Settant'anni fa la Seconda guerra mondiale ebbe fine, con l'immagine del grande fungo di fumo che si innalza con lo sgancio dell'atomica. Negli ultimi anni il nucleare ha mietuto nuovamente delle vittime, orchestrando uno dei più grandi disastri di sempre, insieme al terremoto e allo tsunami che hanno colpito la costa del Tōhoku l'11 marzo 2011. È in un tempo come questo che dalla regia di Mizuho Nishikubo nasce il progetto di Giovanni no shima (ジョバンニの島, l'isola di Giovanni), lungometraggio di circa un'ora e quaranta minuti, che affida ai bambini il delicato compito di ridare speranza al paese, all'indomani della grande tragedia. Come il bellissimo fiore di loto sboccia nel fango maleodorante, così dalle macerie di città decadute fioriscono i semi di una nuova umanità. Una speranza per il domani. La speranza portata dai bambini e dai loro genitori che sull'attenti, come i soldati prima di affrontare una guerra, combattono una continua battaglia per assicurare la vita ai propri figli. Come scrive Fukunaga Shin in un racconto del post-3/11: «quasi tutte le cose di questo mondo sono sulle spalle dei bambini. [...] Ogni giorno, ogni notte, da qualche parte si presenta un problema abbastanza, straordinariamente, enormemente grande. E ogni volta i bambini, con coraggio e impegno, si prendono l'incarico di trovare la soluzione.»

Junpei e Kanta Senō, due fratellini orfani di madre, conducono una vita tranquilla nell'isola di Shikotan, che protetta dai soldati dell'Alba, non ha assaporato la guerra nella sua forma più crudele. Nell'agosto del 1945, però, l'URSS occupa militarmente il villaggio di pescatori in cui vivono i ragazzi e inizia una massiccia deportazione degli uomini nei campi di concentramento sul suolo russo. Grazie all'innocenza dei piccoli protagonisti, quello che dovrebbe essere uno scontro fra civiltà diverse, diviene incontro di esistenze. Simbolica, in questo senso, è la scuola elementare divisa in due classi, quella russa e quella giapponese, che abbatte il muro divisore e trova comunione soltanto nell'intonazione dei reciproci canti popolari da parte dei bambini, che nella curiosità di scoprire il nemico vi ritrovano un principio di amicizia. È nell'infanzia, l'età vulnerabile, quella a cui si deve rendere conto degli errori commessi e delle volte che si è finto di non vedere, che Giovanni no shima individua i principali referenti del debito che ogni adulto contrae con un essere umano, e proprio in loro trova una spinta decisiva per portare avanti un discorso nel quale i bambini insegnano ai più grandi com'è che si sta al mondo.
 

Il Giovanni del titolo non è altri che Junpei, il cui nome è una trasposizione del Giovanni protagonista del racconto Una notte sul treno della Via Lattea (河鉄道の夜 ginga tetsudō no yoru) dello scrittore e poeta Miyazawa Kenji, che come interlocutore privilegiato delle sue storie ha scelto proprio i bambini. Lo stesso vale per il nome del piccolo Kanta, ispirato al Campanella della medesima favola. Ed è proprio all'opera di Miyazawa che Giovanni no shima si rifà, riportando in auge gli stessi temi e facendo vivere ai personaggi un destino simile a quello dei predecessori. Il famoso racconto narra di quando Giovanni, stanco dopo una dura giornata di lavoro, sulla via del ritorno a casa, dove lo aspetta la madre malata, si sdraia su una collina a riposare. Nel frattempo si imbatte in un maestoso treno e vi riesce a salire. Su quel fantastico treno incontra il suo amico Campanella e gli promette che insieme andranno avanti lungo tutto il tragitto. Tuttavia, durante il viaggio, si accorgono che il serpentone elettrico della Via Lattea non è altro che un mezzo per raggiungere l'aldilà e, ogni volta che una persona scende alla fermata, abbandona per sempre la vita. Proprio come Giovanni e Campanella, Junpei e Kanta salgono su questo fantastico treno, che a suon di ciuff ciuff percorre i binari di bianco latte; e lì si promettono a vicenda di non lasciarsi mai. Su questo treno incontrano tanti passeggeri, e ognuno di essi interpreta un ruolo nelle vicende che vivono: ad esempio, conoscono la dolce e bella Tanya, una bambina russa che si insedia nella loro vecchia casa assieme alla sua famiglia; si lasciano trascinare dallo spirito libero dello zio Hideo, che sfida i russi durante i suoi viaggetti sulla terraferma; si affidano alle cure materne della maestra Sawako; rincorrono il viso del padre Tatsuo al di là del filo spinato... ma soprattutto lottano per guadagnarsi un futuro, in cui la luce delle stelle non è oscurata dalla guerra e in cui la diversità si annulla dinanzi alla vita.
 

Uno dei temi portanti del film è la venerazione del furusato (故郷). L'attaccamento a quello che gli inglesi definiscono col termine «hometown», è stato per i giapponesi una continua fonte di ispirazione nei secoli addietro. In Giovanni no shima, l'isola di Shikotan, appartenente all'arcipelago delle Curili, vittima di un contenzioso tra il Giappone e la Russia per decenni, diviene il simbolo della patria decaduta, che il 15 agosto 1945 riceve via radio, attraverso la voce dell'amato imperatore, l'annuncio della resa nella Seconda guerra mondiale da parte dell'esercito nipponico. Dopo lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, il Sol Levante è costretto a inchinarsi al vincitore, vivendo il tramonto degli ideali nazionalisti che avevano acceso la guerra ma ridotto il paese in un cumulo di macerie e di anime vaganti. In questo modo, la decisione del nonno di morire nella sua isola, e precisamente come fanno i pescatori nel mare, le cui profondità sono state fonte di sostentamento per il popolo giapponese per secoli, è simbolica tanto quanto fu la morte dell'imperatore Meiji, che segnò la fine di un tempo e l'inizio di un nuovo Giappone. La grande fenice, che risorge dalle sue ceneri e mai il capo abbassa dinanzi alla morte, ancora una volta è chiamata al rinnovo. Lo sventolante vessillo, bianco con al centro l'enorme cerchio rosso, è agognato per tutto la durata della pellicola in un continuo anelito di speranza. Così è dall'isola che Junpei scappa per ribagnare nella giapponesità le sue membra stanche di tanto vagare; così il medesimo all'isola fa ritorno, per ritrovare il se stesso perduto nel vento, assieme al disegno della dolce fanciulla russa che gli aveva catturato il cuore.
 

Il film, realizzato da Production I.G, ha una grafica evocativa. In particolare l'utilizzo delle colorazioni degli sfondi, che passano dalle tonalità calde dell'isola patria alla scala di grigi delle località russe innevate e ostili, trasmette il cambiamento che la famigliola giapponese vive con lo scorrere dei mesi. In questo senso, è ancor più poetica la trasformazione dell'ambiente in un cielo stellato solcato da una locomotiva che attraversa il blu trapunto di luci, portando sulla scena le immagini che Miyazawa invocava in uno dei suoi racconti più significativi. Come in un sogno, nel cielo attraversato dal treno della Via Lattea ogni stella rappresenta una persona, che abbandonate le spoglie mortali è volata sul soffitto del mondo, brillando per chi da quaggiù ha bisogno ancora di lei. La morte, intesa nel suo significato buddhista di metempsicosi, è sì separazione e sofferenza da chi ci lascia, ma nel ciclo della rinascita regala la serenità di un incontro futuro. Ed è così che osservare il cielo diviene rassicurante, ed è proprio guardando il firmamento che l'uomo riconosce di essere uguale, perché tutti gli uomini abitano sotto lo stesso cielo e non ci sono uomini con cieli diversi.
Altrettanto evocativa è la colonna sonora, che riporta alla memoria canzoni popolari, in un intreccio di cori di civiltà, che dinanzi alla musica si spogliano della loro bandiera e accolgono il prossimo nel calore di casa propria. La musica, infatti, non fa distinzione, e ricambia sempre l'amore che l'uomo gli dimostra ponendo in riga le sette note. Il culmine viene raggiunto nell'inno al furusato che accompagna i titoli di coda: la patria è una madre che accoglie in un affettuoso abbraccio i figli dispersi per il mondo.
Il character design potrà far strizzare gli occhi agli amanti del bel disegno in stile manga, ma è un buon ritratto del tipo asiatico, che viene immortalato nei suoi occhi a mandorla, in visi dalla mascella pronunciata e nei suoi caratteristici colori bruni. Si passa dalla durezza del volto del padre di Junpei, all'ilarità del visino del piccolo Kanta che suscita nello spettatore una grande tenerezza. D'altra parte, anche i russi vengono ben delineati nelle loro fattezze fisiche, in quegli splendidi capelli biondi, in quei meravigliosi occhi azzurri e in quella carnagione bianca come la neve che cade fitta in casa loro, e che tanto fa contrasto con la pelle scura dei giapponesi. Questo realismo figurativo ben si adatta ad una storia di guerra, che nella fiction narra di eventi che potrebbero tranquillamente essere accaduti.
Il doppiaggio, infine, è coinvolgente nella sua alternanza di lingue diverse. Pregevole è infatti la scelta di lasciar parlare ogni civiltà nella lingua madre: si odono perciò sia il giapponese, sia il russo e, nella seconda parte, anche il coreano. Sono pregnanti i dialoghi fra Tanya e Junpei, che nonostante utilizzino lingue diverse riescono a comprendersi, perché siamo tutti uomini e in quanto tali apparteniamo alla stessa specie.
 
«Fino a quando il mondo non conquisterà la felicità nessun uomo potrà essere felice»: queste parole di Miyazawa alimentano la convinzione profonda che occorra sentire il dolore di tutti, anche di chi è lontano, poiché non vi è diversità nella sofferenza, e la felicità dell'individuo non può prescindere dalla felicità del mondo intero. In tempi di guerra e distruzione come quelli che corrono oggi, quindi, Giovanni no shima è una visione obbligatoria, perché insegna che senza fratellanza fra l'uomo non ci potrà mai essere pace, e quindi non ci potrà mai essere felicità. Nell'utopia di un futuro senza morte, gli uomini salgono sulla locomotiva della Via Lattea e insieme si affacciano dai finestrini per intravedere le costellazioni, ritornando per un attimo bambini. Quei bambini che non conoscono la guerra e che agli eroi dei libri letti dai genitori come ninna nanna votano il proprio credo. Delicato ma intenso, struggente e commovente, profondo eppure ingenuo, un piccolo capolavoro che rievoca Gen di Hiroshima e i suoi piedi nudi.