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Raramente, prima d’ora, mi sono trovato nella situazione attuale, quella in cui sento la necessità categorica di recensire un’opera per comprendere che voto darle, nonostante io conosca fin troppo bene le sensazioni che “Le Bizzarre Avventure di JoJo: Steel Ball Run” di Hirohiko Araki ha lasciato dentro di me e le emozioni che mi ha fatto provare. Certo, è solo un numero, direte voi, ma è fondamentale, almeno per me, essere sicuro della valutazione finale che do a un manga o un anime, perché poi questa mi serve come metro di paragone futuro, per valutare opere del medesimo calibro. Dunque, mai come in questo caso, sento il bisogno fondamentale di analizzare l’opera nella sua totalità e scovare tutte le tracce che la lettura di “Steel Ball Run” ha lasciato al suo passaggio nel mio animo. Missione tutt’altro che semplice visto che, nonostante io abbia preso visione di tutte le serie animate di “JoJo”, non ne ho mai recensita neanche una, complice un pensiero che mi attanaglia anche adesso: come si possono recensire le follie di quel genio indiscusso del sensei Araki?

“Steel Ball Run” è la settima serie del manga “Le Bizzarre Avventure di JoJo” di Hirohiko Araki, immediatamente successiva alla precedente saga dal titolo “Stone Ocean” e pubblicata su Ultra Jump – rivista mensile di manga seinen pubblicata da Shūeisha – dal 2004 al 2011. Ad oggi, è considerato uno dei tre manga migliori al mondo, che condivide il podio con “Berserk” di Kentaro Miura e “One Piece” di Eiichiro Oda (fonte: un mio amico).

Nel settembre 1890, fantini da tutto il mondo accorrono negli Stati Uniti d’America per prendere parte alla Steel Ball Run, una corsa di cavalli che attraversa il paese da San Diego a New York City con un primo premio di cinquanta milioni di dollari. Un paraplegico di nome Johnny Joestar entra in gara per conoscere la misteriosa abilità di rotazione delle sfere di ferro appartenenti ad un ex boia originario del Regno di Neapolis di nome J. Lo Zeppeli. Sebbene inizino la gara come rivali, Johnny e J. Lo diventano amici mentre viaggiano attraverso la natura selvaggia e il loro legame va rafforzandosi con il passare dei giorni e dei mesi, durante i quali si ritrovano a dover respingere vari assassini, terroristi, fuorilegge e concorrenti violenti, che vogliono indistintamente mettere loro il bastone fra le ruote.

A differenza delle altre saghe di “JoJo”, in cui il cammino del Joestar di turno è stabilito sin da subito ed è praticamente già nota l’identità del boss finale, in “Steel Ball Run” Araki ha deciso di essere meno metodico e leggermente più “originale”. La gara organizzata dallo stravagante Stephen Steel ha come premio ultimo i tanto agognati cinquanta milioni di dollari, eppure è chiaro sin dal primo capitolo che questo sia solo un’espediente narrativo atto a costringere tanti partecipanti e portatori di stand provenienti da ogni parte del globo a combattersi tra di loro, ma a quale scopo? Questo interrogativo accompagna il lettore per i primi volumi del manga, il cui approccio è eccellente. Dopo una breve e doverosa introduzione, Araki catapulta immediatamente il lettore nel vivo della corsa e, da quel momento in poi, si assiste ad un’escalation continua. I volumi non sono tutti eccezionali, ma si tengono sempre su un ottimo livello e alcuni toccano vette elevatissime. L’impostazione è più o meno quella classica: Johnny e J. Lo, i due grandi protagonisti della saga, si trovano ad affrontare numerosi portatori di stand – i cui poteri in alcuni sparuti casi sanno di già visto pur essendo sempre a loro modo unici –, ma questo continuo lottare non è fine a sé stesso, perché si accompagna ad un mistero da svelare e “qualcosa” da trovare. C’è un nemico che agisce dietro le quinte, la cui identità è sconosciuta: chi è e cosa vuole? Mentre alcuni enigmi vengono svelati altri emergono inesorabilmente e tutto questo si inserisce nell’impianto narrativo semplice e lineare ideato da Araki, che come sempre ho trovato molto esaustivo nelle sue, talvolta fin troppo eccentriche, spiegazioni. Mai come in questo caso, infatti, Araki si diverte a giocare con la storia e la fisica, per plasmarle a proprio piacimento, senza però risultare eccessivo o irriverente. In tal proposito, è necessaria una nota al merito per le ambientazioni fantasmagoriche del manga, perfettamente coerenti con gli Stati Uniti d’America di fine ‘800, paese al tempo ancora in via di sviluppo e formato per lo più da distese sconfinate di terra. Non ho dubbi che Araki abbia studiato e si sia documentato prima di disegnare il suo manga. Al finale ci si arriva in maniera incredibilmente spedita, tant’è che io stesso mi sono stupito di quanto “velocemente” sia giunto. Il finale porta con sé un’interessante, per quanto non troppo imprevedibile, colpo di scena, ma soprattutto una conclusione della vicenda molto onesta, oserei dire da seinen quale “JoJo” è e non da shounen – che pure avrei gradito –, seppur non completamente soddisfacente, almeno per il sottoscritto. Ciò che emerge maggiormente negli ultimi volumi, però, è un autocitazionismo eccitante – alla “Spider-Man: No Way Home” per intenderci, ma molto più coerente narrativamente parlando –, che sono sicuro sia stato fonte di appagamento estatico per ogni fan della serie, compreso il sottoscritto. Insomma, una saga che, dal punto di vista strettamente narrativo, rasenta la perfezione e a cui posso imputare, a voler essere puntigliosi, un finale non propriamente in linea con i miei gusti personali e l’aver perso di vista, ad un certo punto della narrazione, le sorti della gara, che è inevitabilmente finita in secondo piano in favore di altri avvicendamenti ben più importanti.

La trama imprevedibile tessuta da Araki può fare affidamento su dei personaggi di grande spessore, che vengono tutti dovutamente approfonditi, anche perché sarebbe impossibile comprendere le ragioni sottese ai loro comportamenti, per quanto, poi, ciò che accade in ogni saga di “JoJo” non abbia mai bisogno di troppe spiegazioni. I personaggi secondari sono tutti ben costruiti, anche se alcuni compaiono per un lasso di tempo troppo breve o, pur godendo del giusto spazio all’interno della narrazione, non riescono a lasciare il segno. In particolar modo, ne ricordo diversi dal grande potenziale, legato anche al loro potere, ma liquidati troppo in fretta dal sensei, come se non si volesse o potesse dedicare più del dovuto, due o al massimo tre capitoli da circa sessanta pagine l’uno, ai vari duelli che precedono il combattimento finale che, invece, si prende tanti, forse troppi volumi. A spiccare maggiormente sono inevitabilmente i protagonisti e gli antagonisti. Johnny Joestar porta un grandissimo fardello sulle proprie spalle, quello dei JoJo che lo hanno preceduto, e una promessa irrealizzabile, fare meglio di loro. Inutile dire che Johnny, per quanto abbia tutta la mia stima, non possa competere con i vari Jonathan, Joseph e Jotaro. Diego Brando è un ottimo protagonista-antagonista – il cognome è di una certa caratura –, che riesce sempre a far dubitare il lettore su quale lato della bilancia penda il suo animo – il bene oppure il male – anche se impallidisce, a mio avviso, di fronte all’autentico antagonista della saga, colui che possiede il potere più forte e moderno di tutti, ma di cui preferisco non spoilerarvi nulla. Tutti questi personaggi, a loro volta, non possono però competere con quello che io ritengo essere il vero ed unico protagonista della storia, Julius Caesar Zeppeli, in arte J. Lo Zeppeli, che con la sua sfacciataggine ed irriverenza si è conquistato sin dal primo capitolo un posto speciale nel mio cuore. J. Lo è un personaggio profondo, l’incarnazione del detto “non giudicare un libro dalla copertina”. All’immagine da duro che vuole dare di sé agli altri, fa da contraltare un animo buono e gentile, che si rivela nella motivazione per cui partecipa alla Steel Ball Run: salvare un bambino innocente condannato a morte nel suo paese. J. Lo è disposto a tutto pur di riuscire in questa impresa e sin dall’inizio si dimostra intenzionato a proseguire da solo su questa strada che si è scelto, eppure questo viaggio per lui, così come per noi, non sarebbe stato lo stesso senza la compagnia del fedele Johnny, con cui forma una coppia indimenticabile.

Infine, devo ammettere che è stato a dir poco tragico il primo impatto con i disegni di Araki, delle cui opere finora avevo solo goduto nella loro visione animata. Da un amico che è in pari con il manga di “JoJo”, ho appreso che il tratto del sensei è cambiato nel corso del tempo e questo è qualcosa a cui è possibile abituarsi solo col passare degli anni. Dunque, il fatto che questo sia stato il mio primo approccio con i disegni di Araki ha sicuramente rappresentato un ostacolo notevole, ma in generale ho fatto sempre molta fatica a seguire i combattimenti tra i vari portatori di stand, specialmente all’inizio. Col passare dei volumi, le cose sono migliorate e sono riuscito grossomodo ad abituarmi al tratto unico e riconoscibile del sensei, anche perché, per fortuna, il manga non è fatto solo ed esclusivamente di scontri, anzi lascia al lettore la possibilità di godere dei panorami e delle ambientazioni stupendamente disegnate da Araki, che con “Le Bizzarre Avventure di JoJo: Stell Ball Run” ha certamente toccato uno dei punti più alti della sua stabiliante carriera.