Il racconto sensoriale
A ogni stagione, ci sono sempre almeno due o tre titoli che vengono, loro malgrado, trascurati dai più. Che la causa sia un tipo di racconto non convenzionale o semplicemente una carenza di materiale promozionale, la triste realtà è che un discreto numero di anime promettenti passi puntualmente inosservato.
Questa premessa ci porta al “brutto anatroccolo” in questione, ovvero Flip Flappers. Un eclettico mix di maghette, fantascienza e sogni lucidi, che definire “insolito” sarebbe a dir poco un eufemismo: dopo una première che ha lasciato i suoi spettatori nel buio e una serie di episodi alquanto minimali per approccio alla narrazione, in molti potrebbero chiedersi cosa Kiyotaka Oshiyama stia cercando di realizzare con il suo debutto alla regia.
Quello di Oshiyama è effettivamente un nome relativamente sconosciuto, nonostante abbia accumulato oltre un decennio di esperienza come addetto ai lavori nel settore. Ma la visionarietà di questo key-animator di talento, che porta alle spalle progetti fortemente incentrati sull’animazione tout court quali Dennō Coil e Si alza il vento, venne finalmente messa alla prova solo nel 2014, quando l’animatore fu chiamato a lavorare sulla seconda stagione di Space Dandy. A Oshiyama fu concesso il pieno controllo creativo dell’episodio 18 della celebre serie di Shingo Natsume e Shinichirō Watanabe, per il quale svolse completamente in autonomia il ruolo di regista, sceneggiatore, storyboarder e animatore chiave.
In un singolo episodio, Oshiyama dipinse un pianeta fantastico ricoperto da un cielo rosa, oceani in tumulto e masse di terra in decomposizione; un mondo in cui lo stile di vita solitario della pesca ha diviso gli abitanti, spingendoli a vivere in un isolamento autoimposto. Grazie a questo episodio visivamente intenso e meditativo, il contributo di Oshiyama all’universo illimitato di Space Dandy risulta tra i più indimenticabili della serie, per una varietà di ragioni.
Per quanto concerne gli anime di carattere più commerciale, è prassi assai comune che un regista includa delle particolari scene perché svolgano una funzione narrativa; molto di rado vediamo progetti in cui la vita o la quotidianità sono descritti semplicemente per come sono nella realtà. Ed è proprio questo ciò che ha reso così unico l’episodio di Space Dandy diretto da Oshiyama: quella silenziosa sospensione nell’osservare il personaggio che dà titolo all’anime, Dandy, pescare in solitudine, dall’alba al tramonto, in un pianeta lontano; momenti di quiete sottolineati dalle panoramiche del vasto oceano, sul quale torreggia un cielo quasi ultraterreno. Liberato completamente dagli obblighi narrativi (di world building e di sviluppo dei personaggi), l’episodio ha in tal modo veicolato pienamente la sfida del regista nei confronti del pubblico, spingendolo a interpretare, a entrare in contatto e a interagire con le immagini che scorrevano sullo schermo.
Per quanto riguarda l’approccio di Oshiyama su Flip Flappers, si possono dunque scorgere diversi parallelismi con la serie Space Dandy, e in particolar modo con l’episodio da lui realizzato. Le prime puntate di Flip Flappers – come precedentemente accennato – hanno per la maggior parte i caratteri di un’esperienza sensoriale, piuttosto che seguire una struttura logica; un approccio peraltro molto legato alle radici di Oshiyama come animatore chiave – che in tal modo ha finito per concettualizzare il movimento e il design spaziale, prima ancora che concentrarsi sui dettagli di trama.
Questo è forse il motivo principale per il quale Flip Flappers risulta così piacevole da guardare: è chiaramente il soggetto ideale per una trasposizione in animazione, presentando infatti un’ambientazione stilizzata in cui le ragazze, a bordo dei loro hoverboard, entrano all’interno di universi illusori nei quali combattono mostri e acquisiscono superpoteri. La stessa première di Flip Flappers non aveva la minima intenzione di delineare un accenno narrativo, ma voleva semplicemente focalizzarsi sull’avventura delle sue eroine, Papika e Cocona. Le due ragazze trascorrono la maggior parte dell’episodio a giocherellare sotto le rovine coperte di neve, o a riposare accampate in una fitta foresta: tutto è stato all’insegna dell’osservare le due protagoniste vivere ogni momento della loro esperienza, in totale assenza di una voce autorale che spinga avanti la storia; i sentimenti di eccitazione, sorpresa e paura di Papika e Cocona sono stati sottolineati sopra ogni altra cosa. In secondo luogo, a causa di una sceneggiatura che intenzionalmente punta all’intrattenimento per sottrazione delle informazioni, regna un forte senso di mistero nelle avventure delle due protagoniste; un’aura di “smarrimento” e a tratti quasi quasi di oppressione (si vedano gli ottimi episodi 5 e 6), che si ripropone in ogni universo in cui Papika e Cocona mettono piede, a causa anche della nostra focalizzazione interna da spettatori che ci mette narrativamente sul loro stesso piano; e questa assenza di risposte è forse ciò che attualmente rende l’anime così efficace.
Nella tana del coniglio
Una voce variopinta
Una componente chiave della direzione visiva di un anime è il colore, che tendiamo a elaborare in maniera più inconscia. Mentre seguire i fili di una trama coinvolgente, o appassionarsi alle vicissitudini di un personaggio, sono esiti semplici e spontanei di una visione, percepire le sottigliezze di una tavolozza cromatica è un qualcosa che avviene ad un livello fortemente viscerale. Uno schema cromatico sgargiante può infonderci allegria e vivacità, viceversa tonalità più ombrose possono appesantire il nostro stato d’animo: un esempio elementare per dire che anche i colori giocano un ruolo emozionale nella nostra esperienza di spettatori.
In Flip Flappers, Oshiyama manifesta un sapiente utilizzo del colore per coinvolgere il pubblico. Gli universi di Pure Illusion costituiscono forse la parte visivamente più allettante dell’opera, in molti casi etichettabili come vere e proprie esplosioni sensoriali – vedasi nel secondo episodio, dove un apparentemente innocuo cielo giallastro si mescola ai fluorescenti toni rosso-blu dei modelli di Papika e Cocona, generando come minimo un senso di disorientamento. In tali circostanze, il colore aderisce non tanto alla finalità di narrare, quanto a quella di creare atmosfera. Che sensazione proviamo nel corso di questa folle escursione? Eccitazione, smarrimento, o magari un misto di entrambi?
Trattandosi comunque di un prodotto commerciale televisivo, Oshiyama non si serve del colore esclusivamente a questo scopo, ma ne fa uno strumento di narrazione non verbale. Pur muovendosi con un approccio meno convenzionale rispetto a molti suoi contemporanei, anch’egli concepisce il colore come un efficace metodo per esternare lo stato mentale di un personaggio.
Usare i colori per visualizzare pensieri e sensazioni interiori è stata per lungo tempo una prassi di molti illustri registi d’animazione, come ad esempio Akiyuki Shinbō. Prima di contribuire alla fondazione di Shaft e supervisionare le iniziative dello studio, egli prediligeva uno stile di regia avanguardistico che gli consentiva di dipingere, come su di una tela animata, la frenesia di certi conflitti emotivi.
Nel suo Cossette no Shouzou, motivi religiosi, affreschi barocchi ed horror gotico si fondevano astrattamente insieme, ad esternare la realtà indecifrabile di un giovane innamoratosi tragicamente dell’immagine di una ragazza riflessa in un bicchiere. Pur ritenuti controversi a causa della loro mancanza di coesione narrativa, i lavori pre-Shaft di Shinbō mostrano la sua abilità, forse incomparabile, nel comunicare emozioni pure attraverso potenti, talvolta malsane, combinazioni cromatiche.
Cossette no Shouzou (a sinistra) e The SoulTaker (a destra)
Pur adoperando il colore in maniera molto distante da Shinbō, Oshiyama ne rievoca il concetto alla base, ovverosia quello di rendere le emozioni visibili allo spettatore. Lo stato interiore di Papika, e di Cocona in particolare, è espresso in parte dalle tinte che assume l’ambiente che le circonda. Per esempio, la prima apparizione di Cocona, durante un’ansiosa situazione d’esame, è accompagnata dal grigio oppressivo delle pareti dell’aula scolastica. Tale introduzione costituisce così un precedente per il conflitto emozionale in atto nel personaggio, dato dalle indecisioni ed incertezze che aleggiano sulla sua vita.
Nel sesto episodio, il collegamento tra i colori e le manifestazioni emotive è piuttosto evidente. Il mondo che Papika e Cocona esplorano in questa occasione è delineato simultaneamente da tinte calde e fredde: le prime connesse alle amorevoli accoglienze di un’anziana signora; le seconde, inversamente, al gelido senso di isolamento di un ambiente domestico privo di affetto.
L’utilizzo di forti colori primari per caratterizzare i momenti positivi e negativi del passato di Iroha Irodori (che capiremo essere motore dell’episodio) è sostanzialmente semplicistico, ma riesce a fornire nel breve tempo disponibile una vivida immagine della sua infanzia. Il mondo inscenato è definito da sfumature di blu e arancione fortemente in contrasto, che riflettono una più candida e ingenua mentalità bambinesca. Se la figura della gentile vecchietta è determinante nell’incitare la ragazza a perseguire la propria passione per l’arte (andando contro gli standard sociali), dall’altra parte abbiamo un contesto casalingo dominato da figure genitoriali in costante attrito, che ha favorito la sua tendenza a isolarsi dagli altri. Le sensazioni che le due eroine condividono con Iroha nel momento in cui ne rivivono la realtà, pervengono a noi spettatori proprio per mezzo di un’accentuata ostentazione cromatica.
Flip Flappers è iniziato mostrandoci una serie apparentemente sconnessa di avventure stravaganti in universi fantasiosi, ma da allora s’è sviluppato in una storia dai multipli livelli interpretativi. È probabilmente l’esempio più puro di “storytelling animato” della sua stagione, e a dir poco uno dei titoli più variopinti del 2016.
Se la poca esperienza di Oshiyama alla regia di un progetto televisivo andrà a interessare in qualche modo il finale della serie, resta un fattore tuttora incerto. Dopotutto Flip Flappers, nonostante l’inesorabile avvicinarsi delle battute finali, ha l’aria di essere un’opera con molte strade aperte davanti a sé, e al contempo già di suo potrebbe non essere adatto a tutti i palati. Ma se siete amanti di anime dai caratteri più “alternativi”, o se apprezzate progetti contraddistinti da un’impressionante cura nella realizzazione delle animazioni, Flip Flappers potrebbe fare al caso vostro!
Fonti consultate:
Crunchyroll.com (1)
Crunchyroll.com (2)
traxer-kun
metaldevilgear
Grazie ma in questa occasione ci siamo limitati a tradurre ad ogni modo trovavamo giusto portare all'attenzione anche questa piccola perla.
I parallelismi con Space Dandy ci stanno tutti (e si vede che può esser stato d'ispirazione) perché questa è proprio una serie dinamica e pazzerella di quel tipo.
Oltre a quello, a me ricorda un po' Abenobashi (sempre per la dinamicità, ma questo è invece ancora più episodico sul piano narrativo)
Complimenti per la traduzione, ma sapendo chi era coinvolto... garanzia :3
Ovviamente bisogna anche saper coglierli, ma negarne l'esistenza non è molto obiettivo.
Proprio un' anime molto carino!
Non nascondo di avere anch'io qualche problema a seguire la trama. Forse questa è una di quelle serie da guardare tutta in una volta, senza spezzettarne la visione per settimane (o più, come spesso mi capita).
Se riusciste a fare un articolo di approfondimento sulla sceneggiatura, penso sarebbe molto gradito. Io lo leggerei sicuramente con molto piacere.
Mi sa che sottovaluti un pelo i colori e il movimento. Ciò che la prima parte dell'articolo cerca di spiegare è proprio che l'anime si distacca dal concetto classico di narrazione, in quanto la cosiddetta "storia" è fin da subito subordinata a un diverso tipo di approccio linguistico. La sceneggiatura è sottrattiva, e hai notato che l'esperienza visiva va ben oltre le semplici (belle) animazioni? Come ben spiegava Metal i riferimenti alla cultura e al cinema si sprecano, la forma va a ricalcare i modelli fiabistici à la Lewis Carroll e il racconto deve in primis adattarsi al linguaggio visivo e alla piena padronanza dei codici dell'animazione.
Oshiyama in Flip Flappers vuole narrare e trasmettere stati d'animo con il colore, con le immagini, con l'animazione, con le inquadrature... quanti altri registi lo sanno fare con questo risultato? La semplicità intrinseca di Flip Flappers serve proprio per accentuarne l'esasperazione dei codici comunicativi, l'anime non ha mai voluto andare oltre la semplice esperienza non-narrativa, e pure gli accenni di trama introdotti qua e là riguardano solo Pure Illusion, perché per il resto lo storytelling lo fanno e lo risolvono Papika e Cocona nelle loro avventure quotidiane. Perché se un approccio alla sceneggiatura per non-narrazione è di default una "supercazzola"... che facciamo, cestiniamo anche Antonioni nel cinema?
Grazie comunque a chi ha letto e commentato l'articolo
A me la roba un po' strana e alternativa piace tantissimo, devo trovare il tempo per vederlo..
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