Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

-

“La parola più bella sulle labbra del genere umano è senza dubbio “Madre”
- Khalil Gibran

I fili dell’ordito sono il tempo che scorre
Cambiano le stagioni e tingono il cielo del suo colore
I fili della trama sono le azioni delle persone
Calcano la terra e scuotono l’animo


Una narrazione quasi biblica da profondi richiami mitologici ci prende delicatamente per mano e permette sin da subito di fare la conoscenza con gli Iolph, creature dalla vita praticamente eterna, che crescono fisicamente sino ad assumere l’aspetto di adolescenti o giovani adulti, per poi protrarre tale stato di grazia sino alla fine dei tempi. Per motivi dinastici e soprattutto etici, a tale razza che sovente ricorda gli elfi tolkeniani dell’epica fantastica è severamente vietato allacciare rapporti con gli esseri umani, creature più istintive, inclini alla suscettibilità delle emozioni e dall’arco vitale della durata d’un soffio di vento; almeno è ciò che appare agli occhi di queste angeliche creature, gli Iolph appunto, intenti a trascorrere le loro serene, monotone giornate in una bucolica realtà dal sapore di racconti perduti e ruralità ancestrali, tessendo infiniti metri di seta ricamata come fossero parche, capaci di leggere fra l’ordito del tessuto esattamente come noi assimiliamo le pagine di un libro parola dopo parola.

Il lungometraggio ci introduce alle vicende con ritmo compassato e surreale, nella sua eterea semplicità. Le note che accompagnano le prime scene riportano a galla ricordi di pace sfiorati da punte di leggera malinconia, note magiche, pronte ad aprire a dialoghi aulici e sontuosi, narrazioni perdute che immergono lo spettatore sin da subito nella giusta atmosfera. Il popolo degli Iolph ha davvero tanti punti in comune con la prospettiva degli elfi eterni del miglior immaginario collettivo fantasy moderno, e il modo di “tessere le giornate”, tela dopo tela, appare quasi omerico, in attesa che qualcosa accada, che un Ulisse torni (da dove?), raccogliendo così le cronistorie del mondo, alba dopo alba, settimana dopo settimana, anno dopo anno.
Secolo dopo secolo.
Ma gli esseri umani, come spesso accade, sono invidiosi.
In particolare, il vicino impero di Marzate anela alla vita eterna e i suoi reggenti sono intenzionati a scoprire il segreto che permette agli Iolph di vivere indeterminatamente.
Essendo gli Eterni un popolo pacifico, si trovano impreparati di fronte a tale, inaspettata minaccia. Protagonista di questa vera e propria epopea esistenziale è Maquia, bellissima ragazza dai capelli color oro, all’apparenza appena quindicenne: assiste al rapimento di Lilia, una delle donne più importanti di tutto il popolo eterno, trascinata via dal nemico per portarla in sposa al principe, così da creare una dinastia di esseri umani sempre più vicini all’immortalità. Lilia, strappata ignobilmente dalle braccia dell’amato Krim, è per tutti una sorella maggiore, una guida spirituale d’infinita comprensione e saggezza, e nel tentativo di inseguirla, Maquia riesce ad aggrapparsi a uno dei draghi volanti di Marzate, bestie con cui gli invasori hanno sferrato l’incursione. In un volo rocambolesco e scavezzacollo, la ragazza si accorge che il drago la sta portando troppo lontano dalle terre che conosce, facendola precipitare in un bosco sconosciuto, lontano, oscuro, mortale, misterioso.
Un altro mondo, un’altra vita.
L’inizio di una nuova avventura.

È meglio aver amato e perso, che non aver amato mai
- Alfred Tennyson

Quando riprende i sensi, è accasciata e ferita accanto a una carovana di gente che è stata sterminata. Tutti... tranne il più piccolo: un neonato, salvatosi fra le braccia della madre, che, anche se straziante cadavere, ancora lo stringe con dita fredde ed espressione persa nell’oblio. L’impatto emotivo è immenso, ma la ragazza non può certo abbandonarlo laggiù... la chiave di tutto il racconto, racchiusa in un istante: una persona sola e smarrita, incontra un’altra persona sola, e smarrita. Raccoglie quel bambino come fosse il proprio destino, il proprio futuro, lo specchio di ciò che sarà rispetto a ciò che era stata fino a quel momento.
Da qui in poi, la storia, come ben si può intuire, racconterà le vicissitudini di una ragazza madre intenta a crescere un bambino a cui darà il nome di Erial, e che nel corso degli anni crescerà, imparerà e invecchierà, scoprendo che la bellissima ed eterea madre rimane cristallizzata, purtroppo o per fortuna, nell’aspetto di una bellissima, immortale adolescente.

Maquia è più che un semplice slice of life attraverso un’intera generazione di padri, madri, figli e nipoti.
La filosofia della vita spesso ci sfugge, perché, essendo appunto umani, ci concentriamo troppo sul presente, mettendo in secondo piano l’importanza del poi. Il ritmo assillante del quotidiano divora ogni pensiero a lungo termine, se non siamo noi stessi a fermarci un attimo e riflettere, a considerare ciò che davvero conta, a darci delle priorità prima che queste ci sfuggano da sotto il naso senza che ce ne rendiamo conto.
L’importanza degli attimi e dei rapporti che abbiamo con chi ci circonda, il valore che diamo all’esistenza e al tempo che passa e non torna indietro: sfumature che ci accomunano tutti, ragionamenti che, nostro malgrado, più si diventa adulti e consapevoli, ci interessano sempre più profondamente. Se Maquia vive in eterno, Erial e tutti i suoi amici non potranno usufruire di questo “dono”... sempre che di dono si tratti.
E qui, il parallelismo con il magico Frieren diviene semplice e istintivo: è davvero una fortuna vivere in eterno? Quanto può essere sopportabile dover dire addio a tutti i propri cari, uno dopo l’altro, nel corso dei decenni, dei secoli, di... chi sa quanto tempo? È possibile rimanere anestetizzati a tutto questo? Che tipo di dolore può mai essere questo, posto che nessun essere umano può provare tale esperienza?
Ecco perché gli Iolph non possono stringere rapporti profondi con le altre razze. Così come - in uno dei più celebri passaggi de “Il Signore degli Anelli” - Elrond di Rivendell mette in guardia Arwen dall’innamorarsi di Aragorn, pena il dolore eterno per la perdita dell’amato quand’egli invecchierà, gli Iolph hanno un veto che cerca di proteggerli dalle tragedie del cuore.
Prendere atto, accettare la fine della vita per chi non ne vede il termine dev’essere qualcosa di terribile. La realtà della morte è sempre atroce, per chiunque, si tratta di un giorno vago e lontano per tutti noi, e di certo inconsciamente tutti lo rifuggiamo, non vogliamo in nessun modo conoscere il momento di quando questo si realizzerà, poiché in cuor nostro, meno ne sappiamo, più indistinto e irreale ci sembrerà. Ma, se pensiamo che accadrà anche e soprattutto a chi amiamo, allora l’angoscia diventa disperazione.

Cos’è la vita? È davvero solo spazio, tempo, materia? Cosa è, davvero, la vita?
- Schrödinger

In una lenta ascesa d’emozioni e di pause riflessive, questo massiccio lungometraggio ci regala più volte vibe in stile Escaflowne, facendo trapelare addii e profonde riflessioni da cui non possiamo uscirne immuni: un monumentale inno alle infinite sfaccettature della maternità, e di come in tali casi tale istinto sia una sorta di surrogato della solitudine, un mondo a parte, un universo di sensazioni come un cielo buio che aspetta la propria stella.
“Maquia” ha uno sviluppo centellinato ma piacevole, il ritmo narrativo è pertinente, anche se qualche punto debole lo mostra soprattutto ignorando alcuni personaggi secondari che avrebbero dovuto forse ricevere più spazio (almeno nel finale). A parte piccoli, precipitosi nei e alcuni accadimenti che fortunatamente possono esser letti anche in maniera implicita per favorire la scorrevolezza narrativa, lo spettatore viene costantemente abbracciato da una colonna sonora fantastica, che fa da cornice a un comparto tecnico immenso. Le animazioni sono eccezionali, i disegni in generale davvero accattivanti e gli scenari a dir poco clamorosi, capaci di richiamare i titoli più amati fra giochi di ruolo nipponici e tavole illustrate di numerosi e blasonati autori.
Sfumature rustiche ci riportano alla memoria la bellezza dei vari Final Fantasy Tactics, la serie dei Tales of… e tante altre chicche che i videogiocatori più esperti e navigati ricorderanno sicuramente. Le strutture gotiche, fantasy e imperialistiche accentuano la grandezza del regno nemico, imbastendo un emozionante intreccio pregno d’una intensità che viene dettata coi giusti tempi.

È stato doloroso, è stato proprio doloroso, ma il mondo è bellissimo. Non posso dimenticarlo!

Da giovane fuggiasca, a madre adottiva, a tanto, tanto altro.
In fondo, è la vita: ognuno di noi vive le proprie esperienze inaspettatamente, e come diceva Oscar Wilde, la vita è l’insegnante più severo: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione!
“Maquia” è un cerchio, narra di separazioni, di addii inesorabili, allorché il tempo non si fermerà, avanti, sempre avanti senza arrestarsi, poiché questa è la vita, e se anche spesso ci guardiamo indietro nostalgicamente, è avanti a noi che dobbiamo guardare e concentrarci. Dal punto di vista degli Iolph, affezionarsi ai mortali è una maledizione, ma, al tempo stesso, un viaggio indimenticabile e pieno di emozioni. E l’epilogo, che tanto ci ricorda il dolcissimo, straziante paradosso dell’indimenticato Interstellar di Cristopher Nolan, costringerà lo spettatore a mettere mano ai fazzoletti più di una volta. Colpi di scena si susseguono in un climax fra luci distanti e cieli sconfinati, ma la bellezza del finale va assaporata nel ritmo compassato post caos (non perdetevi la chicca al termine dei crediti!)

Di separazione in separazione, questa è la vita.
Per quanta sofferenza si possa provare, per quanta tristezza si debba sopportare, ogni esperienza vale sempre e comunque la pena di essere vissuta al suo massimo: solo incrociando i nostri destini coi destini degli altri riusciremo a carpire il vero significato della solitudine. Solo chi assapora la sofferenza comprende davvero la gioia, ma mai e poi mai essa sarà un motivo per rinunciarvi: ogni attimo ne ripaga sempre il costo.

Un lungometraggio che è già stato assimilato da molti appassionati come un capolavoro moderno, più vicino al nostro cuore di quanto si possa immaginare. Regalatevi due ore di dolce terapia: guardatevi “Maquia”.

-

“Sapevo che gli umani non vivono a lungo…
perché non ho cercato di conoscerlo meglio?”


“Frieren - Oltre la fine del viaggio”, in giapponese “葬送のフリーレン” (Sousou no Furīren), è l’adattamento animato dell’omonimo manga nato dalla penna di Kanehito Yamada e dall’inchiostro di Tsukasa Abe, opera che ha goduto di un ampio successo sia in Giappone sia all’estero tanto che, se siete un minimo appassionati di animazione giapponese, è quasi impossibile che non l’abbiate sentita almeno nominare.
Invero, negli ultimi anni l’animazione del Sol Levante si è caratterizzata per il proliferare di un brulicante sottobosco di titoli fantasy dalla discutibile qualità e, soprattutto, della cui necessità si può del tutto legittimamente dubitare; ebbene, certamente “Frieren” non appartiene a quest’ultimi, costituendo invece una deliziosa sorpresa per lo spettatore. "Frieren", infatti, si presenta come un’opera particolare già dalla premessa della storia, la quale inizia lì dove solitamente le storie finiscono: alla fine del viaggio dell’eroe, al suo ritorno a casa dopo aver sconfitto il proprio nemico e adempiuto la propria missione.
Ma andiamo con ordine.

Partiamo dal titolo dell'opera, il quale cela un doppio significato: l’espressione “葬送” (Sousou) indica, letteralmente, l’atto di partecipare alle esequie di un defunto, tuttavia può assumere anche la sfumatura di “accompagnare alla tomba” e, in questo senso, “uccidere”, di talché “Sousou no Frieren” in italiano può essere reso sia con “Frieren al funerale” e/o, anche, con “Frieren la sterminatrice”.
Lungi dal limitarsi ad essere un mero gioco di parole, l’ambiguità semantica del titolo è strettamente correlata e intrecciata con i topoi narrativi propri della serie e costituisce una chiave di lettura per l’intera opera, oltre che il perfetto primo passo per addentrarsi nell’analisi dei contenuti di questa bellissima serie.

Il primo significato del titolo ("Frieren al funerale") è legato al fatto che Frieren è un’elfa e, in quanto tale, immortale (o, in ogni caso, incredibilmente longeva); per tale ragione è destinata ad assistere alla morte della maggior parte delle persone, umane e quindi mortali, con cui interagisce e con le quali stringe dei legami, che siano questi di amicizia o di amore.
Tale circostanza pone Frieren in una differente “dimensione” esistenziale rispetto alle altre persone: la vita della maga è infatti segnata dalla solitudine e dall’oblio, in quanto Frieren è destinata ad attraversare i secoli e i millenni sostanzialmente da sola, tutte le persone che la conoscono, infatti, sono destinate a morire e lei a venire ogni volta dimenticata.
La serie tratta questa tematica in modo molto delicato, dolce e malinconico, ponendo l’accento della riflessione sull’importanza e il significato che le relazioni con gli altri rivestono per la nostra vita ed esistenza e su quanto spesso, molte volte per abitudine, diamo per scontato ciò che scontato non dovrebbe essere.
Nello stesso errore cade la protagonista della serie, la quale finisce per non dare il giusto valore e attenzione alla propria relazione con Himmel. Non a caso, infatti, l’ossatura centrale, nonché vero e proprio fil rouge lungo cui si dipana tutta l’affabulazione della trama, è il viaggio che Frieren compie per poter re-incontrare il fantasma di Himmel. Unicamente il fatto di aver perso il suo compagno ha portato la maga a realizzare non solo l’importanza del legame che aveva con lo stesso, ma, altresì, che nei dieci anni in cui i due avevano viaggiato assieme, e anche successivamente, lei lo aveva conosciuto (e, soprattutto, cercato di conoscere) ben poco, in un certo senso “sprecando” il tempo che avevano avuto a disposizione insieme. Spinta da questo rimpianto, quindi, Frieren principia il proprio viaggio nella flebile speranza di poter recuperare il tempo perduto, alla ricerca di Aureole, una sorta di paradiso, terra fisicamente esistente dove si narra trovino riposo le anime dei morti. Questo per lei sarà un percorso quasi “terapeutico”: ripercorrere le tappe del suo vecchio viaggio, allora intrapreso per uccidere il Re Demone con i suoi compagni, l’aiuterà a risolvere i propri dilemmi interiori.

Tale considerazione ci porta, poi, a un altro argomento correlato all’immortalità, ovvero il valore del tempo e la percezione del tempo.
Frieren è, dicevamo, immortale e, pertanto, la sua percezione del tempo è completamente diversa nonché sfasata rispetto a quella degli esseri umani: ciò che per un comune essere umano costituisce un lunghissimo ammontare di tempo per Frieren è, all’opposto, un battito di ciglia. Ciò porta la maga a non accorgersi che, invece, per i suoi compagni il tempo passa eccome, scandendo inesorabile il fato degli uomini.
Frieren, dunque, stenta a comprendere perfettamente i sentimenti degli esseri umani e, più in generale, il modo umano; questo perché vive e ragiona in una dimensione sostanzialmente atemporale e semi-alienata, in parte dovuta alla sua solitudine da immortale e in parte causata dal fatto stesso che ciò che definisce gli esseri umani è proprio la brevità delle loro vite (e quindi la scarsità di tempo), nonché la paura della morte, concetti a lei del tutto estranei. Per tali ragioni, il viaggio che Frieren intraprende è anche un viaggio volto al tentativo di comprendere i sentimenti e la dimensione umana.
Ma il tempo gioca un altro ruolo cruciale nella narrativa di “Frieren”, infatti il tempo porta con sé il mutamento, l’evoluzione e il progresso, il tempo perciò può anche essere usato, da chi è immortale, indirettamente come un’arma. A tal proposito si rivela esemplare il caso del demone Qual, creatore della magia Zooltrak: un tempo temuto e potentissimo stregone, che non poteva essere sconfitto, è stato sigillato e intrappolato da Frieren e dalla sua compagnia, per poi essere definitivamente annientato decenni più tardi, quando il progresso e lo sviluppo della teoria magica e dello studio degli incantesimi avevano ormai consentito di scovare il modo per neutralizzarlo.

Per quanto riguarda, poi, la narrazione e come questa si intreccia con le tematiche trattate, per certi versi “Sousou no Frieren” appalesa diverse affinità con il modus procedendi di “Aria”, di Kozue Amano. Entrambe le serie, infatti, strutturano la propria narrazione attorno a un ritmo molto lento e un’atmosfera trasognata “che ispira all'animo tranquillità e letizia, mettendo a proprio agio lo spettatore, prendendolo gentilmente per mano per accompagnarlo in un viaggio la cui meta è non la scoperta di un nuovo mondo, ma la riscoperta del mondo o, se vogliamo, la scoperta di un nuovo modo di vedere le cose”, citando la mia recensione del manga di “Aria”.
Entrambe le opere condividono, mutatis mutandis, la medesima “filosofia” di fondo: il valore delle cose apparentemente banali, di tutti i giorni, un valore che normalmente è invisibile agli occhi delle persone a causa dell’abitudine e della routine, ma che, nondimeno, è importantissimo per apprezzare e realizzare la propria vita. Concetto che si riflette, per esempio, nella predilezione di Frieren per le magie più banali e inutili, nonché nel suo aiutare le persone nelle loro piccole faccende quotidiane, sull’esempio dell’eroe Himmel. Tali azioni non sono poco importanti, sebbene riguardino faccende che apparentemente possono sembrare tali, perché sono proprio quelle che verranno, poi, ricordate con più gratitudine e gioia dalle persone. Tale filosofia si rispecchia anche nella vicenda di Frieren, che si rende conto di non avere dato il giusto valore alla propria relazione con Himmel.
Alla luce di quanto sopra espresso, è chiaro che Frieren non si presenti come un’opera d’azione, sebbene, e questo lo vedremo più avanti, non mancheranno i momenti di combattimento, i quali sono davvero ben realizzati e spettacolari.
Tuttavia, la narrazione che caratterizza l’opera rimane più affine ad uno “slice of life” riflessivo e posato.

Un altro riferimento, questa volta letterario, che balza all’evidenza una volta considerate le tematiche di “Sousou no Frieren”, è “Il Signore degli Anelli” e, di conseguenza, il notevole corpus mitopoietico che costituisce il cosiddetto Legendarium partorito dal genio di J.R.R. Tolkien. Tematica cardinale dell’opera tolkeniana, infatti, è proprio quella legata al significato della morte e il suo rapporto con l’immortalità, topos su cui il professore di Oxford da sempre si è interrogato.
Nell’epica tolkeniana una delle storie che incarna maggiormente la tematica del rapporto mortale/immortale è quella di “Beren e Luthien”, la quale racconta (in estrema sintesi) di un amore impossibile tra un uomo (mortale) e un’elfa (immortale). Tolkien, tuttavia, tratta le proprie tematiche in modo assai più tragico e amaro (almeno per ora) rispetto all’opera oggetto di questa recensione, sebbene sempre malinconico. Mentre le vicende di Frieren afferiscono al viaggio terapeutico della maga, che segue il proprio rimpianto per risolvere i propri irrisolti interiori e capire meglio sé stessa, la storia di Luthien riguarda più da vicino la natura stessa della vita e del destino. Luthien, per amore di Beren, rinuncia alla propria immortalità, anzi, più precisamente e tragicamente, Luthien rinuncia alla propria stessa natura elfica, per intercessione di Manwë (e, suo tramite, di Iluvatar), commosso dalla sua triste storia. Infatti, nel mondo di Tolkien, quando gli elfi muoiono, non muoiono nello stesso modo in cui lo fanno gli uomini: i loro spiriti migrano nelle aule di Mandos, da cui con il tempo possono tornare. Gli spiriti degli elfi rimangono quindi legati alla Terra di Mezzo. Mentre gli uomini, quando muoiono, muoiono “veramente”, nel senso che il loro spirito lascia la Terra di Mezzo, per andare in un posto sconosciuto anche ai Valar e noto solo a Iluvatar. Secondo alcune versioni, quindi, Luthien, è la prima elfa a morire di morte “vera”, e ciò per poter seguire il suo amato verso il fato degli uomini. La storia di Beren e Luthien verrà poi riflessa nella storia di Arwen e Aragorn, che avrà anch’essa un epilogo amaro.
Mi si perdoni per aver aperto una parentesi fin troppo lunga su Tolkien, che non è strettamente legato all’opera in analisi, ma il collegamento è, a mio avviso, degno di menzione.

Il secondo significato del titolo, invece, è legato al fatto che Frieren non è una maga qualsiasi, bensì una delle studiose di magia più potenti e pericolose attualmente in circolazione, la quale ha contribuito a sconfiggere il Re dei Demoni.
E infatti i demoni la chiamano “Sousou no Frieren” nel senso, questa volta, di “Frieren la sterminatrice”, poiché la temono in quanto ha “accompagnato” innumerevoli demoni alla tomba.
Questo aspetto ci permette di parlare di un altro lato di "Frieren" che finora è stato solo brevemente menzionato: i combattimenti.
Del tutto inaspettatamente, “Sousou no Frieren”, a dispetto della propria natura orientata più nella direzione dello “slice of life”, presenta dei combattimenti estremamente curati e ben pensati. Gli scontri con i demoni non sono mai banali e, anzi, nell'approssimarsi verso la conclusione dell’opera diventano finanche epici ed estremamente godibili. A tutti gli effetti lo scontro finale rappresenta un po’ l’apice emotivo della serie, sebbene non la sua conclusione (e infatti non avviene nell’ultimo episodio). A mio avviso l’azione è sapientemente dosata in tutto il corso della narrazione in un avvicendarsi con i momenti distensivi e riflessivi, e il risultato è un amalgama diegeticamente alquanto bilanciata e convincente.
Unico neo, a mio parere, è il fatto che in alcuni punti della storia, in particolar modo nella fase centrale della serie, il ritmo forse rallenta eccessivamente, per dare spazio ad alcuni eventi leggermente ripetitivi e un po’ anonimi, senza con ciò tuttavia pregiudicare troppo il ritmo della narrazione e, quindi, il giudizio complessivo.

Anche sul lato tecnico la serie splende, presentando animazioni fluide, fondali meravigliosi e musiche pregevolissime e coinvolgenti. La confezione di "Sousou no Frieren" è incantevole, un vero e proprio gioiellino per gli occhi.

Per concludere, “Sousou no Frieren” è una serie molto piacevole, originale, che tratta temi interessanti e, a tratti, dotati di un certo spessore e profondità, tuttavia senza mai risultare troppo pesante, ma, anzi, esponendo le proprie tematiche con sapiente delicatezza. Ne consiglio la visione a chiunque.

-

"Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte". (Muriel Barbery - L'eleganza del riccio)

"Hotarubi no Mori e" ("Into the Forest of Fireflies Light") riesce a condensare e a far cogliere in circa tre quarti d'ora la descrizione dell'attimo della felicità, della bellezza e, credo di non esagerare, dell'essenza della vita.

Metaforicamente molto orientale, "Hotarubi no Mori e", porta già nel titolo l'essenza della trama. Traducibile come “Nella foresta della luce delle lucciole” è un delicato affresco dell'apparente effimero come la flebile ma suggestiva luce delle lucciole in una calda notte di mezza estate (per coloro che hanno ancora la fortuna di riuscirle a incontrarle)...

Mi spiego meglio. Ho scoperto da tempo che in Giappone esiste un concetto estetico piuttosto conciso che potrebbe riassumere questo medio metraggio: "Mono No Aware" ossia "la sensibilità delle cose transitorie”.

Il suo significato potrebbe essere descritto come il sentimento di dolce tristezza che coniuga l’apprezzamento verso la bellezza di qualcuno o qualcosa e la malinconia per la consapevolezza che è destinata a svanire nel breve.
Penso a molte altre opere in cui tale concetto appare come il leit motiv del film, della serie o del manga. Mi riferisco, ad esempio, alla simbologia del periodo di fioritura del sakura (fiore di ciliegio) durante la primavera in Giappone: la magia e l'incanto della fioritura dei fiori di ciliegio rappresenta metaforicamente la storia di amicizia e poi di amore narrata in questo film: la bellezza e la poesia dell'effimero e del transitorio.

In "Hotarubi no Mori e" l'ostacolo al pieno godimento della felicità dell'interazione tra i due protagonisti, Hotaru e Gin, è rappresentata dalla particolare natura di Gin che è uno yokai (spirito) semi umano (per origine) che vive nella foresta e che non può interagire "fisicamente" con l'umana Hotaru.

Differentemente da altre opere che ho potuto vedere ed apprezzare, più realistiche ma anche più strazianti, "Hotaru no Mori e" è una favola, malinconica e delicata che pone lo spettatore in modo allegorico di fronte alla caducità e ai limiti della esistenza umana e delle passioni e dei sentimenti che la animano e la caratterizzano.

Potrebbe sorgere l'interrogativo se la sua tenerezza fiabesca, possa essere approcciata e interpretata solo con gli occhi di un bambino, che è per antonomasia l'immagine della purezza e della spontaneità di cuore e di anima.

Vedendo nel corso dell'opera la trasformazione della amicizia tra i due protagonisti in qualcosa di più che sembra assomigliare quasi ad una sorta di amore "impossibile", il finale del film di animazione lascia lo spazio alla consapevolezza più matura e solo in apparenza rassegnata per la quale resta il ricordo come unico modo per ritrovarsi... e superare la "separazione"... per sempre.

Struggente, malinconico ma anche così lontano dalla visione "occidentale" delle "cose della vita", quelle "difficili, poetiche che stuzzicano il cuore".