Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Devi smetterla di vivere trovando continuamente delle scuse, sei tu a decidere della tua vita".

Sei anni dopo aver fatto dono al mondo intero di quel capolavoro senza tempo che è “Cowboy Bebop”, Shin'ichirō Watanabe torna alla regia, in collaborazione con l’ormai defunto studio d’animazione Manglobe, di un’opera inedita a soggetto originale, che avrebbe poi ispirato un manga di scarso successo, “Samurai Champloo”. Dalla parola del dialetto di Okinawa "chanpurū", che vuol dire mischiare o fondere, “Samurai Champloo” si propone allo spettatore come anime composto quasi interamente da puntate autoconclusive, proprio come il precedente “Cowboy Bebop”, i cui protagonisti, Mugen e Jin, sono come lo ying e lo yang, al centro di una dicotomia perfetta spezzata dalla presenza femminile necessaria ed essenziale della giovane Fuu.

La storia è ambientata in Giappone, in un immaginario periodo Edo, che copre il periodo storico che va dal 1603 al 1868. In quest’epoca ancora fortemente connotata dalla presenza di samurai, troviamo i nostri grandi protagonisti: Mugen, un rozzo e trasandato guerriero vagabondo che viene dalle isole Ryūkyū, il cui stile di combattimento richiama l’anacronistica break dance afroamericana e ha motivi di somiglianza con la capoeira; Jin, un calmo e misterioso ronin, che combatte utilizzando il tipico stile kenjutsu dei samurai. Questi due feroci spadaccini incrociano le strade tra loro e con Fuu, una giovane cameriera di appena quindici anni, che li salva dalla loro esecuzione quando i due vengono arrestati dopo aver preso parte ad un violento scontro. Fuu convince i due giovani viandanti ad aiutarla a trovare il misterioso "samurai che profuma di girasoli" e, così, la loro lunga e mitica epopea verso una meta dai connotati indistinti ha inizio.

L’essenza dell’opera diretta da Watanabe risiede tutta in una sola parola, Champloo, intesa appunto col significato di mischiare. “Samurai Champloo” è la grande fusione di elementi che sembrano appartenere a poli opposti e intangibili, ma che, nell’arco delle ventisei puntate, diventano un tutt’uno fitto e inseparabile. All’ambientazione perfettamente in linea con il periodo che fa da sfondo alle vicende dei protagonisti, ovvero il Periodo Edo, fanno da contraltare alcuni elementi fortemente anacronistici per l’epoca, tanto da suscitare lo sdegno di alcuni spettatori. Su tutti, sicuramente, la forte presenza di musica di chiaro stampo hip-hop. Fat Jon, Nujabes, Tsutchie e Force of Nature formano una squadra di prim’ordine, che con le loro melodie contemporanee riescono a coinvolgere pienamente lo spettatore, consapevole di star assistendo alla fusione di due mondi che non c’entrano niente l’uno con l’altro, ma che stanno terribilmente bene insieme. Ed è proprio il comparto musicale, impreziosito dalla voce dolce e carezzevole di MINMI, a rappresentare uno dei grandi punti di forza dell’intera opera, senza il quale “Samurai Champloo” non sarebbe potuto esistere nella sua magnificenza. Onestamente, è stata proprio la presenza di musiche così belle ed evocative a spingermi verso una valutazione così alta dell’anime, a riprova del fatto che un ottimo, in questo caso eccezionale, comparto musicale può cambiare le sorti di qualsiasi opera. “Samurai Champloo” è anche la fusione di ordine e pazzia, perché se è vero che la serie segue un filo rosso abbastanza distinguibile, ci sono alcuni episodi, in particolar modo il 22 e il 23, in cui sembra ed effettivamente va a farsi benedire ogni senso logico. Ed è incredibile come, anche in questo caso, l’elemento follia si sposi bene con quello ordinario, a maggior ragione quando il primo si colloca agli sgoccioli della serie, poco prima dell’incerto finale, come a voler dare il tempo allo spettatore di prendere un bel respiro prima di immergersi verso l’atteso epilogo.

Ma nulla di quanto esaminato fino ad ora incarna meglio l’idea della fusione, della mescolanza, come i tre protagonisti. Mugen è un impulsivo, uno che agisce senza pensarci due volte. Quando il pericolo chiama lui risponde sempre presente. Ha profondamente in odio l’autorità, per questo motivo non ci sarebbe nessun problema nel definirlo un anarchico. In un passato non troppo lontano, Mugen è stato tradito da un amico, per questo non sembra fidarsi di nessuno, se non di sé stesso e della spada che porta sempre con sé. In realtà, poco altro si sa del suo passato, quasi completamente avvolto dalle tenebre, e questo discorso vale anche per gli altri due protagonisti, in particolar modo per l’occhialuto samurai. A differenza di Mugen, Jin è un tipo metodico, attento, dal sangue freddo, che conta sempre fino a dieci prima di agire. Da buon samurai, Jin è dotato di grande orgoglio e di un cuore buono e gentile, tanto da prendersi a cuore le sorti di una ragazza costretta a vendere il proprio corpo per ripagare i debiti del marito. Jin è accusato di aver ucciso il maestro del dojo a cui apparteneva e, per questo motivo, deve affrontare l’ira dei suoi discepoli. Anche lui, come Mugen, ha come migliori amiche le due spade da cui non si separa mai. Infine, c’è la dolce e gentile Fuu, un’ex cameriera che viaggia sempre in compagnia di Momo, il suo simpatico scoiattolo volante. La ragazza è chiamata a fare da balia a questi due samurai così diversi tra di loro e che, sin dal primo episodio, si promettono rivalità eterna. In realtà, è proprio Fuu a coinvolgere i due ragazzi nella ricerca del leggendario “samurai che profuma di girasoli”, sulla cui identità si sa ben poco, se non che, come suggerisce il nome, profuma di girasoli. Proprio il nome del samurai rivela molto sulla natura del viaggio che il trio sta compiendo, perché, come molti certamente sapranno, in realtà, i girasoli non profumano per niente. L’ossimorico nome del samurai rende quanto mai incerto il viaggio, alla cui meta potrebbe non esserci nulla o, comunque, ciò che non ci si aspettava di trovare. E, in fondo, è proprio questo il punto. “Samurai Champloo” incarna alla perfezione il detto “non è la meta che conta, ma il viaggio”. Ad un certo punto della serie, verrebbe quasi da chiedersi - scusatemi per la frase delirante che seguirà tra poco: “E se il viaggio alla ricerca del samurai che profuma di girasoli fosse esso stesso il samurai che profuma di girasoli?” Circa verso metà della serie, appare chiaro che nessuno dei tre protagonisti vuole veramente portare a termine questo viaggio, men che meno Fuu, e questo perché, per la prima volta in vita loro, i tre ragazzi hanno trovato qualcosa, o meglio qualcuno, per cui valga la pena continuare a vivere.

"Io sono sempre stato solo, è la prima volta che incontro degli amici".

Questo dirà Jin nell’episodio conclusivo della serie. Alla fine del viaggio, ci sarà anche il samurai che profuma di girasoli o forse no, ma poco importa, perché c’è soprattutto la consapevolezza di aver finalmente costruito dei legami forti, destinati a durare per sempre, che neanche l’usura del tempo potrà scalfire. L’epilogo che vede i tre protagonisti prendere tre strade diverse è il senso stesso di “Samurai Champloo”, un continuo viaggiare senza una meta precisa, che, in fondo, è anche il senso della vita stessa e, questo, Shin'ichirō Watanabe ci ha tenuto a precisalo, ancora una volta.

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Per divertimento ho controllato quanti anni sono passati dalla mia ultima recensione su questo sito: quattro. Lo specifico perché trovo pazzesco - e comico - che a spingermi a scrivere ancora una volta una recensione di un’opera animata sia uno spokon sullo skateboard.
Ora, io non vado sullo skate. Ho fatto qualche tentativo, è finito più o meno come quelli di Langa nel primo episodio (col didietro sul cemento, ndA), ma a differenza sua io non ho proseguito scoprendomi un genio in tale disciplina. Questo invece lo specifico per dire che penso di essere proprio l’ultima persona che avrebbe potuto trovare qualcosa in questo anime... eppure ci ho trovato quasi tutto quel che piace a me in un’opera animata.
Ho guardato “SK8 The Infinity” con due anni buoni di ritardo rispetto al resto del mondo, attirata dall’impressione, più che dalla promessa, di un’opera leggera e senza impegno, spiritosa, fuori dalle righe ma non troppo. Dopo dodici episodi sono estremamente felice di dire che su due su quattro di queste cose mi sbagliavo alla grande: “SK8 The Infinity” è un’opera parecchio fuori dalle righe e tutti, cast e autori, sono assolutamente, dannatamente seri quando si parla di skateboard.

Ci troviamo a Okinawa, dove ogni weekend viene organizzata, clandestinamente, una corsa di skate chiamata “S” all’interno di una vecchia miniera. Si tratta di un affare mica da ridere: ci si può entrare solo tramite autorizzazione e le persone che gareggiano possono mettere in palio più o meno ciò che desiderano. Giocare sporco è consentito, anche - in spirito un po’ shonen - quando il limite della legalità e della sicurezza viene decisamente superato.
Reki, uno dei protagonisti, è un giovane skater, appassionato da anni. Non è proprio brillante, ma compensa con entusiasmo e buoni sentimenti. Nel corso del primo episodio fa la conoscenza di Langa, studente canadese-giapponese trasferitosi da poco, che non ha mai messo piede su uno skate ma è un asso dello snowboard. I due stringono velocemente amicizia, un rapporto che si evolverà, tra tensioni e risoluzioni, parallelamente alle vicende delle corse “S” e dei suoi “beef” (le sfide tra skater).

Proprio il rapporto tra Reki e Langa mi dà l’occasione di parlare della prima di qualcosa che solitamente non apprezzo, ma che questo anime mi ha fatto amare: le incomprensioni basate sull’invidia e la differenza di abilità. Forse perché questo tema viene introdotto in maniera estremamente naturale sin dai primissimi episodi, per poi evolversi nel corso della serie e risolversi con il risolversi del conflitto più ampio; forse perché al posto che essere usato come semplice espediente per creare tensione forzata tra i personaggi è così intrinsecamente collegato al resto della trama da non risultare fuori posto; forse perché, per una buona volta, quello complessato è uno dei protagonisti, invece che la sua spalla; fatto sta che i sentimenti negativi che prova Reki sono ben contestualizzati, soprattutto ricordandoci che si tratta di un adolescente. Gli viene dato il tempo giusto per metabolizzare la cosa, non troppo, ma nemmeno un colpo di mano fulmineo che si risolve nel giro di poco, come spesso ho visto fare.
E se la lezione di Reki sta nell’importanza di ricordarci che non essere degli assi va bene, che essere persone normali e aspirare a migliorare va bene, la lezione di Langa sta nel ricordarsi che forse focalizzarsi troppo su un singolo aspetto, isolandosi dal resto, può essere fin troppo deleterio.
Reki e Langa sono, come da manuale, due personaggi all’apparenza opposti accomunati da un hobby, ma che trovano nelle loro differenze un modo per compensarsi, e nelle loro affinità la spinta per continuare ad andare avanti.

Ho in generale apprezzato molto i rapporti tra i personaggi, lineari ma non per questo banali. Anzi, trovo che se, c’è una lezione che “SK8 The Infinity” dà al mondo anime, è proprio che non bisogna per forza essere complessi, cervellotici, oltremodo seri, per essere un buon prodotto. A volte, come in questo caso, basta una struttura semplice che sorregge personaggi a loro volta semplici ma convincenti, unici, ciascuno con dinamiche di interazione con gli altri interessanti e coinvolgenti. È sempre chiaro perché i personaggi fanno quello che fanno, cosa li turba, cosa li risolleva. In questo senso è assolutamente premiante la scelta di avere un cast ridotto ma compatto, dove Reki e Langa sono virtualmente i protagonisti, ma a conti fatti non hanno poi troppo screentime in più degli altri skater, e questo fa sì che si crei un gruppo solido e funzionale, che è poi anche uno dei temi dell’anime: da soli si finisce per percorrere sentieri bui, mentre con la forza di una comunità è più facile andare avanti.

Una nota di plauso va quindi non solo alla scrittura - della trama, dei personaggi - che per quanto semplice risulta, appunto, solida, ma anche al modo in cui questa va a braccetto con l’aspetto visivo: registico e di art direction. Cito tutte queste cose insieme per un motivo preciso: un sacco di aspetti di questo anime sono influenzati dall’immaginario e dai temi cristiani.
“Oddio”, starete pensando, “e che c’entra?”
C’entra nel momento in cui il villain è ADAM, in cerca del suo EVE (e il fatto che Eva qui sia un uomo è un altro aspetto centrale, come vedremo dopo). C’entra nel momento in cui Langa, che viene fatto intendere sia cristiano, viene spesso rappresentato come un angelo, come qualcosa di sacro, mentre sfreccia ed esegue trick sullo skate. C’entra nel momento in cui una delle scene cardine dell’anime è incentrata attorno al perdono, al fare un passo nei confronti dell’altro per sanare le divergenze, pur non avendo un tornaconto. C’entra nel momento in cui uno skate viene narrato visivamente come la mela del serpente, il peccato originale, ma anche come il gesto di “porgere l’altra guancia.”
Io sono agnostica, non mi riconosco in nessuna religione, men che meno in quelle monoteiste, le mie basi di catechismo sono ormai sbiadite, eppure i parallelismi alle tematiche e alle situazioni cristiane mi hanno lasciata spiazzata per la precisione e genialità con cui vengono inseriti all’interno dell’anime, soprattutto perché non sono un mero estetismo, ma sono a tutti gli effetti fondamentali per comprendere l’opera e il suo non detto, di cui l’anime è pieno. Gli sceneggiatori di “SK8 The Infinity” hanno fatto i compiti e li hanno fatti bene, perché alla fine, quando tutto è concluso, pare abbiano una comprensione più chiara loro del nucleo del cristianesimo rispetto a moltissimi cristiani qui in Occidente.

E a proposito di non detto, dietro alla creazione di “SK8 The Infinity” c’è nientemeno che Hiroko Utsumi, già conosciuta per “Free!” e “Banana Fish”. Non dovrebbe forse sorprendere, quindi, che “SK8 The Infinity” è pieno di sottotesto queer. Di norma tento di essere abbastanza cauta parlando di sottotesto queer, ma trattandosi di Utsumi (e leggendo alcune dichiarazioni dello staff e dei doppiatori giapponesi) sono abbastanza certa di non starla sparando troppo lunga. A partire dal contesto attorno a “S”, a come i personaggi interagiscono tra loro, fino alla presentazione di alcune scene e dialoghi chiave, diciamo che c’è sia la sottigliezza per chi sa dove guardare, sia la teatralità nel definire una corsa un appuntamento o un torneo un matrimonio.
Prima di tutto, “S” è un evento chiuso, a cui si entra tramite accurata selezione e in cui, cosa più importante, le persone spesso arrivano vestite/truccate con outfit/make-up appositi o addirittura mascherate. Tutti o quasi hanno un nickname con cui sono conosciuti all’interno di “S” e una delle regole vieta proprio ai partecipanti non solo di divulgare location e accesso, ma anche solo di chiamare qualsiasi altro partecipante con il suo nickname “S” all’interno della vita normale. Che suona un po’ come una metafora molto sottile per un drag show o per un ball. (Mi rendo conto che molte persone, soprattutto qui in Italia, siano estranee a queste realtà, ma in fondo nella vita non si smette mai di imparare, no?)
Abbiamo poi ADAM, rampollo di una famiglia ricca e politico in ascesa di giorno e padrone di “S” di notte, skater più abile dell’intero circolo dai modi teatrali ma anche aggressivi, in un mix curioso che ricorda villain come Hisoka e Dio Brando. Una persona che deve nascondere la sua affiliazione con “S” a ogni costo e che, mentre le zie ricche gli organizzano il matrimonio combinato di convenienza, lui organizza un torneo chiamato “White Eden Wedding Beef” per corteggiare il suo EVE.
Abbiamo poi il modo in cui la relazione fra ADAM e altri due personaggi ricordi nei fatti un triangolo amoroso, con uno di loro definito senza troppi giri di parole "third wheel" (terzo incomodo); il fatto che l’atto di andare sullo skate venga più volte ribadito essere un atto d’amore; il fatto che “S” stesso venga definito un “appuntamento romantico”.
Qui siamo ben oltre la strizzata d’occhio alle fujoshi, anche perché l’anime non intende fare nessun tipo di “baiting”: è tutto lì, sotto la luce del sole. Un personaggio che si presenta di fronte a un altro con un mazzo di rose rosse, o che entra in una sintonia talmente profonda da oscurare il resto, non sono gesti contestualizzati come sketch comici: sono lì per dirci che, se leggiamo le attenzioni di determinati personaggi nei confronti di altri come attrazione, beh, non ci stiamo sbagliando. Certo, per alcune cose occorre avere gli strumenti per osservare e comprendere. Ed è qui che sta, secondo me, tutta la sua genialità: palese solo se sai coglierne i segni (e le citazioni), quindi tremendamente sottile, ma al contempo talmente plateale, da essere difficile da negare.

Chiudo questa recensione dicendo che quest’anime per me è stato una rivelazione, non perché sia un capolavoro della narrazione contemporanea, ma perché è chiaramente un prodotto d’amore come al suo tempo lo era stato “Yuri!!! On Ice” (dal cui confronto “SK8 The Infinity” esce vincitore in termini di ritmo, chiarezza e pulizia visiva, ma, questo no, non in termini di intensità emotiva e personaggi). È chiaro che Utsumi e i suoi sono, se non appassionati di skate, assolutamente dediti a conoscerne il funzionamento e lo spirito, e a mostrarlo con convinzione e senza trattenere nulla, anche e soprattutto quando si tratta di esagerare per amore della tenuta scenica dell’opera.
“SK8 The Infinity” è esattamente quello che succede quando un gruppo di persone con tanta passione ha il budget giusto per produrre qualcosa di visivamente bello e la maestria nel saper tessere una storia e, soprattutto, delle metafore e tematiche che, per quanto semplici, sono solide e intrattengono.
Per questo si porta a casa un meritatissimo 8, che vorrei avesse un mezzo in più, ma mi duole ammettere che ho trovato il finale un po’ affrettato e la backstory “sui senpai” troppo scarna rispetto a quanto fatto intendere nel corso della storia. Un episodio in più avrebbe assolutamente giovato a questa serie, elevandola ancora di più.
Resta comunque il fatto che si tratta di un ottimo prodotto e che, se tutti gli anime per così dire leggeri avessero questo carisma, questo amore e questa attenzione ai dettagli, staremmo parlando di tutto un altro panorama dell’animazione.
Come direbbero gli inglesi, bravo!

7.5/10
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"Chi non stima la vita, non la merita" (L. Da Vinci)

"Summer Ghost" rappresenta una sorpresa inaspettata: è un cortometraggio animato (di una quarantina di minuti di lunghezza) sulla vita e sulla morte. Sembra sviluppare un po' una trama alla "Anohana", ma se ne differenzia in modo netto (e in meglio...), perché lo stratagemma dello yūrei è utilizzato nella storia non per risolvere un rimpianto o una questione irrisolta, quanto piuttosto per trasmettere il messaggio che l'esistenza la si apprezza quando si è in procinto di perderla o la si è persa.

In sé la trama non è nulla di particolarmente complesso o articolato. È una metafora fantasy in puro stile nipponico (malinconico e intriso della consueta dolce tristezza).
Tre amici si ritrovano per rievocare una leggenda in cui in un aeroporto abbandonato è possibile rievocare un fantasma di una ragazza che si crede morta suicida. Ci riescono, e già in modo inquietante il fantasma afferma che loro possono vederla perché sono a vario titolo "vicini" alla morte: "Solo coloro che contemplano l'idea della morte possono vederla".

Dei tre, Tomoya Sugisaki è il più determinato a conoscere il fantasma e a capire il motivo per cui appare a chi la evoca. Gli altri, Ryō Kobayashi e Aoi Harukawa, inizialmente non danno peso all'ossessione dell'amico, ma poi lo assistono per aiutare lui e lo stesso fantasma di Ayane Satō, per consentire a quest'ultima di raggiungere il Nirvana.

Cerco di non esagerare con gli spoiler: in un film così corto, a proseguire nel raccontare la trama si rischia di svelare tutto... Posso solo scrivere che il film esplora in modo delicato e poetico il motivo per cui ciascuno dei tre stia "contemplando" la morte, il motivo per cui Ayane appare e la natura della sua morte, che si credeva per suicidio.
Il ruolo di Ayane mi ha anche suggerito che il suo "fantasma" fosse più la proiezione dell'immagine della morte per i tre ragazzi piuttosto che lo spirito alla ricerca del Nirvana (tipo "Ride Your Wave").

E in un certo senso il dialogo tra Tomoya e Ayane che si trasforma in lui in un certo frangente del film mi ha un po' ricordato un film di tanti anni fa del maestro Ingmar Bergman, "Il settimo sigillo", anche se il paragone è parecchio azzardato... In quel film il tema centrale era la fede, che dovrebbe superare anche la morte. In "Summer Ghost" si vola molto più in basso, ma la domanda è sempre la stessa: "Non credi che sarebbe meglio morire?" E il rapporto un po' equivoco tra Tomoya e Ayane (con una lieve sottotraccia di attrazione) si spiegherebbe proprio con la convinzione non ancora matura di Tomoya di "farla finita".

Il limite più grande di questo cortometraggio è proprio la sua durata: quaranta minuti sono troppo pochi per una storia di sofferenza e poi redenzione per chi pensa di sfiorare volontariamente o suo malgrado la morte fino all'estremo trapasso. E concentrandosi più su Tomoya e Ayane, vengono molto meno sviluppati i "drammi" di Ryo e Aoi.
E così congegnato, il finale risulta a mio avviso un po' "rushato" e approssimativo nell'evoluzione di chi resterà con una migliore determinazione ad affrontare la vita... Per assurdo, chi resta sono coloro che pensavano di smettere di affrontare l'esistenza, mentre il destino beffardo ha privato della vita proprio coloro che tale problema non se lo ponevano proprio. Altro messaggio metaforico del dramma e dell'ingiustizia dell'esistenza umana su cui il film avrebbe potuto "dire" molto di più.

Mi preme evidenziare anche alcune peculiarità tecnico-stilistiche di pregio, oltre a disegni, sfondi e colori molto belli e realistici: atteso il tema trattato, i personaggi sono disegnati come eterei e sono rappresentati con uno stile pallido e "abbozzato", quasi da renderli indistinguibili sia quando sono "vivi" sia quando sono "spiriti"; altra originalità è rappresentata da come in forma di "spirito" i personaggi attraversano la materia solida e in particolare vanno sotto terra: sono raffigurati come se attraversassero l'acqua e restassero immersi in essa, con tanto di bolle...

Il film non presenta ovviamente un finale risolutivo, ma prova a indicare solo una possibile "strada", perché, in fondo, "la vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia!" (K. Gibran).