Riprendiamo la rubrica in cui presentare le opere più apprezzate dai recensori di AnimeClick.it di un determinato periodo, filone o genere.
In questo appuntamento raccogliamo tutti gli anime precedenti al 1979, anche se i primi posti sono tutti occupati da opere anni '60 e soprattutto anni '70. A seguire, una raccolta di recensioni di alcuni dei titoli in classifica.
Siete d'accordo con la classifica? Oppure ci sono opere sopravvalutato o manca qualche titolone imperdibile?
In questo appuntamento raccogliamo tutti gli anime precedenti al 1979, anche se i primi posti sono tutti occupati da opere anni '60 e soprattutto anni '70. A seguire, una raccolta di recensioni di alcuni dei titoli in classifica.
Siete d'accordo con la classifica? Oppure ci sono opere sopravvalutato o manca qualche titolone imperdibile?
Lady Oscar
10.0/10
Passare sotto silenzio un'opera come questa, per quanto ardua da recensire e affatto bisognosa di presentazioni, sarebbe un atto a dir poco criminoso. Quaranta episodi di vita, morte, eros e principî nei quali irrompe con prepotenza la Rivoluzione Francese, periodo la cui ombra sinistra, in quest'epoca di incertezze, di ingiustizie sociali e di malcontento, sembra incombere su di noi con rinnovato slancio, mettendoci di fronte alla nostra incapacità di fare tesoro di quello che la storia ci ha insegnato su noi stessi e sulla società di cui facciamo parte: tutto questo è "Versailles no Bara", conosciuto nel nostro paese come "Lady Oscar" in un omaggio soltanto apparentemente semplicistico a una delle figure più iconiche del panorama dei manga e degli anime in generale. Nel riscoprire dopo tanti anni questo capolavoro in lingua originale le emozioni provate da bambina di fronte alle avventure dell'indimenticabile eroina ikediana hanno fatto vibrare le corde del mio cuore con intensità meravigliosamente consapevole, ma non per questo priva di quello stesso incanto che temevo di avere perduto; merito, naturalmente, del modo in cui la bellezza intrinseca di questo titolo, lungi dallo sfiorire con il passare del tempo, ha saputo, al contrario, piegarlo al suo volere, ammantando di grazia anche i suoi rarissimi e fisiologici momenti di stanca.
La storia è nota a tutti: cresciuta come un maschio per volere del padre, l'autoritario generale de Jarjayes, Oscar François viene catapultata in giovanissima età nella variopinta e pericolosa corte di Versailles in qualità di capitano della Guarda Reale. Il suo compito principale è quello di provvedere alla sicurezza della frivola e innocente principessa Maria Antonietta, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa e promessa sposa del nipote prediletto di re Luigi XV; diversissime fra loro, le due finiscono per instaurare un rapporto d'amicizia che non ha nulla a che vedere con le relazioni effimere e spesso non esattamente cristalline tipiche di un ambiente tanto superficiale. Oscar, tuttavia, è ben conscia di quale sia la propria posizione, nei limiti della quale cerca di proteggere l'inesperta futura regina anche da quei pericoli, non sempre chiaramente manifesti ma non per questo da sottovalutare, che non le competono direttamente.
Mentre la vita di corte trascorre tra feste, pettegolezzi, fiumi di ottimo vino e chilometri di stoffe pregiate, fuori dai cancelli di Versailles la Francia vera, sulle cui magre spalle ricade l'onere di mantenere alto il tenore di vita di quel quattro per cento della popolazione che da solo sperpera la maggior parte delle risorse del paese, fa sempre più fatica a sostentarsi. Fame e scontento, coppia infelice e per questo indissolubile, serpeggiano per le sue sudicie strade come una brutta malattia; le speranze del volgo vengono riposte nel diciannovenne Luigi XVI, che tuttavia non possiede né l'esperienza né la forza d'animo necessarie per rispondere adeguatamente a simili suppliche. Maria Antonietta diviene ben presto il capro espiatorio di un malcostume secolare, con sommo dolore di Oscar che le è ancora molto affezionata ma che, al tempo stesso, si rifiuta di chiudere gli occhi di fronte alle condizioni inumane in cui versano i suoi compatrioti. Ma la società non è l'unica ad attraversare una fase di profondi cambiamenti le cui conseguenze a lungo termine sono impossibili da stabilire con certezza: la stessa Oscar si vede infatti costretta a mettere in discussione la sua risoluzione di vivere rinnegando la propria femminilità, messa a dura prova da André, lo stalliere dei Jarjayes con il quale nel corso degli anni il confine tra amicizia e amore si è fatto sempre più indefinito, e dallo svedese Fersen, l'unico uomo in grado di regalare a Maria Antonietta quella serenità che le è sempre mancata.
Facciamo finta che "Versailles no Bara" sia un'opera di finzione al cento per cento e che nulla di quanto succede ai protagonisti sia riconducibile ad avvenimenti reali. Ogni tanto si rende necessaria una rapida contestualizzazione attraverso ingenue sequenze di carattere puramente espositivo, ma a niente sarebbe servito un setting tanto accattivante se l'impianto narrativo - che talvolta si discosta, in maniera più o meno indovinata, da quello del manga - non si fosse rivelato all'altezza della varietà e della complessità delle forze in gioco.
La prima parte introduce magnificamente Oscar e le sfaccettature - invero assai poco seducenti - di un mondo a cui non si sente realmente di appartenere: la vediamo spesso appoggiata al muro mentre osserva a braccia conserte dame e cavalieri che si divertono e complottano fra loro, sorridendo di tanto in tanto a un commento fra l'incredulo e il sarcastico di André come se assistesse a un esperimento antropologico. La vita di quelle donne dalla risata impostata e dalle imponenti parrucche incipriate, a cui è scampata per un soffio, le pare incredibilmente priva di significato rispetto alla sua, che gode delle stesse libertà di un uomo. Tra questa marea di volti tutti uguali, tuttavia, spiccano quello di Maria Antonietta, la cui purezza è un'autentica ventata d'aria fresca in un ambiente dove nessuno fa niente per niente, e delle due donne che, ciascuna a suo modo e per le proprie ragioni, fanno di tutto per soggiogarla, vale a dire Madame du Barry, la favorita del vecchio monarca che teme di perdere il suo status, e la contessa di Polignac, che mira a renderla psicologicamente dipendente da lei in modo da poter trarre il massimo profitto da un'amicizia così illustre. A tale proposito è interessante far notare come la maggior parte dei cattivi della serie - novero nel quale potremmo includere anche la Storia stessa - sia di sesso femminile, quasi a fare da contraltare all'integrità di Oscar, al candore di Maria Antonietta e alla bontà di Rosalie, le cui traversie hanno, oserei dire, quasi un che di picaresco.
Abbandonati gli sfarzi di corte in favore di tristi vicoli in cui miseria, rabbia e disperazione regnano sovrani, la seconda parte, in occasione della quale il timone della regia passa al leggendario Osamu Dezaki, vede Oscar alle prese con una maturazione a tutto tondo, non solo dal punto di vista di quello che potrebbe essere il suo ruolo in questa nuova società che va delineandosi, ma anche da quello personale. Qual è l'uomo giusto per una donna come lei? Non vi è nulla di ovvio, di artefatto o di inutilmente ostentato nei piccoli e grandi turbamenti che lei e il resto del cast devono affrontare: ad essere messi in discussione, come si è detto, non sono soltanto i singoli rapporti fra le persone, bensì l'intero sistema su cui a fatica si regge la società francese, che ne condiziona nel profondo le dinamiche. Si pensi ad esempio al generale de Jarjayes e a quanto gli costa ammettere di non poter dare in sposa sua figlia ad André solo perché quest'ultimo è uno spiantato; a come Maria Antonietta risenta del peso dei propri doveri istituzionali, che le impediscono di vivere la sua storia con Fersen alla luce del sole; a Rosalie, costretta a pensare alle conseguenze del suo desiderio di vendicarsi dell'assurdo assassinio della madre; ai soldati che si rifiutano di sparare ai propri fratelli pur sapendo che la pena per chi si macchia di alto tradimento è la morte; e via discorrendo.
Così come una bella donna rimane tale anche quando il suo volto tradisce l'avvicendarsi di molte primavere, il comparto tecnico dell'anime, benché datato per gli standard odierni, si rivela, nemmeno troppo incredibilmente, piuttosto resistente alla prova del tempo. Regia, fotografia, sonoro - tra cui spiccano gli strepitosi temi d'apertura e di chiusura - e doppiaggio danno vita a un insieme piacevolmente armonioso e coeso, al punto che viene naturale chiudere un occhio di fronte a certi piccoli difetti senza i quali l'opera avrebbe, agli occhi di chi per motivi anagrafici vi si avvicina "in differita", forse un po' meno carattere.
Solitamente sono un po' refrattaria a rileggere o a riguardare qualcosa che ho amato molto, perché temo sempre di dover rivedere al ribasso l'entusiasmo provato la prima volta. Con "Versailles no Bara", tuttavia, ero certa che avrei fatto di nuovo centro. Anzi, no, permettetemi di riformulare: che esso stesso avrebbe fatto di nuovo centro con me. Se è vero che un'opera è degna di essere definita un capolavoro soltanto quando riesce a trascendere qualsiasi barriera temporale, ebbene, quest'anime lo è.
La storia è nota a tutti: cresciuta come un maschio per volere del padre, l'autoritario generale de Jarjayes, Oscar François viene catapultata in giovanissima età nella variopinta e pericolosa corte di Versailles in qualità di capitano della Guarda Reale. Il suo compito principale è quello di provvedere alla sicurezza della frivola e innocente principessa Maria Antonietta, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa e promessa sposa del nipote prediletto di re Luigi XV; diversissime fra loro, le due finiscono per instaurare un rapporto d'amicizia che non ha nulla a che vedere con le relazioni effimere e spesso non esattamente cristalline tipiche di un ambiente tanto superficiale. Oscar, tuttavia, è ben conscia di quale sia la propria posizione, nei limiti della quale cerca di proteggere l'inesperta futura regina anche da quei pericoli, non sempre chiaramente manifesti ma non per questo da sottovalutare, che non le competono direttamente.
Mentre la vita di corte trascorre tra feste, pettegolezzi, fiumi di ottimo vino e chilometri di stoffe pregiate, fuori dai cancelli di Versailles la Francia vera, sulle cui magre spalle ricade l'onere di mantenere alto il tenore di vita di quel quattro per cento della popolazione che da solo sperpera la maggior parte delle risorse del paese, fa sempre più fatica a sostentarsi. Fame e scontento, coppia infelice e per questo indissolubile, serpeggiano per le sue sudicie strade come una brutta malattia; le speranze del volgo vengono riposte nel diciannovenne Luigi XVI, che tuttavia non possiede né l'esperienza né la forza d'animo necessarie per rispondere adeguatamente a simili suppliche. Maria Antonietta diviene ben presto il capro espiatorio di un malcostume secolare, con sommo dolore di Oscar che le è ancora molto affezionata ma che, al tempo stesso, si rifiuta di chiudere gli occhi di fronte alle condizioni inumane in cui versano i suoi compatrioti. Ma la società non è l'unica ad attraversare una fase di profondi cambiamenti le cui conseguenze a lungo termine sono impossibili da stabilire con certezza: la stessa Oscar si vede infatti costretta a mettere in discussione la sua risoluzione di vivere rinnegando la propria femminilità, messa a dura prova da André, lo stalliere dei Jarjayes con il quale nel corso degli anni il confine tra amicizia e amore si è fatto sempre più indefinito, e dallo svedese Fersen, l'unico uomo in grado di regalare a Maria Antonietta quella serenità che le è sempre mancata.
Facciamo finta che "Versailles no Bara" sia un'opera di finzione al cento per cento e che nulla di quanto succede ai protagonisti sia riconducibile ad avvenimenti reali. Ogni tanto si rende necessaria una rapida contestualizzazione attraverso ingenue sequenze di carattere puramente espositivo, ma a niente sarebbe servito un setting tanto accattivante se l'impianto narrativo - che talvolta si discosta, in maniera più o meno indovinata, da quello del manga - non si fosse rivelato all'altezza della varietà e della complessità delle forze in gioco.
La prima parte introduce magnificamente Oscar e le sfaccettature - invero assai poco seducenti - di un mondo a cui non si sente realmente di appartenere: la vediamo spesso appoggiata al muro mentre osserva a braccia conserte dame e cavalieri che si divertono e complottano fra loro, sorridendo di tanto in tanto a un commento fra l'incredulo e il sarcastico di André come se assistesse a un esperimento antropologico. La vita di quelle donne dalla risata impostata e dalle imponenti parrucche incipriate, a cui è scampata per un soffio, le pare incredibilmente priva di significato rispetto alla sua, che gode delle stesse libertà di un uomo. Tra questa marea di volti tutti uguali, tuttavia, spiccano quello di Maria Antonietta, la cui purezza è un'autentica ventata d'aria fresca in un ambiente dove nessuno fa niente per niente, e delle due donne che, ciascuna a suo modo e per le proprie ragioni, fanno di tutto per soggiogarla, vale a dire Madame du Barry, la favorita del vecchio monarca che teme di perdere il suo status, e la contessa di Polignac, che mira a renderla psicologicamente dipendente da lei in modo da poter trarre il massimo profitto da un'amicizia così illustre. A tale proposito è interessante far notare come la maggior parte dei cattivi della serie - novero nel quale potremmo includere anche la Storia stessa - sia di sesso femminile, quasi a fare da contraltare all'integrità di Oscar, al candore di Maria Antonietta e alla bontà di Rosalie, le cui traversie hanno, oserei dire, quasi un che di picaresco.
Abbandonati gli sfarzi di corte in favore di tristi vicoli in cui miseria, rabbia e disperazione regnano sovrani, la seconda parte, in occasione della quale il timone della regia passa al leggendario Osamu Dezaki, vede Oscar alle prese con una maturazione a tutto tondo, non solo dal punto di vista di quello che potrebbe essere il suo ruolo in questa nuova società che va delineandosi, ma anche da quello personale. Qual è l'uomo giusto per una donna come lei? Non vi è nulla di ovvio, di artefatto o di inutilmente ostentato nei piccoli e grandi turbamenti che lei e il resto del cast devono affrontare: ad essere messi in discussione, come si è detto, non sono soltanto i singoli rapporti fra le persone, bensì l'intero sistema su cui a fatica si regge la società francese, che ne condiziona nel profondo le dinamiche. Si pensi ad esempio al generale de Jarjayes e a quanto gli costa ammettere di non poter dare in sposa sua figlia ad André solo perché quest'ultimo è uno spiantato; a come Maria Antonietta risenta del peso dei propri doveri istituzionali, che le impediscono di vivere la sua storia con Fersen alla luce del sole; a Rosalie, costretta a pensare alle conseguenze del suo desiderio di vendicarsi dell'assurdo assassinio della madre; ai soldati che si rifiutano di sparare ai propri fratelli pur sapendo che la pena per chi si macchia di alto tradimento è la morte; e via discorrendo.
Così come una bella donna rimane tale anche quando il suo volto tradisce l'avvicendarsi di molte primavere, il comparto tecnico dell'anime, benché datato per gli standard odierni, si rivela, nemmeno troppo incredibilmente, piuttosto resistente alla prova del tempo. Regia, fotografia, sonoro - tra cui spiccano gli strepitosi temi d'apertura e di chiusura - e doppiaggio danno vita a un insieme piacevolmente armonioso e coeso, al punto che viene naturale chiudere un occhio di fronte a certi piccoli difetti senza i quali l'opera avrebbe, agli occhi di chi per motivi anagrafici vi si avvicina "in differita", forse un po' meno carattere.
Solitamente sono un po' refrattaria a rileggere o a riguardare qualcosa che ho amato molto, perché temo sempre di dover rivedere al ribasso l'entusiasmo provato la prima volta. Con "Versailles no Bara", tuttavia, ero certa che avrei fatto di nuovo centro. Anzi, no, permettetemi di riformulare: che esso stesso avrebbe fatto di nuovo centro con me. Se è vero che un'opera è degna di essere definita un capolavoro soltanto quando riesce a trascendere qualsiasi barriera temporale, ebbene, quest'anime lo è.
Conan, il ragazzo del futuro
10.0/10
Cronache del dopobomba*
La serie in 26 episodi del 1978, diretta da Hayao Miyazaki con Keiji Hayakawa e Isao Takahata, è l'adattamento dell'opera letteraria fantasy per ragazzi "The incredible tide" (L'incredibile marea) dello scrittore statunitense Alexander Key.
'Conan' rappresenta un vero e proprio manifesto, una dichiarazione d'intenti in cui gli autori inseriscono già tutti quegli elementi che caratterizzeranno la loro poetica negli anni avvenire, e che diventeranno il marchio di fabbrica dello Studio Ghibli: personaggi delicatamente curati, stile dei disegni sobrio ed elegante, effetti speciali creati "artigianalmente" e, sotto traccia, messaggi morali suggeriti con pacata lucidità.
Nonostante il peso degli anni questo piccolo capolavoro conserva una tale freschezza ed efficacia nel tratto dei disegni e nelle animazioni da far restare a bocca aperta; una volta cominciata l'avventura ci si dimentica di avere davanti un "vecchio cartone" e ci si immerge letteralmente nella storia. Dietro il marcato spirito di avventura che impernia la serie si sviluppano temi e interrogativi etici tutt'altro che obsoleti o banali, trattati con un atteggiamento sottilmente critico: ne scaturiscono una profonda coscienza ecologista e una condanna all'uso scriteriato della scienza quanto mai attuale a oltre trent'anni di distanza.
L'ambientazione post-apocalittica alterna scenari di natura incontaminata e città iper-tecnologiche, quasi a sottolineare il dualismo natura/scienza, fino ad arrivare a quella sintesi ideale (High Arbor) dove l'umanità può finalmente trovare il suo equilibrio nella convivenza pacifica. La trama si dipana in maniera avvincente, non è mai noiosa, e sfrutta al meglio il formato della serie TV e la cadenza delle puntate. Il lungo racconto alterna spunti comici a momenti più toccanti e patetici, e non è mai banale o sopra le righe, mentre il ritmo della narrazione è sempre misurato con sapienza, fra scene d'azione travolgente, frequenti colpi di scena e finali di episodio attentamente studiati. Chi ha avuto la fortuna di vedere Conan in TV, trasmesso in Italia con il boom delle reti commerciali e la grande ondata di anime degli anni '80, ricorderà senz'altro la sensazione di trepidante aspettativa per l'episodio successivo, che si perde inevitabilmente con la visione del DVD.
I personaggi sono dipinti in modo appassionato, alcuni emergono per integrità e statura morale, altri per pathos e nobiltà d'animo, tutti sono trattati con grande sensibilità e carattere.
Non è difficile simpatizzare con i protagonisti, le gesta eroiche non sminuiscono mai la loro grande umanità e le loro personalissime idiosincrasie li portano ancora più vicini al cuore dello spettatore.
Una menzione speciale va alla sigla di chiusura. Pochissimi fotogrammi in loop creano un efficace effetto movimento ad libitum: una piccola grande lezione di animazione classica.
'Conan' è una delle più grandi serie di sempre, fa sognare da generazioni e continuerà a farlo, è avventura allo stato puro, un "incredibile viaggio", un classico meisaku in cui oriente e occidente s'incontrano per creare un'opera dal linguaggio universale di sublime bellezza, adatto a tutte le età.
(*) Il titolo è un doppio omaggio: al romanzo di Plilip K. Dick del 1965 e al successivo fumetto di Bonvi del 1973 (n.d.a)
La serie in 26 episodi del 1978, diretta da Hayao Miyazaki con Keiji Hayakawa e Isao Takahata, è l'adattamento dell'opera letteraria fantasy per ragazzi "The incredible tide" (L'incredibile marea) dello scrittore statunitense Alexander Key.
'Conan' rappresenta un vero e proprio manifesto, una dichiarazione d'intenti in cui gli autori inseriscono già tutti quegli elementi che caratterizzeranno la loro poetica negli anni avvenire, e che diventeranno il marchio di fabbrica dello Studio Ghibli: personaggi delicatamente curati, stile dei disegni sobrio ed elegante, effetti speciali creati "artigianalmente" e, sotto traccia, messaggi morali suggeriti con pacata lucidità.
Nonostante il peso degli anni questo piccolo capolavoro conserva una tale freschezza ed efficacia nel tratto dei disegni e nelle animazioni da far restare a bocca aperta; una volta cominciata l'avventura ci si dimentica di avere davanti un "vecchio cartone" e ci si immerge letteralmente nella storia. Dietro il marcato spirito di avventura che impernia la serie si sviluppano temi e interrogativi etici tutt'altro che obsoleti o banali, trattati con un atteggiamento sottilmente critico: ne scaturiscono una profonda coscienza ecologista e una condanna all'uso scriteriato della scienza quanto mai attuale a oltre trent'anni di distanza.
L'ambientazione post-apocalittica alterna scenari di natura incontaminata e città iper-tecnologiche, quasi a sottolineare il dualismo natura/scienza, fino ad arrivare a quella sintesi ideale (High Arbor) dove l'umanità può finalmente trovare il suo equilibrio nella convivenza pacifica. La trama si dipana in maniera avvincente, non è mai noiosa, e sfrutta al meglio il formato della serie TV e la cadenza delle puntate. Il lungo racconto alterna spunti comici a momenti più toccanti e patetici, e non è mai banale o sopra le righe, mentre il ritmo della narrazione è sempre misurato con sapienza, fra scene d'azione travolgente, frequenti colpi di scena e finali di episodio attentamente studiati. Chi ha avuto la fortuna di vedere Conan in TV, trasmesso in Italia con il boom delle reti commerciali e la grande ondata di anime degli anni '80, ricorderà senz'altro la sensazione di trepidante aspettativa per l'episodio successivo, che si perde inevitabilmente con la visione del DVD.
I personaggi sono dipinti in modo appassionato, alcuni emergono per integrità e statura morale, altri per pathos e nobiltà d'animo, tutti sono trattati con grande sensibilità e carattere.
Non è difficile simpatizzare con i protagonisti, le gesta eroiche non sminuiscono mai la loro grande umanità e le loro personalissime idiosincrasie li portano ancora più vicini al cuore dello spettatore.
Una menzione speciale va alla sigla di chiusura. Pochissimi fotogrammi in loop creano un efficace effetto movimento ad libitum: una piccola grande lezione di animazione classica.
'Conan' è una delle più grandi serie di sempre, fa sognare da generazioni e continuerà a farlo, è avventura allo stato puro, un "incredibile viaggio", un classico meisaku in cui oriente e occidente s'incontrano per creare un'opera dal linguaggio universale di sublime bellezza, adatto a tutte le età.
(*) Il titolo è un doppio omaggio: al romanzo di Plilip K. Dick del 1965 e al successivo fumetto di Bonvi del 1973 (n.d.a)
Capitan Harlock
9.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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È il 1978: l'universo di Leiji Matsumoto prende vita, germogliando in una delle serie d'animazione che faranno la storia. L'odissea spaziale dell'Arcadia e della sua ciurma è pronta ad avere inizio, e a segnare in modo indelebile i ricordi di una generazione. Ma una soltanto? È ciò che si chiede, un po' incredulo, il sottoscritto, cioè qualcuno che non ha avuto la possibilità di vivere sulla propria pelle l'esperienza di un'adolescenza marcata dalla figura di Harlock, ma che, eppure, con più di tre decenni di ritardo, non può che esserne rimasto stregato.
Chi è che scrive non è pertanto un nostalgico, ma un semplice appassionato di anime che, malgrado il divario generazionale, sente di aver fatto suo quel frangente di storia, e di ritenersene fortunato.
Ma la spiegazione c'è: Capitan Harlock è una di quelle opere che possiamo definire 'senza tempo', di quelle che non invecchieranno mai, nemmeno esteriormente. Ancora oggi è estremamente raro individuare in un solo anime una caratterizzazione così eterogenea di personaggi: le figure femminili, come anche quelle dei protagonisti, si distinguono con tratti affusolati ed eleganti, mentre i restanti assumono un aspetto quasi comico, molto più 'fumettistico'. L'eterogeneità investe nondimeno la qualità stessa delle animazioni, i cui alti e bassi costituiscono forse l'unica 'pecca' di produzione, d'altronde accomunabile ai tanti altri titoli dell'epoca. Tuttavia, se a dirigere è un certo Shigeyuki Hayashi, alias Rintarou, ecco che le limitatezze tecniche divengono un lontano ricordo.
Le soluzioni registiche proposte contribuiscono alla realizzazione di sequenze particolarmente suggestive, che non riguardano solo la gran presenza di battaglie spaziali, rese in maniera sontuosa e mai confusionaria, ma anche i momenti di estrema poeticità, o quelli visivamente ancora più astratti, grazie al particolare uso della colorazione e dei tagli. Molta attenzione è data all'espressività dei personaggi con frequenti primi piani che vanno a evidenziare anche i più timidi accenni del volto. Capitan Harlock può considerarsi pregevole anche dal punto di vista del sonoro, non tanto per gli effetti, ancorati agli standard del tempo, quanto per le magnifiche composizioni di Seiji Yokohama, che rendono giustizia a un tema, quello musicale, già spesso presente nella storia (si notino l'ocarina di Mayu o l'arpa di Miime), oltre ad adeguarsi perfettamente alle situazioni riscontrate.
Ma ciò che permette a questa produzione di non sfigurare in un contesto moderno è l'avvenirismo di cui è portatrice, non tanto nella storia in sé, quanto per come ci vengono presentati situazioni e protagonisti. Già il fatto che questi ultimi siano dei pirati la dice lunga sulla presunta incorruttibilità delle proprie abitudini, che includono, oltre agli atti di saccheggio nei confronti di altre navi, passatempi quali il gioco d'azzardo e il bere: da notare come al vizio dell'alcol sia soggetta addirittura una creatura estremamente delicata e femminile come Miime, che avremo occasione di vedere anche in chiaro stato d'ubriachezza.
Allo stesso Harlock il ruolo di 'pirata gentiluomo' sta veramente stretto: troppo facile ritenerlo un capitano orgoglioso ma dal fare cavalleresco; la sua figura è anti-eroistica, e incarna quella di un uomo anarchico che va contro la società tutta, non solo quella dei vertici occupati da governatori corrotti e impudenti, ma addirittura la stessa popolazione, imputata di essersi lasciata manovrare dai suddetti tramite i mass media, e di non riuscire ancora a comprendere quanto sia importante salvaguardare il pianeta che popolano - attuale, non trovate? Lo scopo di Harlock è principalmente quello di salvare la Terra, e di renderla un posto sicuro in cui Mayu, figlia di un suo caro amico, possa vivere felice: le stesse parole del capitano confermeranno come le mazoniane, intente a eliminare la popolazione terrestre, siano viste innanzitutto come intralcio al proprio cammino, e in secondo luogo come pericolosa minaccia per l'umanità. Harlock è per certi versi egoista, ma mai sleale; è autoritario sì, ma anche piuttosto tollerante nei confronti dei suoi compagni, considerati uomini liberi prima ancora che elementi di un equipaggio; è un uomo non imperturbabile ma neanche troppo sensibile, che non va troppo per il sottile quando bisogna annientare un ostacolo. Il suo personaggio è in definitiva uno dei più affascinanti mai plasmati da un pennino.
Ma a proposito di fascino, è doveroso spendere due parole sul 'nemico pubblico', quello mazoniano. Simili alla razza umana, ma solo fisiognomicamente, le mazoniane appaiono come esseri di non facile decifrazione, data la propensione a emulare buoni sentimenti, per smascherarsi poi, al momento giusto, in tutta la propria efferatezza: significativo è, ad esempio, il frangente in cui addirittura una 'bambina' mazoniana tenta di colpire a morte Tadashi.
La loro società è di tipo matriarcale e ricorda quella di insetti come le api. Lo sterminato esercito mazoniano è infatti disposto a morire pur di seguire la propria regina, Raflesia, intenzionata a 'riprendersi' l'antica patria del popolo di Mazone. Essa è probabilmente il personaggio più intrigante insieme al Capitano, se non in misura maggiore, poiché sul suo passato, e a quanto pare sulla sua stessa natura, non avremo mai risposte chiare.
Ben altro trattamento è riservato ai principali 'abitanti' dell'astronave Arcadia, dei quali comprenderemo gli stati d'animo scoprendone gli antecedenti, tutti abbastanza toccanti. Meno spazio è invece concesso, in questa serie originaria, a due dei nomi di spicco dell'intera saga, ovvero Tochiro, migliore amico di Harlock, la cui anima è ora custodita nel computer centrale di bordo della nave, ed Emeraldas, che di Tochiro diverrà la moglie, dando alla luce la piccola Mayu. La loro introduzione è forse un po' approssimativa, fatto che si risolverà in seguito con il rilascio di uno splendido lungometraggio dedicato al passato di Harlock, intitolato L'arcadia della mia giovinezza, seguito cronologicamente dai ventidue episodi della serie SSX.
Altra nota di merito, poco fa accennata, sta nelle circostanze in cui gli eventi chiave sono presentati. Se avevate il dubbio che quarantadue episodi di un'opera di fine anni '70 non potessero ormai stupirvi o incuriosirvi oltremisura, potete ora eliminarlo. L'opera si dimostra all'avanguardia anche in questo caso, presentando scene che, se adesso appaiono piuttosto forti, all'epoca avrebbero decisamente urtato la sensibilità del pubblico: scene di tortura, di nudo, di violenza sui minori, di decessi sanguinosi, sono alcuni esempi pratici, che, guarda caso, in Italia, ma credo in tutto l'Occidente, dovettero sottostare alle censure. Ma se già pensiamo agli stessi ideali politici di anarchia e di lotta al sistema e al controllo mediatico qui proposti, s'intuisce quanto 'scottante' potesse considerarsi la sua messa in onda.
Se al grado di maturità di immagini e temi percepiti, aggiungiamo la bellezza della storia e la raffinatezza della sceneggiatura, la simpatia e l'ardimento di memorabili personaggi, la carica emotiva e morale di alcuni passaggi narrativi, l'eleganza della veste grafica e l'imponenza delle musiche che vi fanno contorno, ecco che Capitan Harlock si colloca di diritto tra le esperienze d'intrattenimento che ogni rispettabile appassionato d'anime, prima o dopo, dovrebbe provare.
Chi è che scrive non è pertanto un nostalgico, ma un semplice appassionato di anime che, malgrado il divario generazionale, sente di aver fatto suo quel frangente di storia, e di ritenersene fortunato.
Ma la spiegazione c'è: Capitan Harlock è una di quelle opere che possiamo definire 'senza tempo', di quelle che non invecchieranno mai, nemmeno esteriormente. Ancora oggi è estremamente raro individuare in un solo anime una caratterizzazione così eterogenea di personaggi: le figure femminili, come anche quelle dei protagonisti, si distinguono con tratti affusolati ed eleganti, mentre i restanti assumono un aspetto quasi comico, molto più 'fumettistico'. L'eterogeneità investe nondimeno la qualità stessa delle animazioni, i cui alti e bassi costituiscono forse l'unica 'pecca' di produzione, d'altronde accomunabile ai tanti altri titoli dell'epoca. Tuttavia, se a dirigere è un certo Shigeyuki Hayashi, alias Rintarou, ecco che le limitatezze tecniche divengono un lontano ricordo.
Le soluzioni registiche proposte contribuiscono alla realizzazione di sequenze particolarmente suggestive, che non riguardano solo la gran presenza di battaglie spaziali, rese in maniera sontuosa e mai confusionaria, ma anche i momenti di estrema poeticità, o quelli visivamente ancora più astratti, grazie al particolare uso della colorazione e dei tagli. Molta attenzione è data all'espressività dei personaggi con frequenti primi piani che vanno a evidenziare anche i più timidi accenni del volto. Capitan Harlock può considerarsi pregevole anche dal punto di vista del sonoro, non tanto per gli effetti, ancorati agli standard del tempo, quanto per le magnifiche composizioni di Seiji Yokohama, che rendono giustizia a un tema, quello musicale, già spesso presente nella storia (si notino l'ocarina di Mayu o l'arpa di Miime), oltre ad adeguarsi perfettamente alle situazioni riscontrate.
Ma ciò che permette a questa produzione di non sfigurare in un contesto moderno è l'avvenirismo di cui è portatrice, non tanto nella storia in sé, quanto per come ci vengono presentati situazioni e protagonisti. Già il fatto che questi ultimi siano dei pirati la dice lunga sulla presunta incorruttibilità delle proprie abitudini, che includono, oltre agli atti di saccheggio nei confronti di altre navi, passatempi quali il gioco d'azzardo e il bere: da notare come al vizio dell'alcol sia soggetta addirittura una creatura estremamente delicata e femminile come Miime, che avremo occasione di vedere anche in chiaro stato d'ubriachezza.
Allo stesso Harlock il ruolo di 'pirata gentiluomo' sta veramente stretto: troppo facile ritenerlo un capitano orgoglioso ma dal fare cavalleresco; la sua figura è anti-eroistica, e incarna quella di un uomo anarchico che va contro la società tutta, non solo quella dei vertici occupati da governatori corrotti e impudenti, ma addirittura la stessa popolazione, imputata di essersi lasciata manovrare dai suddetti tramite i mass media, e di non riuscire ancora a comprendere quanto sia importante salvaguardare il pianeta che popolano - attuale, non trovate? Lo scopo di Harlock è principalmente quello di salvare la Terra, e di renderla un posto sicuro in cui Mayu, figlia di un suo caro amico, possa vivere felice: le stesse parole del capitano confermeranno come le mazoniane, intente a eliminare la popolazione terrestre, siano viste innanzitutto come intralcio al proprio cammino, e in secondo luogo come pericolosa minaccia per l'umanità. Harlock è per certi versi egoista, ma mai sleale; è autoritario sì, ma anche piuttosto tollerante nei confronti dei suoi compagni, considerati uomini liberi prima ancora che elementi di un equipaggio; è un uomo non imperturbabile ma neanche troppo sensibile, che non va troppo per il sottile quando bisogna annientare un ostacolo. Il suo personaggio è in definitiva uno dei più affascinanti mai plasmati da un pennino.
Ma a proposito di fascino, è doveroso spendere due parole sul 'nemico pubblico', quello mazoniano. Simili alla razza umana, ma solo fisiognomicamente, le mazoniane appaiono come esseri di non facile decifrazione, data la propensione a emulare buoni sentimenti, per smascherarsi poi, al momento giusto, in tutta la propria efferatezza: significativo è, ad esempio, il frangente in cui addirittura una 'bambina' mazoniana tenta di colpire a morte Tadashi.
La loro società è di tipo matriarcale e ricorda quella di insetti come le api. Lo sterminato esercito mazoniano è infatti disposto a morire pur di seguire la propria regina, Raflesia, intenzionata a 'riprendersi' l'antica patria del popolo di Mazone. Essa è probabilmente il personaggio più intrigante insieme al Capitano, se non in misura maggiore, poiché sul suo passato, e a quanto pare sulla sua stessa natura, non avremo mai risposte chiare.
Ben altro trattamento è riservato ai principali 'abitanti' dell'astronave Arcadia, dei quali comprenderemo gli stati d'animo scoprendone gli antecedenti, tutti abbastanza toccanti. Meno spazio è invece concesso, in questa serie originaria, a due dei nomi di spicco dell'intera saga, ovvero Tochiro, migliore amico di Harlock, la cui anima è ora custodita nel computer centrale di bordo della nave, ed Emeraldas, che di Tochiro diverrà la moglie, dando alla luce la piccola Mayu. La loro introduzione è forse un po' approssimativa, fatto che si risolverà in seguito con il rilascio di uno splendido lungometraggio dedicato al passato di Harlock, intitolato L'arcadia della mia giovinezza, seguito cronologicamente dai ventidue episodi della serie SSX.
Altra nota di merito, poco fa accennata, sta nelle circostanze in cui gli eventi chiave sono presentati. Se avevate il dubbio che quarantadue episodi di un'opera di fine anni '70 non potessero ormai stupirvi o incuriosirvi oltremisura, potete ora eliminarlo. L'opera si dimostra all'avanguardia anche in questo caso, presentando scene che, se adesso appaiono piuttosto forti, all'epoca avrebbero decisamente urtato la sensibilità del pubblico: scene di tortura, di nudo, di violenza sui minori, di decessi sanguinosi, sono alcuni esempi pratici, che, guarda caso, in Italia, ma credo in tutto l'Occidente, dovettero sottostare alle censure. Ma se già pensiamo agli stessi ideali politici di anarchia e di lotta al sistema e al controllo mediatico qui proposti, s'intuisce quanto 'scottante' potesse considerarsi la sua messa in onda.
Se al grado di maturità di immagini e temi percepiti, aggiungiamo la bellezza della storia e la raffinatezza della sceneggiatura, la simpatia e l'ardimento di memorabili personaggi, la carica emotiva e morale di alcuni passaggi narrativi, l'eleganza della veste grafica e l'imponenza delle musiche che vi fanno contorno, ecco che Capitan Harlock si colloca di diritto tra le esperienze d'intrattenimento che ogni rispettabile appassionato d'anime, prima o dopo, dovrebbe provare.
Mobile Suit Gundam
8.0/10
1979, la fervida mente di Yoshiyuki Tomino partorisce un'opera destinata a segnare profondamente il mondo dell'animazione e il suo immaginario, stiamo parlando di "Mobile Suit Gundam".
Con "Gundam" Tomino adempie una dirompente frattura con la tradizione del genere robotico (possiamo anche dire Nagaiano), desacralizzando la figura del robot, togliendole quell'aura leggendaria e mistica che lo caratterizza negli anni '70, rendendolo una macchina compiutamente costruita e controllata dall'uomo, a suo uso e consumo. Appare così, sul palcoscenico nipponico, uno dei primi esempi di real-robot, destinato a mutare radicalmente il gusto e gli stilemi futuri. Un successo che, tuttavia, tarda ad arrivare, in quanto, inizialmente, la serie non ha molta risonanza. Si deve aspettare infatti il 1981, con la trilogia cinematografica e la replica della serie, affinché "Mobile Suit Gundam" goda finalmente della fama che gli spetta.
Si indovina, dunque, l'importanza di Tomino come figura innovatrice, che stravolge i topoi della liturgia classica, portandola su un altro livello, quello del realismo (meglio: verosimiglianza). Il tratto distintivo di "Gundam" è proprio questo, il "realismo", che si concretizza non solo nell'ambito tecnologico e bellico ma, aspetto ancor più fondamentale, nel modo in cui si dipingono le relazioni umane e le vicende. Si assiste alla demolizione del sistematico "buoni vs cattivi" e alla progressiva proiezione dei personaggi in una dimensione umana, essi diventano persone.
Andiamo però con ordine, e partiamo da una questione che, personalmente, ho trovato cardinale in tutta l'opera. Tomino tratteggia il conflitto da una prospettiva insolita, non soltanto gli conferisce una connotazione politico-sociale, bensì ne dipinge altre sfumature, l'aspetto più personale e individuale del medesimo. Per sostenere questa opinione mi sia consentito proporre un esempio. Pensiamo al personaggio di Amuro, la guerra ha un drastico impatto sulla sua personalità, indiscutibilmente più marcato e sconvolgente che (mutatis mutandis) rispetto ad altri protagonisti di Tomino, come ad esempio anche lo stesso Cosmo da "Space Runaway Ideon" . Il fatto di essere catapultato in questa orrenda follia, di essere costretto a combattere e ad uccidere nemici che nemmeno conosce, di soffrire profondamente per le aspettative che si ripongono in lui, lo trasforma profondamente come persona. Da ragazzino disorientato e spaventato, che si chiede perché proprio lui debba adempiere allo sconveniente ruolo di pilota, Amuro cresce, acquisisce personalità, si pone degli obiettivi, diventa (è costretto a diventare, precocemente) un uomo. Tale metamorfosi è palpabile, progressiva, crudele, ineluttabile; scandita letteralmente a "suon di schiaffi". Una prima, tangibile, avvisaglia di tale mutamento è da rintracciarsi, ad esempio, nella puntata dedicata all'incontro tra Amuro e la madre, che non vede da molto tempo. Questa si trova innanzi un figlio completamente diverso da quello che si aspettava (e desiderava), un ragazzo le cui ingenuità ed innocenza sono state strappate dall'affilata e straziante crudeltà della violenza e della realtà (un assassino!). La guerra, con le sue esperienze dolorose ed infauste, cambia profondamente le persone tanto da renderle irriconoscibili. Un destino simile spetterà anche ad altri personaggi dell'equipaggio della White Base, la guerra cambierà le loro vite, seppur con la precisazione che il percorso di ognuno rimane essenzialmente diverso.
Un'altra tematica caratterizzante è quella relativa al conflitto generazionale, essa sublima in modo particolare, oltre che dal contrasto tra mondo adulto e quello dei giovani, a mio avviso, anche da un altro degli aspetti distintivi di Gundam, ovvero la questione del NewType. Questi è un essere umano con percezioni nettamente superiori alla media, si tratta in sostanza di una nuova forma di uomo, in grado di arrivare ad una maggiore comprensione degli altri. Da qui, l'idea di una generazione nuova, capace di riuscire lì dove ha fallito quella passata, di superare le incomprensioni che distinguono la generazione precedente, in modo da non commettere i medesimi errori e portare l'umanità verso un reale progresso. Non per nulla Amuro e Lalah, non appena vengono tra loro in contatto, sono in grado di comprendersi intimamente, e si innamorano l'uno dell'altra facendo cadere (almeno in quel momento) il loro antagonismo. Ad essere sinceri la questione del NewType viene meramente abbozzata verso la parte conclusiva della serie, rimanendo per lo più fumosa e mistica, solo nella trilogia cinematografica viene ampliato questo argomento con maggiore riguardo. La serie storica si conclude frettolosamente, e ciò a cagione del suo stesso essere così moderna. Come ogni fenomeno innovatore, viene visto in modo sospetto dai contemporanei, soltanto il tempo e il contributo dei fan ne rendono possibile il suo successo.
Considerando la serie da un punto di vista meramente tecnico si ritiene doveroso, da parte dell'estensore di questa recensione, sollevare alcune considerazioni dirette allo spettatore moderno. La serie è, nonostante le sue ambizioni innovative, sempre e comunque figlia del suo tempo. Questo comporta quindi la presenza di una narrazione molto diluita, lenta, che si sciorina in ben quarantatré episodi. In alcuni di essi ricorrono parti evidentemente pleonastiche ed accessorie, come ad esempio alcuni combattimenti eccessivamente lunghi, mi sovviene or ora alla memoria la puntata del rientro sulla terra, quando i piloti devono affrontare l'atmosfera. La narrazione inoltre si sviluppa spesso seguendo uno schema fisso, la sequenza "tipo" è quasi sempre costituita da combattimenti continui intervallati da "isole" di eventi imprevisti, importanti ma inseriti in modo poco coerente, si presenta uno schema con pochissime variazioni se non in alcune sezioni centrali e finali. Essa riesce tuttavia a tenere una continuità che lega gli avvenimenti in un filo cronologico (e logico), abbandonando quindi gli stilemi, allora popolari, dell'episodicità. Un modello comunque ancora "sgraziato", a mio avviso, tuttavia si tratta di una caratteristica sulla quale non si possono certo sollevare dei rimproveri, considerando l'epoca in cui la serie è stata prodotta.
Complessivamente, si tratta di un'opera che mi è piaciuta, narrativamente (alle volte) un po' debole, ma bilancia questo tratto con il realismo dei suoi personaggi, il quale per il periodo era sicuramente qualcosa di sensazionale, e con la pregnanza delle sue tematiche. Ho spesso sentito, senza nascondere un po' di sorpresa, definire "Gundam" una serie dal pensiero filo-pacifista. Sebbene sia indubbio che un atteggiamento di condanna della guerra emerga, e sia a mio avviso anche un po' ingenuo, in ogni caso la serie non può dirsi pacifista "tout court": è chiaramente presente la consapevolezza della tragica necessità del conflitto tra gli uomini, la necessità di difendere se stessi, le proprie idee e i propri cari. La salvezza e la redenzione, inoltre, non possono certo provenire dall'uomo stesso, quest'ultimo anzi tende a guardare con somma diffidenza questo nuovo genere di esseri umani, non per nulla gli stessi Char e Amuro sono considerati si degli eroi, ma anche degli strumenti pericolosi, da temere, più che delle persone da amare.
Sotto alcuni aspetti, personalmente, mi aspettavo qualcosa di più... "metafisico", qualcosa sullo stile di "Ideon". "Gundam" è infatti speculativamente più "terra-terra", più concreto. In ultima analisi, in "Gundam" si rinuncia alla speculazione per un approccio diverso, più materiale. In proposito è da citare uno scambio di battute che rende l'idea in modo molto efficace, incarnando la sostanziale differenza di "Gundam" da, ad esempio, opere come "Evangelion":
"Lei perché combatte, signor Bright?"
"Adesso non c'è spazio per roba come la filosofia!" "Alzati, su!"
Il finale è, inoltre, concettualmente in linea con lo spirito iconoclasta di Tomino, il robot viene rappresentato nella sua progressiva decostruzione e distruzione, "Mobile Suit" rappresenta definitivamente il preludio alla conclusione dell'epoca degli invincibili Super-Robot di Go Nagai.
Con "Gundam" Tomino adempie una dirompente frattura con la tradizione del genere robotico (possiamo anche dire Nagaiano), desacralizzando la figura del robot, togliendole quell'aura leggendaria e mistica che lo caratterizza negli anni '70, rendendolo una macchina compiutamente costruita e controllata dall'uomo, a suo uso e consumo. Appare così, sul palcoscenico nipponico, uno dei primi esempi di real-robot, destinato a mutare radicalmente il gusto e gli stilemi futuri. Un successo che, tuttavia, tarda ad arrivare, in quanto, inizialmente, la serie non ha molta risonanza. Si deve aspettare infatti il 1981, con la trilogia cinematografica e la replica della serie, affinché "Mobile Suit Gundam" goda finalmente della fama che gli spetta.
Si indovina, dunque, l'importanza di Tomino come figura innovatrice, che stravolge i topoi della liturgia classica, portandola su un altro livello, quello del realismo (meglio: verosimiglianza). Il tratto distintivo di "Gundam" è proprio questo, il "realismo", che si concretizza non solo nell'ambito tecnologico e bellico ma, aspetto ancor più fondamentale, nel modo in cui si dipingono le relazioni umane e le vicende. Si assiste alla demolizione del sistematico "buoni vs cattivi" e alla progressiva proiezione dei personaggi in una dimensione umana, essi diventano persone.
Andiamo però con ordine, e partiamo da una questione che, personalmente, ho trovato cardinale in tutta l'opera. Tomino tratteggia il conflitto da una prospettiva insolita, non soltanto gli conferisce una connotazione politico-sociale, bensì ne dipinge altre sfumature, l'aspetto più personale e individuale del medesimo. Per sostenere questa opinione mi sia consentito proporre un esempio. Pensiamo al personaggio di Amuro, la guerra ha un drastico impatto sulla sua personalità, indiscutibilmente più marcato e sconvolgente che (mutatis mutandis) rispetto ad altri protagonisti di Tomino, come ad esempio anche lo stesso Cosmo da "Space Runaway Ideon" . Il fatto di essere catapultato in questa orrenda follia, di essere costretto a combattere e ad uccidere nemici che nemmeno conosce, di soffrire profondamente per le aspettative che si ripongono in lui, lo trasforma profondamente come persona. Da ragazzino disorientato e spaventato, che si chiede perché proprio lui debba adempiere allo sconveniente ruolo di pilota, Amuro cresce, acquisisce personalità, si pone degli obiettivi, diventa (è costretto a diventare, precocemente) un uomo. Tale metamorfosi è palpabile, progressiva, crudele, ineluttabile; scandita letteralmente a "suon di schiaffi". Una prima, tangibile, avvisaglia di tale mutamento è da rintracciarsi, ad esempio, nella puntata dedicata all'incontro tra Amuro e la madre, che non vede da molto tempo. Questa si trova innanzi un figlio completamente diverso da quello che si aspettava (e desiderava), un ragazzo le cui ingenuità ed innocenza sono state strappate dall'affilata e straziante crudeltà della violenza e della realtà (un assassino!). La guerra, con le sue esperienze dolorose ed infauste, cambia profondamente le persone tanto da renderle irriconoscibili. Un destino simile spetterà anche ad altri personaggi dell'equipaggio della White Base, la guerra cambierà le loro vite, seppur con la precisazione che il percorso di ognuno rimane essenzialmente diverso.
Un'altra tematica caratterizzante è quella relativa al conflitto generazionale, essa sublima in modo particolare, oltre che dal contrasto tra mondo adulto e quello dei giovani, a mio avviso, anche da un altro degli aspetti distintivi di Gundam, ovvero la questione del NewType. Questi è un essere umano con percezioni nettamente superiori alla media, si tratta in sostanza di una nuova forma di uomo, in grado di arrivare ad una maggiore comprensione degli altri. Da qui, l'idea di una generazione nuova, capace di riuscire lì dove ha fallito quella passata, di superare le incomprensioni che distinguono la generazione precedente, in modo da non commettere i medesimi errori e portare l'umanità verso un reale progresso. Non per nulla Amuro e Lalah, non appena vengono tra loro in contatto, sono in grado di comprendersi intimamente, e si innamorano l'uno dell'altra facendo cadere (almeno in quel momento) il loro antagonismo. Ad essere sinceri la questione del NewType viene meramente abbozzata verso la parte conclusiva della serie, rimanendo per lo più fumosa e mistica, solo nella trilogia cinematografica viene ampliato questo argomento con maggiore riguardo. La serie storica si conclude frettolosamente, e ciò a cagione del suo stesso essere così moderna. Come ogni fenomeno innovatore, viene visto in modo sospetto dai contemporanei, soltanto il tempo e il contributo dei fan ne rendono possibile il suo successo.
Considerando la serie da un punto di vista meramente tecnico si ritiene doveroso, da parte dell'estensore di questa recensione, sollevare alcune considerazioni dirette allo spettatore moderno. La serie è, nonostante le sue ambizioni innovative, sempre e comunque figlia del suo tempo. Questo comporta quindi la presenza di una narrazione molto diluita, lenta, che si sciorina in ben quarantatré episodi. In alcuni di essi ricorrono parti evidentemente pleonastiche ed accessorie, come ad esempio alcuni combattimenti eccessivamente lunghi, mi sovviene or ora alla memoria la puntata del rientro sulla terra, quando i piloti devono affrontare l'atmosfera. La narrazione inoltre si sviluppa spesso seguendo uno schema fisso, la sequenza "tipo" è quasi sempre costituita da combattimenti continui intervallati da "isole" di eventi imprevisti, importanti ma inseriti in modo poco coerente, si presenta uno schema con pochissime variazioni se non in alcune sezioni centrali e finali. Essa riesce tuttavia a tenere una continuità che lega gli avvenimenti in un filo cronologico (e logico), abbandonando quindi gli stilemi, allora popolari, dell'episodicità. Un modello comunque ancora "sgraziato", a mio avviso, tuttavia si tratta di una caratteristica sulla quale non si possono certo sollevare dei rimproveri, considerando l'epoca in cui la serie è stata prodotta.
Complessivamente, si tratta di un'opera che mi è piaciuta, narrativamente (alle volte) un po' debole, ma bilancia questo tratto con il realismo dei suoi personaggi, il quale per il periodo era sicuramente qualcosa di sensazionale, e con la pregnanza delle sue tematiche. Ho spesso sentito, senza nascondere un po' di sorpresa, definire "Gundam" una serie dal pensiero filo-pacifista. Sebbene sia indubbio che un atteggiamento di condanna della guerra emerga, e sia a mio avviso anche un po' ingenuo, in ogni caso la serie non può dirsi pacifista "tout court": è chiaramente presente la consapevolezza della tragica necessità del conflitto tra gli uomini, la necessità di difendere se stessi, le proprie idee e i propri cari. La salvezza e la redenzione, inoltre, non possono certo provenire dall'uomo stesso, quest'ultimo anzi tende a guardare con somma diffidenza questo nuovo genere di esseri umani, non per nulla gli stessi Char e Amuro sono considerati si degli eroi, ma anche degli strumenti pericolosi, da temere, più che delle persone da amare.
Sotto alcuni aspetti, personalmente, mi aspettavo qualcosa di più... "metafisico", qualcosa sullo stile di "Ideon". "Gundam" è infatti speculativamente più "terra-terra", più concreto. In ultima analisi, in "Gundam" si rinuncia alla speculazione per un approccio diverso, più materiale. In proposito è da citare uno scambio di battute che rende l'idea in modo molto efficace, incarnando la sostanziale differenza di "Gundam" da, ad esempio, opere come "Evangelion":
"Lei perché combatte, signor Bright?"
"Adesso non c'è spazio per roba come la filosofia!" "Alzati, su!"
Il finale è, inoltre, concettualmente in linea con lo spirito iconoclasta di Tomino, il robot viene rappresentato nella sua progressiva decostruzione e distruzione, "Mobile Suit" rappresenta definitivamente il preludio alla conclusione dell'epoca degli invincibili Super-Robot di Go Nagai.
Heidi
9.0/10
Heidi è poesia, romanticismo, malinconia ma, soprattutto, una favola che non smette mai di affascinare. Scritta sul finire del XIX° secolo dall’autrice svizzera Johanna Spyri, e illustrata dal disegnatore Rudolf Münger, è stata fonte d’ispirazione per numerosi film, telefilm e anche appunto, questo anime.
Correva l’anno 1974 e lo studio Zuiyo Eizo ( ora Nippon Animation) prese contatti con la Taurus Film (tedesca) per la produzione di questa serie. La regia venne affidata a Isao Takahata (Nausicaa nella valle del vento, Una tomba per le lucciole), cofondatore del celebre studio Ghibli con Miyazaki.
Ne scaturisce una delle più famose opere nipponiche di tutti i tempi. Tradotto in decine di lingue e distribuito praticamente in tutto il mondo, Heidi è uno dei primi grandi successi internazionali dell’animazione Giapponese.
La storia parla appunto di Heidi, una bambina svizzera che, rimasta orfana, viene affidata alle cure del burbero nonno, un montanaro solitario, che troverà nella bambina la forza e la voglia di tornare a vivere. Le vicende si alternano a ritmo incalzante, e Heidi, prima restia ad andare sui monti, se ne innamora perdutamente, portandoli sempre nel cuore anche quando, recuperata dalla zia, viene forzata ad allontanarsi dai monti.
Il personaggio è così ben realizzato da far trasparire una tenerezza e una dolcezza incredibili. Heidi è infatti una bambina tutti gli effetti, capricciosa, ingenua, infantile ma (citando la sigla italiana) “Con un cuore grande così”. I giapponesi dimenticheranno spesso che i bambini sono solo bambini e li disegneranno come piccoli adulti, responsabili e maturi, facendo perdere parecchio tono a molte serie. Non è il caso di Takahata, che ci presenta un’Heidi bambina in tutto e per tutto, creando quindi nello spettatore adulto, un istinto di protezione e tenerezza, mentre nel bambino, una forte simpatia e immedesimazione.
Man mano che le vicende della serie si alternano, infatti, la piccola Heidi matura, si responsabilizza, attraverso un certo percorso di conoscenze ed esperienze che la spingono a riflettere su gesti, azioni e sentimenti, accompagnando quindi lo spettatore sulla stessa via. Va precisato che il testo da cui è tratto questo anime è un testo pedagogico (come l’epoca richiedeva fossero i testi per bambini) incentrato su temi cari all’Europa protestante di fine 800. Parte di questi temi si perdono nell’anime, come le ore di preghiera e il concetto di fede in Dio. Rendendolo quindi più fruibile al pubblico moderno, discostato dal bigottismo ottocentesco. Anche molte tragedie vengono depennate, morti e incidenti gravi si attenuano o spariscono, forse per creare un Kodomo degno di tale nome, forse per concentrare un romanzo corposo in sole 52 puntate, detraendo quindi personaggi destinati a passare a miglior vita.
Il disegno è tipico della semplicità e del minimal anni ’70. Un minimalismo diffuso ad oriente quanto ad occidente, da Disney (Robin Hood, per esempio) fino alle produzioni nipponiche di quegli anni, cariche di colori pastello, smorzati, lisci, delicati.
Un anime di sicuro pregio, degno, dopo 35 anni, di essere ancora visto ed amato da una vasta porzione di pubblico. Nove.
Correva l’anno 1974 e lo studio Zuiyo Eizo ( ora Nippon Animation) prese contatti con la Taurus Film (tedesca) per la produzione di questa serie. La regia venne affidata a Isao Takahata (Nausicaa nella valle del vento, Una tomba per le lucciole), cofondatore del celebre studio Ghibli con Miyazaki.
Ne scaturisce una delle più famose opere nipponiche di tutti i tempi. Tradotto in decine di lingue e distribuito praticamente in tutto il mondo, Heidi è uno dei primi grandi successi internazionali dell’animazione Giapponese.
La storia parla appunto di Heidi, una bambina svizzera che, rimasta orfana, viene affidata alle cure del burbero nonno, un montanaro solitario, che troverà nella bambina la forza e la voglia di tornare a vivere. Le vicende si alternano a ritmo incalzante, e Heidi, prima restia ad andare sui monti, se ne innamora perdutamente, portandoli sempre nel cuore anche quando, recuperata dalla zia, viene forzata ad allontanarsi dai monti.
Il personaggio è così ben realizzato da far trasparire una tenerezza e una dolcezza incredibili. Heidi è infatti una bambina tutti gli effetti, capricciosa, ingenua, infantile ma (citando la sigla italiana) “Con un cuore grande così”. I giapponesi dimenticheranno spesso che i bambini sono solo bambini e li disegneranno come piccoli adulti, responsabili e maturi, facendo perdere parecchio tono a molte serie. Non è il caso di Takahata, che ci presenta un’Heidi bambina in tutto e per tutto, creando quindi nello spettatore adulto, un istinto di protezione e tenerezza, mentre nel bambino, una forte simpatia e immedesimazione.
Man mano che le vicende della serie si alternano, infatti, la piccola Heidi matura, si responsabilizza, attraverso un certo percorso di conoscenze ed esperienze che la spingono a riflettere su gesti, azioni e sentimenti, accompagnando quindi lo spettatore sulla stessa via. Va precisato che il testo da cui è tratto questo anime è un testo pedagogico (come l’epoca richiedeva fossero i testi per bambini) incentrato su temi cari all’Europa protestante di fine 800. Parte di questi temi si perdono nell’anime, come le ore di preghiera e il concetto di fede in Dio. Rendendolo quindi più fruibile al pubblico moderno, discostato dal bigottismo ottocentesco. Anche molte tragedie vengono depennate, morti e incidenti gravi si attenuano o spariscono, forse per creare un Kodomo degno di tale nome, forse per concentrare un romanzo corposo in sole 52 puntate, detraendo quindi personaggi destinati a passare a miglior vita.
Il disegno è tipico della semplicità e del minimal anni ’70. Un minimalismo diffuso ad oriente quanto ad occidente, da Disney (Robin Hood, per esempio) fino alle produzioni nipponiche di quegli anni, cariche di colori pastello, smorzati, lisci, delicati.
Un anime di sicuro pregio, degno, dopo 35 anni, di essere ancora visto ed amato da una vasta porzione di pubblico. Nove.
Recensione di AkiraSakura
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Il Dottor Azuma è il più grande esperto di androidi della Terra. Un giorno, nel suo tetro castello, in seguito a un guasto delle apparecchiature, un androide originariamente creato per servire l'uomo prende coscienza di sé, si battezza "Buraiking Boss" e si ribella al suo creatore. Armato della fredda logica e degli androidi costruiti dal Dottor Azuma, Buraiking Boss decreta la fine del genere umano, siccome lo ritiene dannoso per la sopravvivenza dell'ecosistema terrestre. Tetsuya Azuma è il figlio del Dottor Azuma, e decide di diventare un androide al fine di fronteggiare le armate di Buraiking. Il padre, dopo aver inizialmente esitato, compie un pericoloso esperimento, esaudendo la richiesta del figlio: nasce Casshern, l'uomo artificiale; egli verrà aiutato dalla madre, la quale ha fatto trasferire la sua coscienza nel cigno meccanico Swanee, e da Luna, una ragazza umana in possesso di un'arma micidiale costruita dal padre: la "MF Gun".
"Shinzo Ningen Casshern", contrariamente ai suoi contemporanei "fratelli" sentai della Tatsunoko - tali "Tekkaman" e "Polymar" - si contraddistingue per i toni cupi, impegnati e drammatici. Quest'opera di Tatsuo Noshida, vero e proprio pioniere dell'animazione giapponese, nonché fondatore della colossale Tatsunoko Productions, è il capostipite di un brand famosissimo in Giappone, il quale si è protratto sino ai giorni nostri. "Shinzo Ningen Casshern" è un anime molto particolare se contestualizzato nella sua epoca; dando un'occhiata superficiale, si nota che da esso emerge innanzitutto l'ambivalenza nei confronti della scienza tipica dello sci-fi giapponese del dopoguerra: il laboratorio del Dottor Azuma, ad esempio, viene raffigurato come un tetro castello simile a quello del Dottor Frankenstein; lo stesso Buraiking è reminiscente del mostro nato dalla fantasia di Mary Shelley. Un mostro creato dalla ragione, la quale nell'anime viene esaltata in tutta la sua ambivalenza. Le decisioni di Buraiking, infatti, nella loro assoluta coerenza e lucidità, sono atroci e annichilenti per il genere umano: egli fa creare armi sempre più devastanti, intere legioni di robot le quali vengono puntualmente mandate a distruggere popolose città e interi centri abitati. Casshern si muove in un ambiente devastato, reminiscente in tutto e per tutto il Giappone del dopoguerra: case ridotte a cumuli di macerie, grigiore, povertà, ingiustizie; contrariamente ai supereroi classici, Casshern spesso non può fare assolutamente nulla; viene disprezzato dagli uomini che tenta di difendere, i quali, accecati dai loro pregiudizi, odiano indistintamente tutti gli androidi; non riesce a salvare determinate persone, le quali moriranno lasciandolo triste, solo, a piangere in silenzio davanti alla loro tomba. Casshern spesso combatte esclusivamente per la rabbia che porta dentro, per dimenticare momentaneamente la grande sofferenza che lo affligge. La lotta di Casshern non è affatto semplicistica: egli nella sostanza rimane un uomo; e gli uomini falliscono, hanno delle incertezze, si lasciano sopraffare dallo sconforto. Casshern è il Giapponese del dopoguerra, il quale deve venire a patti con la "mostruosa" scienza che ha distrutto il suo Paese per riscattarsi.
Buraiking Boss, oltre ad essere un mostro creato dalla ragione, è anche uno spietato dittatore. Il simbolo delle sue armate è reminiscente della croce uncinata nazista, così come i suoi gerarchi paiono delle caricature di Goebbels, Himmler e Goering. Allo stesso modo di Hitler, Buraiking basa la sua ferrea leadership su un'asserzione "naturalistica": l'uomo va distrutto in quanto razza inferiore, siccome egli, allo stesso modo di un virus, rappresenta un pericolo per la natura.
Altra particolarità dell'anime è il fatto che uomini e macchine vengono messi sullo stesso livello. Ad esempio, il freddo e razionale Buraiking nutre un sentimento benevolo nei confronti del suo cigno robotico Swanee; sentimento che rappresenta il suo unico punto debole: Swanee infatti è la madre di Casshern, la quale puntualmente vola via di nascosto per svelare i segreti del nemico al figlio. Ella gode della completa fiducia di Buraiking, il quale non dubita minimamente che l'oggetto del suo affetto sia in realtà una spia. Molto particolare e degno di menzione è altresì un episodio nel quale un uomo si comporta allo stesso modo di una macchina, e una macchina si comporta allo stesso modo di un uomo: la discriminazione razziale subita da Casshern a causa del suo essere androide ha lo stesso valore del freddo delirio razionalizzato di Buraiking. Il tutto si riconduce all'uomo. L'uomo creatore, distruttore, calcolatore, portatore di morte, indifferenza e di ogni tipo di discriminazione e ideologia. E' chiaro il messaggio che vuole trasmettere la serie: "Uomini, voi siete delle macchine, ma non dovete dimenticare quelle cose positive che possono benissimo convivere con la meccanicità". - "Lo sai che c'è uno spirito anche dentro a un motore" - direbbe Jovanotti.
Tecnicamente, a livello di animazioni, "Shinzo Ningen Casshern" si dimostra decisamente superiore rispetto alla media degli anime del suo periodo: le opere Tatsunoko godevano di staff prestigiosi e di budget considerevoli per l'epoca. Alla regia, a fianco di Takao Koyama, abbiamo un giovanissimo Yoshiyuki Tomino, ancora ben lontano dai fasti autoriali di "Gundam" e "Ideon"; è inoltre da notare la presenza di Akiyoshi Sakai ("Baldios") alla sceneggiatura e di Yoshitaka Amano ("Tenshi no Tamago", "Final Fantasy") al character design.
L'opera è costituita esclusivamente da episodi autoconclusivi, nei quali spesso i protagonisti vivono vicende tragiche in cui i combattimenti (spettacolari per l'epoca) tra Casshern e i robot di Buraiking Boss fanno da contorno. Non mancano ingenuità narrative legate al target infantile dell'opera: ad esempio, Buraiking scopre che Casshern è un androide esclusivamente a serie inoltrata, nonostante egli faccia a pezzi i suoi robot a mani nude fin dal primo episodio. I personaggi meglio caratterizzati sono indubbiamente Buraiking e Casshern, mentre tutti gli altri stanno decisamente sullo sfondo e non spiccano particolarmente per fascino e carisma.
Uno dei temi centrali dell'opera è l'importanza della famiglia e della sua coesione: Casshern vuole bene ai suoi genitori, viene aiutato dall'amorevole e dolce madre, deve affidarsi alle conoscenze scientifiche del padre, sopratutto nella puntata finale della serie. La famiglia viene concepita come il nucleo della stessa società, e il suo corretto funzionamento è indispensabile per la corretta crescita dei figli: nel Giappone del dopoguerra, non ancora afflitto dalle problematiche della postmodernità, era necessaria una forte coesione sociale e familiare al fine di superare le numerose difficoltà portate dal conflitto.
In conclusione, com'è invecchiata la pietra miliare della Tatsunoko? A mio avviso, coloro i quali al giorno d'oggi s'apprestino a vedere "Shinzo Ningen Casshern" dovrebbero contestualizzarlo nella sua epoca, tenendo altresì presente che è stato pensato per un target infantile: indubbiamente l'anime in sé non può competere con i capolavori sci-fi a lui successivi che trattano le stesse tematiche in modo molto più approfondito e spettacolare; tuttavia, "Shinzo Ningen Casshern" gode di un mood particolare, tipicamente giapponese nella sostanza, e ancora oggi stupisce per il suo carisma e la sua genuinità.
"Shinzo Ningen Casshern", contrariamente ai suoi contemporanei "fratelli" sentai della Tatsunoko - tali "Tekkaman" e "Polymar" - si contraddistingue per i toni cupi, impegnati e drammatici. Quest'opera di Tatsuo Noshida, vero e proprio pioniere dell'animazione giapponese, nonché fondatore della colossale Tatsunoko Productions, è il capostipite di un brand famosissimo in Giappone, il quale si è protratto sino ai giorni nostri. "Shinzo Ningen Casshern" è un anime molto particolare se contestualizzato nella sua epoca; dando un'occhiata superficiale, si nota che da esso emerge innanzitutto l'ambivalenza nei confronti della scienza tipica dello sci-fi giapponese del dopoguerra: il laboratorio del Dottor Azuma, ad esempio, viene raffigurato come un tetro castello simile a quello del Dottor Frankenstein; lo stesso Buraiking è reminiscente del mostro nato dalla fantasia di Mary Shelley. Un mostro creato dalla ragione, la quale nell'anime viene esaltata in tutta la sua ambivalenza. Le decisioni di Buraiking, infatti, nella loro assoluta coerenza e lucidità, sono atroci e annichilenti per il genere umano: egli fa creare armi sempre più devastanti, intere legioni di robot le quali vengono puntualmente mandate a distruggere popolose città e interi centri abitati. Casshern si muove in un ambiente devastato, reminiscente in tutto e per tutto il Giappone del dopoguerra: case ridotte a cumuli di macerie, grigiore, povertà, ingiustizie; contrariamente ai supereroi classici, Casshern spesso non può fare assolutamente nulla; viene disprezzato dagli uomini che tenta di difendere, i quali, accecati dai loro pregiudizi, odiano indistintamente tutti gli androidi; non riesce a salvare determinate persone, le quali moriranno lasciandolo triste, solo, a piangere in silenzio davanti alla loro tomba. Casshern spesso combatte esclusivamente per la rabbia che porta dentro, per dimenticare momentaneamente la grande sofferenza che lo affligge. La lotta di Casshern non è affatto semplicistica: egli nella sostanza rimane un uomo; e gli uomini falliscono, hanno delle incertezze, si lasciano sopraffare dallo sconforto. Casshern è il Giapponese del dopoguerra, il quale deve venire a patti con la "mostruosa" scienza che ha distrutto il suo Paese per riscattarsi.
Buraiking Boss, oltre ad essere un mostro creato dalla ragione, è anche uno spietato dittatore. Il simbolo delle sue armate è reminiscente della croce uncinata nazista, così come i suoi gerarchi paiono delle caricature di Goebbels, Himmler e Goering. Allo stesso modo di Hitler, Buraiking basa la sua ferrea leadership su un'asserzione "naturalistica": l'uomo va distrutto in quanto razza inferiore, siccome egli, allo stesso modo di un virus, rappresenta un pericolo per la natura.
Altra particolarità dell'anime è il fatto che uomini e macchine vengono messi sullo stesso livello. Ad esempio, il freddo e razionale Buraiking nutre un sentimento benevolo nei confronti del suo cigno robotico Swanee; sentimento che rappresenta il suo unico punto debole: Swanee infatti è la madre di Casshern, la quale puntualmente vola via di nascosto per svelare i segreti del nemico al figlio. Ella gode della completa fiducia di Buraiking, il quale non dubita minimamente che l'oggetto del suo affetto sia in realtà una spia. Molto particolare e degno di menzione è altresì un episodio nel quale un uomo si comporta allo stesso modo di una macchina, e una macchina si comporta allo stesso modo di un uomo: la discriminazione razziale subita da Casshern a causa del suo essere androide ha lo stesso valore del freddo delirio razionalizzato di Buraiking. Il tutto si riconduce all'uomo. L'uomo creatore, distruttore, calcolatore, portatore di morte, indifferenza e di ogni tipo di discriminazione e ideologia. E' chiaro il messaggio che vuole trasmettere la serie: "Uomini, voi siete delle macchine, ma non dovete dimenticare quelle cose positive che possono benissimo convivere con la meccanicità". - "Lo sai che c'è uno spirito anche dentro a un motore" - direbbe Jovanotti.
Tecnicamente, a livello di animazioni, "Shinzo Ningen Casshern" si dimostra decisamente superiore rispetto alla media degli anime del suo periodo: le opere Tatsunoko godevano di staff prestigiosi e di budget considerevoli per l'epoca. Alla regia, a fianco di Takao Koyama, abbiamo un giovanissimo Yoshiyuki Tomino, ancora ben lontano dai fasti autoriali di "Gundam" e "Ideon"; è inoltre da notare la presenza di Akiyoshi Sakai ("Baldios") alla sceneggiatura e di Yoshitaka Amano ("Tenshi no Tamago", "Final Fantasy") al character design.
L'opera è costituita esclusivamente da episodi autoconclusivi, nei quali spesso i protagonisti vivono vicende tragiche in cui i combattimenti (spettacolari per l'epoca) tra Casshern e i robot di Buraiking Boss fanno da contorno. Non mancano ingenuità narrative legate al target infantile dell'opera: ad esempio, Buraiking scopre che Casshern è un androide esclusivamente a serie inoltrata, nonostante egli faccia a pezzi i suoi robot a mani nude fin dal primo episodio. I personaggi meglio caratterizzati sono indubbiamente Buraiking e Casshern, mentre tutti gli altri stanno decisamente sullo sfondo e non spiccano particolarmente per fascino e carisma.
Uno dei temi centrali dell'opera è l'importanza della famiglia e della sua coesione: Casshern vuole bene ai suoi genitori, viene aiutato dall'amorevole e dolce madre, deve affidarsi alle conoscenze scientifiche del padre, sopratutto nella puntata finale della serie. La famiglia viene concepita come il nucleo della stessa società, e il suo corretto funzionamento è indispensabile per la corretta crescita dei figli: nel Giappone del dopoguerra, non ancora afflitto dalle problematiche della postmodernità, era necessaria una forte coesione sociale e familiare al fine di superare le numerose difficoltà portate dal conflitto.
In conclusione, com'è invecchiata la pietra miliare della Tatsunoko? A mio avviso, coloro i quali al giorno d'oggi s'apprestino a vedere "Shinzo Ningen Casshern" dovrebbero contestualizzarlo nella sua epoca, tenendo altresì presente che è stato pensato per un target infantile: indubbiamente l'anime in sé non può competere con i capolavori sci-fi a lui successivi che trattano le stesse tematiche in modo molto più approfondito e spettacolare; tuttavia, "Shinzo Ningen Casshern" gode di un mood particolare, tipicamente giapponese nella sostanza, e ancora oggi stupisce per il suo carisma e la sua genuinità.
Anna dai capelli rossi
10.0/10
Recensione di travellerkino
-
Oltre a essere uno dei pezzi più preziosi della famosa collana della Nippon Animation, dedicata alla letteratura per ragazzi, Akage no Anne è anche una delle più fedeli trasposizioni televisive dell'omonimo romanzo di Lucy Maud Montgomery. Takahata è abilissimo nel mantenere intatta la struttura del racconto originale e si appropria con estrema naturalezza dei personaggi, rendendoli incredibilmente delineati e intensi. Ispirato da quell'ideale di animazione matura e realistica che diventerà la bandiera dello studio Ghibli, infonde il soffio vitale ai propri disegni, trasformandoli in una delicata poesia per immagini. La città di Avonlea prende vita come un bassorilievo investito dalla luce. Animata da colori caldi e avvolgenti esplode in tutta la sua vivacità nelle scene ambientate d'estate, per tornare a essere silenziosa e monotona in quelle invernali, quando è ricoperta dalla neve. Un po' come la tranquilla e ripetitiva vita dei fratelli Cuthbert, stravolta dall'arrivo ai Tetti Verdi di una bambina dai capelli rosso fuoco, magra e tutt'occhi, che ritorna a essere triste e malinconica quando Anna si trasferisce a Charlottetown per studiare.
Inoltre Takahata non si limita a impreziosire la serie con i suoi virtuosismi stilistici ma va ben oltre e, servendosi della psicologia articolata e complessa della protagonista, presenta una rilettura profondamente femminista e rivoluzionaria del romanzo. Anna non ha la passione per il bel canto, come la sua amica del cuore Diana, né tanto meno attende con impazienza l'arrivo dei quindici anni per potersi tirare su i capelli e attirare l'attenzione dei ragazzi. Al contrario, rinunciando anche alle piccole gioie dell'infanzia come un vestito con le maniche a sbuffo o un cappello nuovo, cerca nello studio l'occasione per ricompensare Marilla e Matthew del sacrificio che hanno compiuto accogliendola ai Tetti Verdi. La rivalità con l'altro sesso (Gilbert) prende il posto dei sogni a occhi aperti che da bambina le davano conforto nei momenti di solitudine. Così come l'amicizia con Diana rimpiazza l'eccentrico alter ego che si era creata, spingendola a rendere reali le proprie passioni e a trasformarsi, nel corso della storia, in Anna di Matthew e Marilla e dei Tetti Verdi e non in una qualsiasi Lady Cordelia Fitzgerald.
Anche le vicende sullo sfondo mettono in risalto l'attenzione per questi temi, come quando Marilla e la signora Lynde, un'insospettabile suffragetta, corrono in città per vedere il governatore o quando gli abitanti di Avonlea vengono a sapere che sarà una donna a sostituire il maestro presso la scuola del paese. Del resto non è difficile leggere tra le righe e rendersi conto di come Takahata e Miyazaki cercassero di portare sullo schermo gli ideali della loro generazione, capace di sognare un mondo diverso e di dare un nome nuovo e più romantico alle cose, esattamente come Anna, sempre pronta a trovare ovunque, anche nella quotidianità, Laghi dalle Acque Splendenti e Bianchi Viali delle Delizie.
Tuttavia il femminismo inconsapevole di Anna, così come quello della Montgomery, non diverrà mai radicale o intransigente e, ottenuto il giusto riconoscimento per i propri sforzi, ci sarà spazio persino per la riconciliazione con l'odiato Gilbert Blythe.
Inoltre Takahata non si limita a impreziosire la serie con i suoi virtuosismi stilistici ma va ben oltre e, servendosi della psicologia articolata e complessa della protagonista, presenta una rilettura profondamente femminista e rivoluzionaria del romanzo. Anna non ha la passione per il bel canto, come la sua amica del cuore Diana, né tanto meno attende con impazienza l'arrivo dei quindici anni per potersi tirare su i capelli e attirare l'attenzione dei ragazzi. Al contrario, rinunciando anche alle piccole gioie dell'infanzia come un vestito con le maniche a sbuffo o un cappello nuovo, cerca nello studio l'occasione per ricompensare Marilla e Matthew del sacrificio che hanno compiuto accogliendola ai Tetti Verdi. La rivalità con l'altro sesso (Gilbert) prende il posto dei sogni a occhi aperti che da bambina le davano conforto nei momenti di solitudine. Così come l'amicizia con Diana rimpiazza l'eccentrico alter ego che si era creata, spingendola a rendere reali le proprie passioni e a trasformarsi, nel corso della storia, in Anna di Matthew e Marilla e dei Tetti Verdi e non in una qualsiasi Lady Cordelia Fitzgerald.
Anche le vicende sullo sfondo mettono in risalto l'attenzione per questi temi, come quando Marilla e la signora Lynde, un'insospettabile suffragetta, corrono in città per vedere il governatore o quando gli abitanti di Avonlea vengono a sapere che sarà una donna a sostituire il maestro presso la scuola del paese. Del resto non è difficile leggere tra le righe e rendersi conto di come Takahata e Miyazaki cercassero di portare sullo schermo gli ideali della loro generazione, capace di sognare un mondo diverso e di dare un nome nuovo e più romantico alle cose, esattamente come Anna, sempre pronta a trovare ovunque, anche nella quotidianità, Laghi dalle Acque Splendenti e Bianchi Viali delle Delizie.
Tuttavia il femminismo inconsapevole di Anna, così come quello della Montgomery, non diverrà mai radicale o intransigente e, ottenuto il giusto riconoscimento per i propri sforzi, ci sarà spazio persino per la riconciliazione con l'odiato Gilbert Blythe.
General Daimos
9.0/10
Tra il robotico classico di Go Nagai e il robotico tardo degli anni di 'Gundam' esiste una produzione abbastanza variegata che io definisco robotico di mezzo. Le opere del robotico di mezzo da un lato soddisfano l'ortodossia nagaiana (ci sono agganciamenti, trasformazioni, combattimenti, esplosioni e tradimenti), ma dall'altro presentano delle innovazioni e delle caratteristiche che li distinguono: in particolare c'è una maggiore attenzione alla storia, ai personaggi e a tematiche diverse dal combattimento. Sono produzioni che ancora non hanno il coraggio di superare i canoni del genere, cosa che invece succederà pochi anni dopo con opere del calibro di 'Gundam', 'Baldios' e 'Ideon', ma che pure non si possono liquidare come puri cloni delle opere di Go Nagai. I lavori più significative del robotico di mezzo sono la trilogia dei robot shoujo ('Combattler', 'Vultus V', 'General Daimos') e 'Daltanious', tutte opere di Tadao Nagahama, un regista di tutto rispetto che ha curato anche la regia di 'Lady Oscar'.
Come si può intuire dal nome, la trilogia shoujo di cui 'General Daimos' è il coronamento è caratterizzata da una maggiore attenzione alle tematiche amorose: in particolare sono presenti protagonisti e antagonisti molto affascinanti, in grado di attrarre anche un pubblico femminile. La trama principale di Daimos ruota attorno all'amore contrastato tra Kazuya, il pilota di Daimos, e Erika, sorella del generale nemico, novelli Romeo e Giulietta. La sceneggiatura è superiore a quella tipica di un robotico classico: l'attenzione si concentra di più sui personaggi principali e ci sono meno filler che nella media del genere.
Ciò detto, dal punto di vista dell'intreccio Daimos non sembra scritto nel 1978, ma nel 1878, nel senso che non si fa sfuggire nessuno degli stratagemmi del romanzo d'appendice. Per esempio, in un episodio per fuggire di prigione la protagonista usa lo stesso trucco di Sandokan: la pozione che permette di fingere la morte apparente. In un altro episodio ci viene narrata l'infanzia dell'amico del pilota del robot: lo vediamo bambino a Parigi, con una madre poverissima e malata di tubercolosi, scacciata dal nonno perché ha sposato un pittore spiantato poi morto in un incidente; a un certo punto madre e figlio vengono gettati fuori di casa nella strade tra il vento e la neve, neanche stessimo assistendo ad una puntata di 'Remì'. In un altro episodio compare una sosia della protagonista: insomma, tutti i luoghi comuni a cui potete pensare sono presenti. A questi si aggiungono tutti gli stereotipi che hanno fatto grande il genere robotico: già alla seconda puntata muore un bambino, alla terza l'eroe esperto di karate fa fuori venti soldati nemici con una mano sola, alla quarta un valoroso nemico muore eroicamente per la pace, eccetera.
L'ottimo character design sembra uscito dalla mano di un Go Nagai addolcito: Erika sembra Sayaka con i capelli neri e le ali, ma più bella, mentre il protagonista maschile Kazuya è un fascinoso giovane con il ciuffo ribelle. Il personaggio che mi è piaciuto di più, sia come design sia come carattere, è quello di Lisa, la scienziata incaricata dei mostri meccanici baamesi: lo ammetto, ho un debole per le belle donne con i capelli verdi. Vale la pena notare che graficamente i baamesi sono raffigurati con vestiti da antichi romani, la base extraterrestre è un tempio greco e l'atmosfera ricorda un misto tra il feuilleton ottocentesco e il kolossal in costume anni cinquanta.
In 'Daimos' sono anche presenti alcune (rare) scene di fanservice, molto divertenti - c'è una puntata in cui il robottino mascotte della base cerca di costruire una macchina fotografica a raggi X per vedere le donne nude - e non mancano le gag umoristiche.
Il doppiaggio è stupendo per chi come me è cresciuto ai tempi d'oro dell'animazione giapponese: certo, ha tutti i difetti tipici di quegli anni, ma trattandosi delle voci storiche già sentite in mille altre serie d'epoca il fattore nostalgia è a mille, anche se 'General Daimos' è una serie con ho visto per la prima volta solo di recente. Praticamente 3 o 4 doppiatori interpretano tutti i personaggi, senza neanche provare a cambiare le voci. Anche gli effetti sonori e le musiche sembrano essere stati importate da 'Goldrake' e da altre serie d'epoca.
Tutti questi aspetti contribuiscono all'assegnazione, da parte mia, di un voto buono a 'General Daimos'. Tuttavia questa è una serie che presenta caratteristiche inaspettate che alzano la mia valutazione a molto buona. In particolare sono notevoli i personaggi del comandante delle forze militari terrestri (Miwa) e il comandante delle forze di invasione baamesi (Rikiter) immagini speculari. Miwa è ancor più interessante perché parte come macchietta comica e si trasforma nel terrestre più crudele e bastardo che abbia mai visto.
'Daimos' contiene anche una riflessione sulla guerra e sulla società che lascia il segno, e sorprende specialmente trattandosi di una serie che dovrebbe essere leggera e sentimentale. In 'Daimos' sono presenti anche delle scene di tortura piuttosto pesanti, specialmente per il contesto spiazzante. È inconcepibile quello che era lasciato passare negli anime per bambini ai tempi. Per questo è molto interessante vedere queste serie d'epoca, fanno aprire gli occhi sui pregiudizi e le censure di oggi. Il mio voto è 8,5, ma lo arrotondo a 9 in riconoscimento del finale inaspettato e sconvolgente. La metto a buon diritto tra le migliori serie robotiche della sua epoca. Consigliatissima.
Come si può intuire dal nome, la trilogia shoujo di cui 'General Daimos' è il coronamento è caratterizzata da una maggiore attenzione alle tematiche amorose: in particolare sono presenti protagonisti e antagonisti molto affascinanti, in grado di attrarre anche un pubblico femminile. La trama principale di Daimos ruota attorno all'amore contrastato tra Kazuya, il pilota di Daimos, e Erika, sorella del generale nemico, novelli Romeo e Giulietta. La sceneggiatura è superiore a quella tipica di un robotico classico: l'attenzione si concentra di più sui personaggi principali e ci sono meno filler che nella media del genere.
Ciò detto, dal punto di vista dell'intreccio Daimos non sembra scritto nel 1978, ma nel 1878, nel senso che non si fa sfuggire nessuno degli stratagemmi del romanzo d'appendice. Per esempio, in un episodio per fuggire di prigione la protagonista usa lo stesso trucco di Sandokan: la pozione che permette di fingere la morte apparente. In un altro episodio ci viene narrata l'infanzia dell'amico del pilota del robot: lo vediamo bambino a Parigi, con una madre poverissima e malata di tubercolosi, scacciata dal nonno perché ha sposato un pittore spiantato poi morto in un incidente; a un certo punto madre e figlio vengono gettati fuori di casa nella strade tra il vento e la neve, neanche stessimo assistendo ad una puntata di 'Remì'. In un altro episodio compare una sosia della protagonista: insomma, tutti i luoghi comuni a cui potete pensare sono presenti. A questi si aggiungono tutti gli stereotipi che hanno fatto grande il genere robotico: già alla seconda puntata muore un bambino, alla terza l'eroe esperto di karate fa fuori venti soldati nemici con una mano sola, alla quarta un valoroso nemico muore eroicamente per la pace, eccetera.
L'ottimo character design sembra uscito dalla mano di un Go Nagai addolcito: Erika sembra Sayaka con i capelli neri e le ali, ma più bella, mentre il protagonista maschile Kazuya è un fascinoso giovane con il ciuffo ribelle. Il personaggio che mi è piaciuto di più, sia come design sia come carattere, è quello di Lisa, la scienziata incaricata dei mostri meccanici baamesi: lo ammetto, ho un debole per le belle donne con i capelli verdi. Vale la pena notare che graficamente i baamesi sono raffigurati con vestiti da antichi romani, la base extraterrestre è un tempio greco e l'atmosfera ricorda un misto tra il feuilleton ottocentesco e il kolossal in costume anni cinquanta.
In 'Daimos' sono anche presenti alcune (rare) scene di fanservice, molto divertenti - c'è una puntata in cui il robottino mascotte della base cerca di costruire una macchina fotografica a raggi X per vedere le donne nude - e non mancano le gag umoristiche.
Il doppiaggio è stupendo per chi come me è cresciuto ai tempi d'oro dell'animazione giapponese: certo, ha tutti i difetti tipici di quegli anni, ma trattandosi delle voci storiche già sentite in mille altre serie d'epoca il fattore nostalgia è a mille, anche se 'General Daimos' è una serie con ho visto per la prima volta solo di recente. Praticamente 3 o 4 doppiatori interpretano tutti i personaggi, senza neanche provare a cambiare le voci. Anche gli effetti sonori e le musiche sembrano essere stati importate da 'Goldrake' e da altre serie d'epoca.
Tutti questi aspetti contribuiscono all'assegnazione, da parte mia, di un voto buono a 'General Daimos'. Tuttavia questa è una serie che presenta caratteristiche inaspettate che alzano la mia valutazione a molto buona. In particolare sono notevoli i personaggi del comandante delle forze militari terrestri (Miwa) e il comandante delle forze di invasione baamesi (Rikiter) immagini speculari. Miwa è ancor più interessante perché parte come macchietta comica e si trasforma nel terrestre più crudele e bastardo che abbia mai visto.
'Daimos' contiene anche una riflessione sulla guerra e sulla società che lascia il segno, e sorprende specialmente trattandosi di una serie che dovrebbe essere leggera e sentimentale. In 'Daimos' sono presenti anche delle scene di tortura piuttosto pesanti, specialmente per il contesto spiazzante. È inconcepibile quello che era lasciato passare negli anime per bambini ai tempi. Per questo è molto interessante vedere queste serie d'epoca, fanno aprire gli occhi sui pregiudizi e le censure di oggi. Il mio voto è 8,5, ma lo arrotondo a 9 in riconoscimento del finale inaspettato e sconvolgente. La metto a buon diritto tra le migliori serie robotiche della sua epoca. Consigliatissima.
Kanashimi no Belladonna
10.0/10
Kanashimi no Belladonna è l'ultimo film della trilogia erotica Animerama, nonché il più serio ed avanguardistico dei tre. Tuttavia, si rivelò un totale insuccesso dal punto di vista delle vendite e portò alla bancarotta del suo studio d'animazione.
Prodotto negli anni '70 e liberamente ispirato dal saggio storico "La Sorcière" di Jules Michelet, quest'opera presenta diversi temi cari alla sua epoca di realizzazione, come l'emancipazione femminile, la ribellione al potere e al sistema, una sessualità più libera ed il superamento dei vincoli morali per una completa accettazione di sé. Ambientato nel medioevo, Kanashimi no Belladonna mette in luce proprio l'oppressione esercitata dal potere feudale e dalla morale della Chiesa sulle masse popolari e, soprattutto, sulle donne. Da questo punto di vista, si avvicina molto a "I diavoli" di Ken Russel, uscito nelle sale cinematografiche qualche anno prima.
La storia inizia con il matrimonio di Jean e Jeanne, due bellissimi e onesti contadini benvoluti da tutti; la loro unione è, però, ostacolata fin dall'inizio dallo 'Ius primae noctis', ovvero il diritto del signore feudale di passare la prima notte di nozze con la sposa di ogni suo servo. La verginea e religiosa Jeanne, suo malgrado, viene quindi violentata da tutti gli abitanti della corte e, per la prima volta, comprende la crudeltà e il dominio dei potenti contro i sudditi.
Da qui, la ragazza intraprenderà un percorso di emancipazione personale, guidata da un demone di forma fallica che, inizialmente minuscolo, diverrà sempre più grande con l'avanzare della storia; il Diavolo rappresenta, infatti, la metafora dell'accettazione della propria sensualità e del proprio essere donna che cresce nell'animo di Jeanne dopo tutte le angherie subite. Tale accettazione la conduce verso uno stile di vita più libero, soffocando la sua parte bigotta e timorata per far emergere, al contrario, il lato indipendente e sincero.
Col passare del tempo, la bella contadina diventa un personaggio di spicco della propria comunità, accumulando potere ed aiutando la gente del villaggio. Una donna libera dai vincoli morali e feudali, ricca di denaro e di consenso popolare, tuttavia, non può essere tollerata dalle gerarchie medievali; Jeanne viene, quindi, tacciata di stregoneria e, per questo, perseguitata. Ma la sua triste storia sarà da esempio per i poveri e per tutte le donne; diverrà martire e santa, come Jeanne d'Arc, di quell'ideale di uguaglianza simboleggiato dalla donna vittoriosa ne "La Libertà che guida il popolo" di Delacroix, dipinto mostrato alla fine del film prima dei titoli di coda.
Sotto l'aspetto grafico, Kanashimi no Belladonna presenta un'illuminante sperimentalismo, influenzato dai decori e dalle illustrazioni in stile Art Nouveau e dai motivi psichedelici anni '70. Non è difficile notare diverse somiglianze con i disegni di Klimt e Beardsley, mentre le figure femminili ed i costumi carichi d'erotismo ricalcano le meravigliose opere di Erté. Il film è composto da illustrazioni fisse che sono dei veri e propri dipinti ad acquerello, con animazioni un po' rudimentali come ci si aspetta da un film di 40 anni fa.
Assolutamente geniali le soluzioni artistiche impiegate per sublimare le numerose scene di sesso presenti nell'opera; la parte del sabba orgiastico sembra un vero e proprio delirio erotico di Hieronymus Bosch, con figure semi-umane e animali davvero spiazzanti. Credo che un tale avanguardismo stilistico sia stato raggiunto solo in pochissime altre opere.
Non a caso la stessa opening di "Lupin III - La donna chiamata Fujiko Mine" è un tributo alla bellezza grafica di Belladonna.
Le musiche del film reggono il confronto con la trama e la grafica; il tema centrale è rappresentato da una canzone giapponese dal testo triste e dolce e, a mio parere, starebbe benissimo nella colonna sonora di "Kill Bill Vol.1", poiché molto simile alle canzoni impiegate nell'opera di Tarantino. Gli altri pezzi spaziano dallo psichedelico al classico, ed accompagnano bene le scene su cui sono montate. Alcune, inoltre, servono proprio per raccontare pezzi della trama, richiamando, per un certo verso, le figure dei menestrelli e dei cantastorie medievali.
Che dire, Kanashimi no Belladonna può essere catalogato fra i capolavori del cinema d'animazione giapponese in ogni suo aspetto. Non è un film per tutti, anzi: scene troppo disturbanti per il grande pubblico, una trama che richiede diverse analisi storiche, filosofiche e psicologiche per essere apprezzata appieno. I più ci vedranno solamente dell'erotismo gratuito e il percorso di depravazione di una strega mezza nuda.
Senza rendersi conto che Jeanne, in tutto in film, di stregonerie non ne compie nessuna, che il Diavolo è solo il simbolo della nostra Volontà di potenza in continua lotta per sopravvivere all'oppressione del potere e della morale, il nostro essere liberi.
Non riesco a trovargli un difetto, non merita nient'altro che 10.
Prodotto negli anni '70 e liberamente ispirato dal saggio storico "La Sorcière" di Jules Michelet, quest'opera presenta diversi temi cari alla sua epoca di realizzazione, come l'emancipazione femminile, la ribellione al potere e al sistema, una sessualità più libera ed il superamento dei vincoli morali per una completa accettazione di sé. Ambientato nel medioevo, Kanashimi no Belladonna mette in luce proprio l'oppressione esercitata dal potere feudale e dalla morale della Chiesa sulle masse popolari e, soprattutto, sulle donne. Da questo punto di vista, si avvicina molto a "I diavoli" di Ken Russel, uscito nelle sale cinematografiche qualche anno prima.
La storia inizia con il matrimonio di Jean e Jeanne, due bellissimi e onesti contadini benvoluti da tutti; la loro unione è, però, ostacolata fin dall'inizio dallo 'Ius primae noctis', ovvero il diritto del signore feudale di passare la prima notte di nozze con la sposa di ogni suo servo. La verginea e religiosa Jeanne, suo malgrado, viene quindi violentata da tutti gli abitanti della corte e, per la prima volta, comprende la crudeltà e il dominio dei potenti contro i sudditi.
Da qui, la ragazza intraprenderà un percorso di emancipazione personale, guidata da un demone di forma fallica che, inizialmente minuscolo, diverrà sempre più grande con l'avanzare della storia; il Diavolo rappresenta, infatti, la metafora dell'accettazione della propria sensualità e del proprio essere donna che cresce nell'animo di Jeanne dopo tutte le angherie subite. Tale accettazione la conduce verso uno stile di vita più libero, soffocando la sua parte bigotta e timorata per far emergere, al contrario, il lato indipendente e sincero.
Col passare del tempo, la bella contadina diventa un personaggio di spicco della propria comunità, accumulando potere ed aiutando la gente del villaggio. Una donna libera dai vincoli morali e feudali, ricca di denaro e di consenso popolare, tuttavia, non può essere tollerata dalle gerarchie medievali; Jeanne viene, quindi, tacciata di stregoneria e, per questo, perseguitata. Ma la sua triste storia sarà da esempio per i poveri e per tutte le donne; diverrà martire e santa, come Jeanne d'Arc, di quell'ideale di uguaglianza simboleggiato dalla donna vittoriosa ne "La Libertà che guida il popolo" di Delacroix, dipinto mostrato alla fine del film prima dei titoli di coda.
Sotto l'aspetto grafico, Kanashimi no Belladonna presenta un'illuminante sperimentalismo, influenzato dai decori e dalle illustrazioni in stile Art Nouveau e dai motivi psichedelici anni '70. Non è difficile notare diverse somiglianze con i disegni di Klimt e Beardsley, mentre le figure femminili ed i costumi carichi d'erotismo ricalcano le meravigliose opere di Erté. Il film è composto da illustrazioni fisse che sono dei veri e propri dipinti ad acquerello, con animazioni un po' rudimentali come ci si aspetta da un film di 40 anni fa.
Assolutamente geniali le soluzioni artistiche impiegate per sublimare le numerose scene di sesso presenti nell'opera; la parte del sabba orgiastico sembra un vero e proprio delirio erotico di Hieronymus Bosch, con figure semi-umane e animali davvero spiazzanti. Credo che un tale avanguardismo stilistico sia stato raggiunto solo in pochissime altre opere.
Non a caso la stessa opening di "Lupin III - La donna chiamata Fujiko Mine" è un tributo alla bellezza grafica di Belladonna.
Le musiche del film reggono il confronto con la trama e la grafica; il tema centrale è rappresentato da una canzone giapponese dal testo triste e dolce e, a mio parere, starebbe benissimo nella colonna sonora di "Kill Bill Vol.1", poiché molto simile alle canzoni impiegate nell'opera di Tarantino. Gli altri pezzi spaziano dallo psichedelico al classico, ed accompagnano bene le scene su cui sono montate. Alcune, inoltre, servono proprio per raccontare pezzi della trama, richiamando, per un certo verso, le figure dei menestrelli e dei cantastorie medievali.
Che dire, Kanashimi no Belladonna può essere catalogato fra i capolavori del cinema d'animazione giapponese in ogni suo aspetto. Non è un film per tutti, anzi: scene troppo disturbanti per il grande pubblico, una trama che richiede diverse analisi storiche, filosofiche e psicologiche per essere apprezzata appieno. I più ci vedranno solamente dell'erotismo gratuito e il percorso di depravazione di una strega mezza nuda.
Senza rendersi conto che Jeanne, in tutto in film, di stregonerie non ne compie nessuna, che il Diavolo è solo il simbolo della nostra Volontà di potenza in continua lotta per sopravvivere all'oppressione del potere e della morale, il nostro essere liberi.
Non riesco a trovargli un difetto, non merita nient'altro che 10.
Il primo posto di Lady Oscar non mi stupisce affatto e se non erro è l'opera con la media più alta in assoluto.
L'uomo tigre un po' troppo in basso per i miei gusti, si tratta di una storia con una trama profonda ed appassionante.
Lady Oscar merita quel primo posto, anime dotato di una profondità splendida, forse inarrivabile. Contiene alcune delle citazioni più belle di sempre, non solo degli anime, ma proprio in generale.
"Una rosa è una rosa, anche se essa sia bianca o rossa. Una rosa non sarà mai un lillà." (Andrè Grandier).
La corazzata Yamato è veramente una bella serie (la sto guardando proprio in questo periodo), non sarebbe uno scandalo vederla ancora più in alto in classifica.
Certo, per i canoni d'oggi, lentissima. Ma se potete, guardatevela: gran contenuto morale, bella storia e molto più "matura" di quello che può sembrare a prima vista. Speriamo che prima o poi qualcuno la proponga!
Edit: scoperto il mistero: è uscita il 28 gennaio 1980 XD, ma avrei giurato fosse più vecchia. Da vedere comunque.
I primi tre in lista meritano il voto... ovviamente per la posizione è questione di gusti: ad esempio, personalmente, alla Corazzata Spaziale Yamato, Remì e Anna dai Capelli Rossi avrei dato qualche posto più in alto, l'Uomo Tigre un po' più in basso. Sostanzialmente però sono d'accordo.
Mi piacerebbe vedere la reazione generale verso Dororo, anche se so che è precedente al 1960...
Su Dororo: in realtà è del 1969, prima del 1963 non erano ancora state realizzate serie televisive. Laprima fu appunto, nel '63 Tetsuwan Atom (Astroboy negli USA e nel resto del mondo) di Osamu Tezuka, così come Dororo sei anni dopo. Forse ti avrà tratto in inganno il fatto che è stata filmata in bianco e nero, e non credo di erare se dico che fu l'ultima ad avere questa caratteristica. Mi pare di aver letto qulache tempo fa che fu ripresa in tale modo a causa di problemi economici in cui versava la Mushi Production di Tezuka (la storica società di animazione infatti fallì poi tre anni dopo), quando ormai la tecnologia del colore stava diffondendosi sempre più in Giappone. Comunque lo sto visionando in questi giorni, e devo dire che si tratta di una serie notevole, sia perché era una delle poche di ambientazione storica (la vicenda si svolge nel XVI secolo, nel pieno del perriodo dei feudi in guerra), sia per la commistione di narrazione di avvenimenti reali con uno sfondo fantastico ( a differenza di Kamui e Sasuke). Devo dire che la sto trovvando assai affascinante, è un peccato che non sia arrivata da noi all'epoca della prima invasione di serie animate giapponesi a cavallo tra gli '70 e '80, e la causa principale credo sia stata proprio l'essere stata realizzata in bianco e nero.
Secondo me meriterebbero un posto più alto Anna dai capelli rossi, Remì senza famiglia e La Sirenetta La Più Bella Favola di Andersen.
Altrimenti così non si va mai sotto l'8 xD
Mi incuriosisce "La Sirenetta, la più bella favola di Andersen", so che è più fedele al racconto originale.
troppi titoli che meritano la vetta: bisognerebbe dividere per
genere (mecha, meisaku ecc...)
BTW, la presenza in classifica di quel capolavoro di Kanashimi no Belladonna mi rincuora parecchio.
BTW^2, General Daimos e' IL robotico tokusatsu anni '70 insieme a Great Mazinger e Daitarn 3, a parer mio.
@pusta: Que due titoli sono facilmente reperibili su DVD, altri però sono spartiti letteralmente dall'etere e si possono vedere solo tramite registrazioni fatte dalla TV, e se va bene anche su YouTube.
@*MARCO*: Concordo anch'io, è difficile metetre a confronto serie con tematiche e target così diversi come Lady Oscar, Gundam e Tiger Mask; meglio selezionarli per categoria se si vuole che abbia senso un confronto.
sembra più un modo per autogratificarsi. ma poi de che ? che lady oscar è bello lo sanno anche i sassi mica ho bisogno che me lo diciate voi.
Forse perché per i più piccoli?
Ma oggi le serie per i più piccoli sbiancano di fronte alle serie citate...
Concordo più per quanto riguarda gli 80 e i 90 dove purtroppo ci siamo lasciati dietro diverse cose.
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