho e in quello che rappresenta, da un punto di vista storico ed emotivo, ne è stato messo parecchio: riferimenti e strizzate d’occhio sono relativamente facili da inserire, quello che fa la differenza è il rispetto verso il ruolo che l’opera originale (cartacea o animata) ha nell’immaginario collettivo, nella “cultura”.
L’opera originale di Yoshihiro Togashi è profondamente figlia di quelle serie anni ‘80 piene di tornei con i personaggi più bizzarri a fare da avversari ai protagonisti, da Kinnikuman a Dragon Ball, da Capitan Tsubasa (magari meno violento ma non meno intenso) a Classe di Ferro/Sakigake!! Otokojuku, ma non si limita a fare “il tassello nel mosaico”, elevando ed evolvendo il genere in un periodo, quello degli anni ‘90, in cui di tornei e combattimenti ce n’erano tantissimi sia in televisione, che su carta, che in sala giochi.
Nonostante il look e la piattaforma di fruizione modernissimi, l’adattamento dal vivo di Yu Yu Hakusho by Netflix riesce particolarmente bene a restituire un’atmosfera “vecchio stile”, grazie a riassunti delle puntate precedenti narrati a voce, a una non-modernizzazione dell’ambientazione, e se non c’è il tempo materiale per un gigantesco torneo a squadre in un’enorme arena nel mondo demoniaco, il modo in cui è strutturata la trama permette comunque numerosi e spettacolari combattimenti sopra le righe in ambientazioni ora più, ora meno realistiche che ricordano tantissimo Mortal Kombat ‘95 e questo, per un amante dell’opera, della “cultura” che ci sta dietro e del periodo storico in cui non è solo incastonata, ma ne costituisce una delle gemme più splendenti, è veramente tantissimo.
È relativamente facile mettere la musica giusta al momento giusto, ma capire lo spirito, il significato, e l’importanza storica di un’opera è qualcosa di molto più avanzato, e significativo, e in Yu Yu Hakusho in versione live action, seppur in poco tempo, c’è tutto quello che si desidera da un adattamento dell’opera di Yoshihiro Togashi, tutto ciò che viene in mente appena si rivolge il pensiero alla serie, magari in modo riassuntivo, ma indubbiamente fedele, tanto che alcune scene sono state riprodotte dall’opera originale in maniera quasi maniacale.
Nonostante esistano quasi da quanto esiste il fumetto stesso, gli adattamenti live action hanno avuto un’impennata quantitativa solo in anni molto recenti, per fortuna accompagnati da uno standard qualitativo (quasi) sempre altrettanto alto; il Giappone ci si è tuffato a pesce, avendo numerosissime, amatissime fonti da cui pescare, con alterne fortune, esattamente come accade ai colleghi occidentali.
Con illustri predecessori del calibro di Shunsuke di Vino di Zucca e Tacchan di Touch (d’altronde Yusuke ha alcuni punti in comune coi fratelli Uesugi…), un intero schieramento di giovani combattenti ribelli animava le pagine della rivista, primo fra tutti Momotaro Tsurugi di Classe di Ferro/Sakigake!! Otokojuku, seguito poi da Jotaro Kujo di Le Bizzarre Avventure di JoJo, Taison Maeda di Rokudenashi Blues, Hanamichi Sakuragi di Slam Dunk e, ovviamente, Yusuke Urameshi, di Yu Yu Hakusho.
Pur non essendo un apripista degli yankee, la sua influenza Yusuke ce l’ha, raccogliendo lo spunto dei “protagonisti che possono vedere gli spettri” di JoJo Stardust Crusaders e sviluppandolo in un intreccio intensissimo di azione e yokai (mostri del folklore giapponese), che tanti altri mangaka useranno come punto di partenza in numerose opere successive.
Alla serie siamo profondamente affezionati anche noi italiani, grazie all’anime andato in onda su La7 e MTV nel periodo del boom dei primi anni 2000, libero dalle classiche censure Mediaset e, allo stesso tempo, graziato da un cast milanese con quasi tutte le star del doppiaggio di quel periodo; allo stesso modo, la prima edizione del manga fa parte a sua volta della prima “grande onda” di shōnen (manga per ragazzi) pubblicati da Star Comics a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.
La serie è estremamente popolare anche negli Stati Uniti, dove, sempre all’inizio del nuovo millennio, fu tra le poche fortunate a godere di una messa in onda “più o meno integrale”, dandogli una fama di opera più “cool” rispetto ad altre profondamente martoriate dalle censure statunitensi.
Con queste premesse di tutto rispetto, è chiaro che l’opera di Yoshihiro Togashi si trova in pieno territorio sacro del manga d’azione, e che una trasposizione live action di questa portata necessita più che mai di attenzione, cura e maestria nella realizzazione. E’ infatti un lavoro sempre delicatissimo e rischioso, perché si va a “toccare” qualcosa tanto intimo, quanto un ricordo d’infanzia/adolescenza, e tanto popolare da aver fatto investire tempo e denaro a milioni di persone, se si parla di opere di questo calibro.
Sarà riuscita, la miniserie Yu Yu Hakusho di Netflix disponibile dal 14 dicembre, a portare a termine degnamente questo delicatissimo compito?
Un ostacolo sempre molto grande, nell’adattamento dal vivo di manga e anime, soprattutto se longevi come quelli d’azione per ragazzi, sta nel riadattamento della trama entro i limiti di una serie tv o di un film: se con i fumetti occidentali basta fare un “collage” di storie ed elementi più o meno importanti a disposizione lungo decenni di pubblicazione (in una struttura che per molto tempo è stata autoconclusiva), cercando di ottenere un risultato (non sempre) soddisfacente, e con i videogiochi spesso c’è molta più libertà d’azione o una storia ben definita ma comunque più breve, il manga seriale fa del prolungamento narrativo e del centellinare degli eventi una necessità che diventa virtù, data la cadenza di pubblicazione settimanale in un numero di pagine relativamente elevato.
Così facendo, archi narrativi e combattimenti raggiungono livelli di epicità memorabili, perché accompagnano i lettori per lungo tempo, sia che ne fruiscano settimanalmente, sia che leggano le vicende ogni tot. mesi in volume.
Il problema è, appunto, come tradurre tutto questo in una serie da cinque, dieci, dodici episodi da un’ora o, cosa ancora più difficile, un film di due ore: quali personaggi ed eventi tenere, quali tagliare, quali ridimensionare e a quali dedicare particolare enfasi?
È necessaria una buona conoscenza dell’opera originale per prendere le decisioni giuste sotto questo punto di vista, ritrovandosi a fare gli equilibristi tra centinaia di capitoli, centinaia di personaggi, centinaia di eventi, combattimenti e scene memorabili (queste magari non centinaia, ma comunque tante).
L’adattamento dal vivo di Yu Yu Hakusho, per la regia di Shō Tsukikawa si ritrova con un’enorme gatta da pelare, cercando di condensare una larghissima fetta degli eventi più importanti dell’opera originale in cinque episodi da cinquanta minuti, e lo fa dimostrando un’enorme abilità nel giocare a Tetris, visto che riesce ad incastrare eventi e personaggi chiave qui e là cercando di mantenere quanta più fedeltà possibile all'opera originale.
Il rischio di pasticci e delusioni varie era enorme, ma per fortuna è stato scampato: pur rimescolando eventi e personaggi e condensando fortemente le vicende originali, questa reinterpretazione in carne e ossa dell’opera di Yoshihiro Togashi riesce a mantenere perfettamente intatto lo spirito dell’originale e tutti i suoi elementi cardine amatissimi dai fan, in un certo senso bissando l’ottimo lavoro di un altro adattamento dal vivo di una colonna del Jump anni ‘90: la serie di film dedicata a Rurouni Kenshin, casualmente anch’essa disponibile su Netflix benché inizialmente nata per il cinema, e, un po' meno casualmente, serie di film che condivide con questo Yu Yu Hakusho il direttore delle scene d'azione, Takahito Ouchi.
Avere a disposizione una trama consolidata e saperla adattare con capacità non è, però, tutto, quando si parla di realizzare un adattamento live action: serve, infatti, essere anche capaci negli elementi base della cinematografia e della televisione.
La prima cosa a saltare all’occhio sono i piani sequenza: diverse scene chiave sono realizzate senza stacchi, e, indipendentemente da quanto uso della CGI sia coinvolto nella loro realizzazione, il risultato è indubbiamente spettacolare. Scene di combattimento o, comunque, chiave, rendono molto bene con questo tipo di tecnica, molto complicata da realizzare soprattutto quando si tratta di scene d’azione, ed è palese che attori ed eventuali stuntmen si sono impegnati a fondo per realizzare sequenze convincenti; peraltro, questo tipo di sequenze ricorda sia le scene d’azione più spettacolari di molti anime shōnen moderni, sia le origini di Yu Yu Hakusho in formato televisivo, visto che lo Studio Pierrot, notoriamente d’alto livello sul lato tecnico, non solo ha animato divinamente la serie anime originale, ma a sua volta faceva ampio uso di piani sequenza in una delle sue prime opere importanti, ovvero Lamù/Urusei Yatsura. In quest’ultimo, però, questo tipo di scene era, naturalmente, più legato a situazioni comiche che a momenti concitati.
Anche la fotografia regala momenti decisamente interessanti, con un uso dei colori piuttosto variegato che permette di rendere ottimamente atmosfere diverse, e un paio d’inquadrature decisamente evocative e degne di nota. E, a proposito di questo, il modo in cui sono stati resi l’aldilà e il mondo demoniaco è decisamente impressionante, sia da un punto di vista strutturale che d’atmosfera, e certe scene (soprattutto una sul finale) meritano davvero un plauso per quanto riescano ad essere scenografiche e d’atmosfera.
A proposito di cose impressionanti, in quanto adattamento di un manga di Yoshihiro Togashi, inevitabilmente Yu Yu Hakusho ha scene di una violenza notevole, che non sono state affatto edulcorate in questa versione live action, cosa che, per certi versi, colpisce parecchio, ma sempre in positivo.
Non è tutto brutalità e distruzione, però: diverse sequenze più tranquille e silenziose aiutano tantissimo a dare maggiore equilibrio a un’opera che, per forza di cose, necessita di parecchie scene d’azione, e anche questo sa essere decisamente apprezzabile.
Un ultimo plauso va alla colonna sonora: i brani che fanno da sfondo alle vicende, e soprattutto agli spettacolari combattimenti, sanno supportare ottimamente quanto avviene su schermo e riescono a farsi ricordare anche a episodio concluso, elemento che, in qualsiasi opera dotata di sonoro, non va mai sottovalutato.
Se proprio gli si volesse trovare un difetto, che è tanto evidente quanto diffuso negli adattamenti live action anime, questo sta in un elemento imprescindibile per una serie d’azione per ragazzi anni ‘90: i capelli colorati dalle forme più disparate.
Se quelli di Keiko sono sin troppo normali (ma almeno, nella sua “normalità” si distingue dai matti che ha intorno…), quelli di altri personaggi, soprattutto Yukina, non nascondono il loro essere parrucche, e magari questo lato poteva essere curato un po’ di più, proprio perché è un difetto comunissimo di questo genere di operazioni.
Croce e delizia di ogni adattamento live action che si rispetti, il casting dei personaggi è sempre estremamente delicato, perché, soprattutto in opere spesso dalle tendenze fantasiose o caricaturali come i manga, risulta molto difficile trovare attori veramente somiglianti, e una buona fetta del lavoro la fa la recitazione.
Già esperto nell’interpretare teppisti da manga shōnen, in quanto protagonista degli adattamenti live action di Tokyo Revengers (ma tra Takemichi e Yusuke di differenze caratteriali ce ne sono tante…), Takumi Kitamura ci offre uno Yusuke Urameshi taciturno, svogliato, schivo ma anche energico, virile ed esplosivo, esattamente come dovrebbe essere: tra pose “da bullo” e scazzottate, il nostro eroe riesce benissimo ad assomigliare alla sua versione “su carta”, seppur le sue avventure, qui, siano molto più brevi.
Con un cognome così, Shūhei Uesugi non poteva che interpretare l’altro teppista dal cuore d’oro della compagnia, Kuwabara.
Costumi ed effetti speciali a parte, Kuwabara era probabilmente il più complicato del quartetto da trasporre, per via del suo look molto caricaturale nell’opera originale: seppur un po’ ridimensionato, però, Kuwabara rende, un po’ perché l’attore ci mette del suo nel renderlo un personaggio tanto divertente quanto coraggioso, un po’ perché quegli zigomi selvaggi li ha per davvero.
Dai tratti così delicati da fargli meritare una doppiatrice donna sia in originale (Megumi Ogata) sia in italiano (Dania Cericola), Kurama necessitava di un attore in grado di riprodurne il look androgino, e Jun Shison si è dimostrato all’altezza del compito: la dualità del personaggio, tanto gentile e bello quanto privo di mezze misure in combattimento, era fondamentale perché la sua trasposizione riuscisse bene, e per fortuna si è centrato in pieno l’obiettivo.
Anche se solo di un paio di centimetri, Kanata Hongō riesce comunque ad essere il più basso della compagnia, e con questo metà del lavoro per il personaggio di Hiei è fatto.
In realtà, dei quattro personaggi principali, il suo è forse quello che qui spicca di meno, non tanto per mancanze dell’attore o difetti di gestione, quanto per il carattere del personaggio stesso, sempre schivo, isolato e immerso nei suoi pensieri.
Da questo punto di vista, però, si può dire che sia comunque perfettamente riuscito, anche perché i suoi momenti, pochi ma importantissimi, li ha eccome.
Per quel che riguarda i personaggi secondari, qualche interpretazione degna di nota: i fratelli Toguro, seppur supportati da parecchi effetti speciali per via delle loro fisicità particolari, riescono ad essere decisamente convincenti, e se il minore, algido e granitico, non necessita di particolari acrobazie recitative (anche perché è perennemente nascosto dietro i suoi occhiali da sole…), il maggiore buca decisamente lo schermo con la sua personalità sopra le righe e giustamente detestabile.
La somiglianza di Tarukane con il Padrino di Marlon Brando è eccezionale, e aiuta tantissimo a dare quella sensazione di “manga dal vivo”, come pure il povero Keita Machida che avrà dovuto recitare tutto il tempo col ciuccio in bocca nel ruolo di Koenma, assolutamente non danneggiato dalla comprensibile assenza della sua forma “neonata”.
Per quanto non sia nuova a opere incentrate sull’azione, l’interpretazione della maestra Genkai da parte di Meiko Kaji risulta notevole dall’alto dei suoi 76 anni, dando per scontato che molte delle scene più concitate siano state realizzate da una controfigura; le sue apparizioni in forma giovane, invece, hanno tutta l’aria di un lavoro di deep fake, ma sono talmente brevi e “particolari” da non stonare eccessivamente.
Ultima, perché degna di chiudere in bellezza questa carrellata, è Kotone Furukawa su Botan: la foto personaggio rilasciata prima dell'uscita della serie non rende assolutamente giustizia all'interpretazione dell’attrice, che dona a Botan la stessa personalità allegra e divertente che un personaggio colorato ed energico, con quello spirito di “ragazza scesa dal cielo per scombinare la vita del protagonista” - erede ancora una volta di Lamù - può avere solo in un anime.
Le mancano solo gli occhi a U rovesciata quando sorride perché la realtà non è un anime anni ‘90, ma tutto il resto c'è e buca lo schermo, compreso il modo di tenersi le maniche del kimono con le mani tipico del personaggio. Manca il remo, ma si fa perdonare molto facilmente.
Nota italica finale per il più che buon doppiaggio romano, con un giusto equilibrio tra voci emergenti e colonne del calibro di Marco Vivio.
C’è, però, un ultimo fattore determinante nella realizzazione di un adattamento live action, essenziale specificatamente per questo genere di opere: il cuore.
Non basta trasporre una vicenda in modo più o meno fedele, è fondamentale dimostrare ai fan, giudici impietosi di questo genere d’operazioni, d’aver “studiato”, di conoscere, comprendere e possibilmente amare l’opera in questione; talvolta, il cuore messo in una trasposizione dal vivo può essere la spina dorsale di un adattamento, si veda il recente caso di One Piece.
Di cuore, in Yu Yu Hakusho e in quello che rappresenta, da un punto di vista storico ed emotivo, ne è stato messo parecchio: riferimenti e strizzate d’occhio sono relativamente facili da inserire, quello che fa la differenza è il rispetto verso il ruolo che l’opera originale (cartacea o animata) ha nell’immaginario collettivo, nella “cultura”.
L’opera originale di Yoshihiro Togashi è profondamente figlia di quelle serie anni ‘80 piene di tornei con i personaggi più bizzarri a fare da avversari ai protagonisti, da Kinnikuman a Dragon Ball, da Capitan Tsubasa (magari meno violento ma non meno intenso) a Classe di Ferro/Sakigake!! Otokojuku, ma non si limita a fare “il tassello nel mosaico”, elevando ed evolvendo il genere in un periodo, quello degli anni ‘90, in cui di tornei e combattimenti ce n’erano tantissimi sia in televisione, che su carta, che in sala giochi.
Nonostante il look e la piattaforma di fruizione modernissimi, l’adattamento dal vivo di Yu Yu Hakusho by Netflix riesce particolarmente bene a restituire un’atmosfera “vecchio stile”, grazie a riassunti delle puntate precedenti narrati a voce, a una non-modernizzazione dell’ambientazione, e se non c’è il tempo materiale per un gigantesco torneo a squadre in un’enorme arena nel mondo demoniaco, il modo in cui è strutturata la trama permette comunque numerosi e spettacolari combattimenti sopra le righe in ambientazioni ora più, ora meno realistiche che ricordano tantissimo Mortal Kombat ‘95 e questo, per un amante dell’opera, della “cultura” che ci sta dietro e del periodo storico in cui non è solo incastonata, ma ne costituisce una delle gemme più splendenti, è veramente tantissimo.
È relativamente facile mettere la musica giusta al momento giusto, ma capire lo spirito, il significato, e l’importanza storica di un’opera è qualcosa di molto più avanzato, e significativo, e in Yu Yu Hakusho in versione live action, seppur in poco tempo, c’è tutto quello che si desidera da un adattamento dell’opera di Yoshihiro Togashi, tutto ciò che viene in mente appena si rivolge il pensiero alla serie, magari in modo riassuntivo, ma indubbiamente fedele, tanto che alcune scene sono state riprodotte dall’opera originale in maniera quasi maniacale.
Nonostante esistano quasi da quanto esiste il fumetto stesso, gli adattamenti live action hanno avuto un’impennata quantitativa solo in anni molto recenti, per fortuna accompagnati da uno standard qualitativo (quasi) sempre altrettanto alto; il Giappone ci si è tuffato a pesce, avendo numerosissime, amatissime fonti da cui pescare, con alterne fortune, esattamente come accade ai colleghi occidentali.
L’adattamento live action di Yu Yu Hakusho è breve, intenso e profondamente sul pezzo, riuscendo nella non facile impresa di tagliare molto ma di restituire l’essenza dell’opera nella sua interezza, facendo quasi pensare che un proseguimento non sia realmente necessario.
Per i fan di Shōnen Jump con un occhio di riguardo per i telefilm è stato un autunno che si è aperto (sorprendentemente) bene e si è chiuso anche meglio, facendo ricordare ai suoi fan perché amano così tanto le avventure di Yusuke, Kuwabara, Kurama e Hiei grazie a una trasposizione capace di rinsaldare rapporti solidissimi iniziati, per noi italiani, poco più di vent’anni fa tra televisione e edicola.
Per i fan di Shōnen Jump con un occhio di riguardo per i telefilm è stato un autunno che si è aperto (sorprendentemente) bene e si è chiuso anche meglio, facendo ricordare ai suoi fan perché amano così tanto le avventure di Yusuke, Kuwabara, Kurama e Hiei grazie a una trasposizione capace di rinsaldare rapporti solidissimi iniziati, per noi italiani, poco più di vent’anni fa tra televisione e edicola.
Pro
- Grande fedeltà e rispetto per l’opera originale
- Ottimo comparto tecnico e registico
- Attori molto calati nelle parti e ben scelti
- Conciso ma preciso
- Doppiaggio molto buono ed equilibrato
Contro
- Per alcuni può essere troppo riassuntivo
- Alcuni personaggi secondari lasciati tristemente da parte
- Alcune palesi parrucche nonostante la buona resa dei costumi
Ma và LOL, manca solamente il 90% della storia di Yu Yu Hakuso in questo live action, un inezia LOL
Il manga di Yu Yu è enormemente meglio di questo live action.
Davvero complimenti per la bellissima analisi
A me la serie è piaciuta e sì conosco bene il manga e l'anime, quindi dovrei essere più una purista che non una spettatrice casuale. Ma proprio perché seguo anche un po' di tv e cinema giappo che si ispira ai manga, so bene quanto, purtroppo, questi medium impongano di riassumere gli eventi, a volte poco, a volte tanto. Forse nel caso di Yu Yu si poteva fare meglio? Chissà, forse sì, con più budget, volontà, coraggio o qualunque cosa sia in parte mancata. Però me lo son goduto lo stesso perché è servito semplicemente a dare una rispolverata a dei personaggi che conosco e a vederli in una nuova veste. Penso che gli attori siano stati davvero bravi, e penso anche che i giappi stanno migliorando con gli effetti speciali! 😝 L'essenza dei personaggi l'ho ritrovata, certo so che ci sarebbe molto di più da mostrare ma in questi casi, per me, l'importante non è tanto non omettere quanto non snaturare. E questo live action ha omesso ma non ha snaturato, quindi per me è stata una piacevolissima visione.
ottima recensione
Non è una piccola inezia l'aver tagliato il 90% della trama, anzi è un grosso difetto. I personaggi non sono stati sviluppati per niente e non c'è tempo di affezzionarsi ad essi. Sebbene ci siano alcune cose positive sicuramente non esiste alcuna "fedeltà all'opera originale" se non nella prima puntata e non ci sono "attori molto calati nelle parti e ben scelti". Non c'è nulla di "preciso".
Se vogliamo parlare di nostalgia quella era l'epoca dei tornei di arti marziali negli anime, degli scontri uno contro uno, del riscoprire se stessi e diventare sempre piú forti crescendo (alla jump per capirci)... Dov'è tutto questo?
Per cortesia non scriviamo recensioni positive solo perchè proviamo nostalgia. Ricordo ancora quando uscí il primo star wars della disney e io ero l'unico a dire che faceca schifo, mentre il resto del mondo era sopraffatto dalla nostalgia. Poi la critica settimane dopo disse che non era di grande qualità e tutti cambiarono idea...
Vi informo che io mi metteró a fare un live action sui 5 samurai con armature di cartapesta, tanto ci sarà sicuramente qualcuno che dirà che è fantastico per via della nostalgia. Aspettate la mia serie
Sin dai primi trailer avevo detto che era più o meno ciò che mi aspettavo da un adattamento live action di Yu Yu Hakusho, e più o meno così è stato, al netto di lamentele squisitamente personali e senza senso perché la realtà (ahimé) non è un anime anni '90 (cit.) e quindi le bellissime ragazze dai capelli colorati degli anime sono giapponesi qualunque coi parrucconi colorati. Giusto sui Keiko (penalizzata da un taglio di capelli non suo e da una voce diversa da quella di Alessandra Karpoff che le fa perdere diecimila punti fascino), i Toguro (il maggiore nell'opera originale era un belloccio, qui è Ozzy Osbourne + Tremotino di Once Upon a time, ma è schifido uguale, il minore è identico e bellissimo fintanto che è nella forma base, ma la trasformazione è oscena, non è nemmeno la sua forma finale e rimpiango che non ci sia Taichi Shimizu nel ruolo, perché sarebbe stato perfetto) e Hiei (troppo alto ma comprensibilmente è troppo poco caricaturale) non mi sono piaciuti al 100%, ma in generale gli attori sono tutti in parte, gli effetti speciali sono ben fatti, le scene di combattimento fantastiche e i personaggi ci pigliano molto: in particolare Botan è carinissima, Sakyo è il classico salaryman cattivo che se la tira uscito da Kamen Rider e rende molto bene, e Tarukane (il cui attore è effettivamente uscito da Kamen Rider) è fenomenale nel suo dare un sacco di spessore attoriale a quella che nel manga era una macchietta, e qui lo è altrettanto ma col 200% di papponaggine in più.
La storia cerca di rimescolare le varie saghe del manga, togliando, cucendo e riadattando, dà una certa continuità a vicende che nel manga erano scritte un po' alla buona di settimana in settimana, ma purtroppo il formato di soli cinque episodi fa saltare diverse cose e a farne le spese sono i rapporti fra i personaggi, che non hanno avuto il tempo materiale di conoscersi (e quindi personaggi come Hiei sono un po' sacrificati e la sorte di Genkai è molto meno d'impatto dato che i personaggi a stento la conoscono). Uno o due episodi in più avrebbero risolto il tutto, ma anche così è dignitoso, fedele allo spirito del manga e dell'anime originale (una certa canzone che spunta a tradimento dall'autoradio nel primo episodio mi ha fatto dipingere un sorriso da un orecchio all'altro) e soprattutto ha un'aria estremamente vintage nella sua realizzazione, tanto da far sembrare che abbiano riutilizzato il set di Mortal Kombat del 1995 per certe cose, e per un'opera che deve essere anni '90 il più possibile questo è indubbiamente un pregio.
Vorrei una seconda stagione? In realtà no, il bello è già stato mostrato, da qui in poi l'opera originale comincia a scricchiolare e ad avventurarsi in terreni che è meglio dimenticare, quindi è bene non rivangarli. Non raggiunge la mia sacra triade dei live action Otouto no otto/Kochikame del 2009/Otoko Juku, ma mi ha fatto divertire e va benissimo così.
Devi eseguire l'accesso per lasciare un commento.