un solo fiore può emanare più luce di cento fiori
È il Capodanno del 2014. Un film, da poco uscito nei cinema del Sol levante, fa commuovere profondamente il primo ministro Abe, che lo guarda con la madre e la moglie. Viene l'inverno del 2014: quel film, in cartellone da prima di Natale, resiste sugli scudi per otto settimane, prima di essere disarcionato dalla vetta. Dall'alto dei cieli, dove osavano i caccia progettati da un tale signor Horikoshi, che in molti abbiamo imparato a conoscere, e in tanti abbiamo finito per amare, quando 'il vento si è alzato nelle sale'. Quei fatidici 0, le creature di Jirō, su cui infine trovarono la morte le unità tokkoutai, la schiera dei kamikaze.
Eien no Zero (The Eternal Zero) è un lungometraggio di Takashi Yamazaki, tratto da un romanzo originale dello scrittore destrorso Naoki Hyakuta, capace di spaccare in due il Giappone, accorso comunque in massa a vederlo. Qual è il nodo inestricabile attorno a cui si avvita questa pellicola, capace di aggiudicarsi un sentitissimo Gelso d'Oro ad Udine, nel 2014?
È nientemeno che il problema dell'eredità bellica nipponica, riletto attraverso un kolossal a tinte melò, forse per gentile concessione al gusto postmoderno, più intimista che politico. Dunque, a ben vedere, le critiche piovute, assieme agli allori, sul film di Yamazaki sono forse inappropriate. Per guadagnarsi le invettive di Miyazaki, Yamazaki si sarà certo macchiato ai suoi occhi del peccato di sciovinismo. Certo il regista ha pagato pegno per la filiazione diretta della versione filmata dal romanzo di Hyakuta, autore legato a filo doppio all'estabilishment radio-televisivo. Lo Eien no Zero cartaceo sarebbe per Miyazaki «un ammasso di bugie», ed il film campione d'incassi ne sarebbe lo spiacevole effetto collaterale, per un increscioso caso di comorbilità mediatica. Accanto all'implicita 'pedagogia' veicolata dal pacifismo poetico di Kaze Tachinu, il Giappone si troverebbe, per 'colpa' di Yamazaki, sotto la fascinazione mitopoietica delle gesta dei piloti degli aerei da caccia 'Zero', venendo così neutralizzato il benefico influsso sull'immaginario nazionale degli anticorpi storico-estetici iniettati dal capolavoro di Miyazaki nella coscienza collettiva di un Giappone pericolosamente 'nostalgico' in certe sue frange rispetto alle disastrose esperienze della Guerra del Pacifico. Timori tutti da verificare, quelli di Miya-san. E, a mio avviso, da smentire, seppur non senza cautele.
Eien no Zero è, per volontà ed ammissione del regista, un melodramma bellico, ed il primo kolossal di guerra giapponese dopo svariati anni. Fin qui l'inquadramento di genere, ma non basta. Eien no Zero è soprattutto e prima di tutto una storia d'amore. “Se voglio essere fedele all'imperatore, non posso essere devoto a mio padre”, recita un vecchio adagio nipponico. Non si tratta qui dell'inno a una scelta etica 'nazionalista' o tennoista, ma di un'antinomia della pratica di vita, vera a tutti i livelli per i giapponesi: o la sfera del ninjō, dei rapporti fondati sui sentimenti naturali (il mondo dell'uchi), o quella del giri, degli obblighi sociali verso l'esterno (l'ambito del soto). La società giapponese è ordinata in maniera concentrica, e i cerchi, nel loro allargarsi, dilatano la sfera intima in una dimensione collettiva sempre più estesa e spersonalizzante. Sembrerebbe dunque impossibile situarsi contemporaneamente nella sfera privata e in quella pubblica. Ma il paradosso esistenziale della cultura giapponese è il rispecchiamento tra microcosmo familiare e macrocosmo imperiale: la famiglia imperiale è il precipitato simbolico di ogni famiglia. L'Imperatore va difeso in quanto è il 'debole' per eccellenza, è affidato unicamante alla devozione dei suoi servitori.
Ciò facilita la scelta? Partire per la guerra significa servire assieme la famiglia e l'Impero? Neppure questo, o almeno non solo. Il film di Yamazaki non è conciliante né consolatorio, e non indulge ad alcuna retorica dell'epos di guerra. È un film anti-epico. Il pilota Kyuzo Miyabe (interpretato dalla pop star Junichi Okada, uno dei motivi del successo al botteghino) va contro gli stereotipi dell'eroismo e del sacrificio per il Sovrano, mettendo davanti ad ogni cosa un affetto personale: il desiderio di tornare sano e salvo dalla moglie Matsuno (ruolo affidato a Mao Inoue) e dalla figlioletta. Questo desiderio spinge Miyabe a ritirarsi dalle missioni più caotiche e disperate. Una decisione oltremodo scomoda, in tempi in cui l'azione eroica era la più cogente delle norme non scritte. La milizia giapponese, a differenza delle altre armate impegnate nella Guerra del Pacifico, non prevedeva la resa al nemico. L'unica alternativa in caso di disfatta inevitabile, per quanto folle in termini di economia dei mezzi ed inutile a fini tattici, era l'azione suicidaria.
L'attaccamento di Miyabe al proprio 'particulare' gli guadagna l'iniziale discredito dei colleghi piloti, che lo tacciano senza mezzi termini di codardia... ma qualcosa, con l'avanzare degli eventi, cambia. Non solo nel corso del flashback, dove i ragazzi affidati a Kyuzo capiscono la statura morale dell'uomo, a detta di amici e nemici uno dei migliori piloti da caccia dell'aviazione militare giapponese, ma soprattutto in chi si mette sulle tracce della sua storia: i nipoti Kentaro (un sorprendente Haruma Miura) e Keiko (la brava Kazue Fukiishi) svelano progressivamente l'indole profondamente coraggiosa della scelta di Kyuzo, e ne accolgono l'eredità spirituale, traendone ispirazione per il proprio difficile cammino di vita nel Giappone contemporaneo. La lezione, però, non si ferma qui. Perché Miyabe è figura capace di conciliare essere e dover essere, attraverso la trasgressione a un codice non scritto di eroismo suicida? Bisogna a mio avviso trovare nella condotta del pilota qualcosa di più sacro del mito dei kamikaze, mito che le sue incursioni prudenti e accorte desacralizzano e consegnano alla contingenza di una scelta disperata. Ci sono due controverità all'opera: Kyuzo non 'diserta' per timore della morte, o per attaccamento alla vita, ma per l'amore della sua vita.
Un sentimenti fatto di istanti, del poco tempo speso insieme a Matsuno prima che li separasse la bufera della guerra... ma nascono “tremila mondi in un attimo di coscienza”, come insegna il buddhismo.
Nasce un universo che sarebbe assurdo lasciare morire in ossequio a un cieco senso dell'onore. Perché l'etica di Miyabe trascende la vita, superandola per amore. Kojève, pensatore franco-russo attento alle 'cose giapponesi', identifica nel suicidio rituale, sacrifico puramente formale e per nulla utilitaristico, la possibilità di sottrarsi alla dimensione 'animalizzante' dei bisogni e dell'attaccamento alla naturalità della vita. Sapersi privare della vita per una bella morte, la nobile morte (gyokusai, il 'gioiello distrutto') dei kamikaze, sarebbe a detta del filosofo la scelta snobistica dell'umanità giapponese, non 'contaminata' dalla logica utilitaristica dell'Occidente. Ma allora Miyabe tradirebbe l'ethos nipponico? Rispondo negativamente, riprendendo lo scarto tra amore e mero istinto di conservazione.
Vergogna sarebbe, per chi è votato all'Altro, volersi conservare in vita al suo posto.
Vergogna sarebbe per il superiore in grado mandare a morire i soldati senza seguirli nella carica suicida. Vergogna sarebbe mettere in pericolo i compagni di squadrone per egoismo. Kyuzo non fa nulla di tutto questo. Egli ha cara la propria vita perché essa è della persona amata, della propria moglie e della bambina da lei nata. A sopravvivere non è Miyabe. Sopravvive l'amore.
E il pubblico giapponese e internazionale l'ha capito bene.
La pellicola riesce a veicolare incredibilmente, parlando del peggiore disastro della storia nipponica recente, un mesaggio di speranza per le generazioni presenti: la morte dei tokkoutai non è stata un sacrificio inutile, nonostante le apparenze contrarie. Kyuzo si erge a icona paradigmatica di una possibile rilettura umanizzante della controversa vicenda dei kamikaze. Al di là della scellerata decisione bellica, essi sarebbero morti per permettere al Giappone di continuare il proprio cammino. E, soprattutto, la costellazione valoriale della generazione sacrificata sull'altare del tennoismo non andrebbe rigettata in toto, ma recuperata filtrandola dalle scorie imperialiste e guerrafondaie. Mi permetto di dire che l'intento registico è raggiunto quasi del tutto: resta, soprattutto per il pubblico straniero, un certo 'odore culturale' revanscista, ma probabilmente esso è più il portato inevitabile dell'immaginario diffuso sui kamikaze che il frutto infelice della messa in scena filmica di Yamazaki. Dal canto loro, ai giapponesi forse piace commuoversi al cinema ripensando a quella terribile epopea, piena di orrore e di fascino. Ciò non significa tuttavia che essi siano inclini a ripetere esperienze simili al di fuori di una sala cinematografica.
Takashi Yamazaki ha paragonato Eien no Zero al Titanic, definendolo «una love story ambientata sullo fondo dell'affondamento del Titanic». Ma il film non abusa di un vieto 'sentimentalismo': sono le vicende stesse a fare piangere.
Ritorniamo, per finire, al carattere universale dell'opera. Alla sua poetica dell'amore più nobile della morte. È una nobile morte, morire per proteggere gli altri. Ma la vita è la condizione necessaria per farlo. La vita, tuttavia, è condizione insufficiente. La vita necessita di amore. Il protagonista di Eien no Zero si muove tra queste coordinate esistenziali.
Ripenso, ancora una volta, al 'nomignolo' poeticamente matematico dei caccia di Horikoshi, allo Zero, affiancato all'Eternità nel felicissimo connubio del titolo. E mi viene in mente l'impulso di Dirac.
«Una curva infinita in ogni suo punto, tranne uno. Un unico punto, dove è zero».
Qualcosa che è zero ad ogni istante, ma è infinito in un unico momento. In quell'attimo che tiene stretti tutti gli altri istanti, serrando la cloche del caccia in picchiata, abbracciando una vita al tramonto ma consegnata all'eterno.
L'amore destina all'infinito ciò che il destino vorrebbe annientare.
«Ritornerò vivo... anche se dovessi perdere una gamba... o se morissi... comunque tornerei. Sicuramente rinascerei, per fare ritorno da te».
Qual è il posto dello 0 tra i numeri?
Quel posto vuoto non è riservato a un'assenza. È per chi è molto più che presente.
Zero non è una cifra da nulla. Non è la cifra del nulla.
È per contare l'infinito.
E proprio questa lettura mi sta mettendo una voglia matta di vedere questo film, spero che presto qualcuno lo renda disponibile almeno con i sottotitoli, sebbene che io sia antifascista fino al midollo e quindi distantissimo dallo scrittore Hyakuta, che ha scritto il romanzo da cui è tratto. Ed è forse anche per conoscere e capire quella realtà distante nel tempo e nello spazio che questa pellicola andrebbe vista, e so per primo che non è facile, senza il velo del pregiudizio politico. Dopo aver visto Hotaru no haka e Giovanni no shima, e soprattutto dopo aver letto il manga e visto il primo film di Hadashi no Gen: tre storie e tre punti di vista diversi su un'unica immensa tragedia, vorei davvero vedere anche questo quarto. Soprattutto perché comunque i nei primi tre si tratta di storie che narrano le vicende di vittime innocenti, oltretutto bambini, mentre in Eien no Zero è vista con gli occhi di un adulto, e per di più di uno che combatte e vive in prima persona la guerra lacerato anche dal pensiero della possibilità di non poter più tornare dai suoi affetti durante le missioni che deve affrontare.
Complimenti all'autore della bella recensione
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